Mitobotanica – Simone Siviero

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IL GIUDIZIO:

mitobotanica saggio di simone siviero edito da temposospeso

Amo gli endemismi. Arricchiscono i luoghi. Li vivificano, li rendono unici, speciali. Sono come una lettera d’amore rivolta a un paesaggio.

È tempo di sfogliare

Settembre, andiamo. È tempo di sfogliare. Ora in terra d’Italia i miei lettori lascian gli scazzi e vogliono imparare.
E un bel libro ce l’ho, ce l’ho, che una tale richiesta può soddisfare.

Ah, perdonatemi la volgare riscrittura di un classico, ma… non ho resistito. Settembre è un bel mese (nonostante l’allergia mi tormenti), ha quel fascino non so che dei periodi a metà, di transizione. Comincia con le ultime propaggini dell’estate, e finisce con i primi sussulti dell’autunno (il quale, vi ricordo, è la mia stagione preferita, eh, eh). I cieli tersi, di un azzurro pennellato che sfuma perfettamente nel verde ormai delicato delle chiome degli alberi; l’aria limpida e leggera, quasi ferma, che per un attimo ti dà l’idea che il tempo sia sospeso; e poi, dopo l’equinozio, quella luce che si fa in punta di piedi sempre più soffusa, sempre più ovattata, un sipario di seta che cala sull’operosità estiva della natura. Bello, bello, bello, settembre, no?

E allora, come vi ho anticipato, se è bello settembre come un quadretto, ci vuole un libro per completare la composizione. Eh sì, la bellezza sensuale, e la bellezza intellettuale: godere del bello con le nostre facoltà percettive, e goderne con le nostre facoltà intellettive. Il titolo che secondo me, appunto, si addice ottimamente è questo: Mitobotanica. Ah, capite subito perché ve lo propongo: evidentemente, esso parla di piante, di natura, ed è in diretta continuità con il tema bucolico della mia piccola, piccola introduzione.
Uhm, sì, carino, però per poter dire valido un libro non ci si può limitare ad annuire continuando a osservare il titolo. Giusto, giusto. Facciamolo, quindi! Esaminiamo con occhio netto questo minuto lavoro…

Il libro comincia con… una… nota? Una lettera? Non saprei bene come definirla, però, ehi, sono parole rivolte “A te che leggi”:

Questo è uno dei libri che ci è piaciuto recuperare dal catalogo di Pentàgora […].
Mitobotanica […] è l’incontro tra la ricerca filologica, rigorosa nella citazione delle fonti e nell’argomentazione, e l’arte divulgativa, affinché, per quanto possibile, nessuna persona sia esclusa dalla comprensione e dal piacere della buona lettura.

Va bene, lettori, ormai sapete, un tempo avrei tranquillamente saltato le premesse, le prefazioni, le introduzioni e i panegirici di presentazione, ma oggi che i libri sono sempre più contorti e incomprensibili, un occhio lo butto sempre. Stavolta mi trovo una descrizione molto stringata, dritta al punto e, direi, anche gentile e amichevole, senza avere la parvenza di una viscida lusinga da teleimbonitore. Be’, caratteristiche niente affatto scontate in mezzo alla massa di pura pubblicità che solitamente fa da corredo ai premiati, ai primi in classifica e ai consigliati dai quotidiani. Oh, ma sì, sì, certo, c’è bisogno di una piccola spiegazione a proposito di ciò che abbiamo appena letto.
Quell’iniziale riferimento alla casa editrice Pentàgora… uh! Non mi piace parlare specificamente degli editori, soprattutto perché avrei poco da dire: non conosco il processo che porta alla pubblicazione di un dato libro, e bacchettare o elogiare troppo non mi sembrano praticabili, infatti non credo esista a questo mondo un editore che non abbia mai preso più d’una cantonata, e parimenti non c’è editore che non si sia riscattato pubblicando delle autentiche gemme. Non cambierò queste mie linee guida, ma nel nostro caso mi sento di dare qualche notizia. Vi informo che Pentagòra, dopo un decennio, ha fermato le stampe nell’autunno del 2022, se non vado errata, per “la fatica e le troppe spese”. Ebbene, da quel che ho capito, una nuova casa editrice a “gestione familiare”, questa Temposospeso, contro ogni buonsenso commerciale ha cercato di riaccendere la fiamma, proponendosi di non abbandonare all’oblio i vecchi testi di Pentagòra (a quanto pare molti di carattere agreste, o, più icasticamente, “contadino”). Mitobotanica è appunto uno dei salvati.

E cosa è stato salvato, dunque? Chiara è la lettera, “ricerca filologica” e “arte divulgativa”. Mi piace, almeno come promessa, ecco. Lo so, lo so, c’è anche quel “citazione delle fonti”: spaventa. Spaventa in special modo perché abbiamo fatto incontri orribili, a proposito di fonti citate: il solito Fusaro, Carofiglio Gianrico detto “Il Gianni”, persino Veltroni coi suoi, sigh!, “gialli”. Ehi, lettori, noi non siamo né prevenuti né vendicativi né testardi né razzisti né… ehm, noi siamo intelligenti, via. E siamo perfettamente consapevoli che non c’è nulla di male nelle fonti filologiche: male è l’uso (sconsiderato) che alcuni gasati fanno delle stesse, male è servirsi di esse senza aver prima padroneggiato la buona scrittura, così da non ridurle a meri elenchi. Ehi, “arte divulgativa”: supponendo che l’editore conosca la lingua italiana, mi aspetto qualcosa. Perciò… sì, dai, niente paura, io vado fiduciosa, e fiduciosa sono che voi veniate appresso a me, lettori.

Soggettività senza spocchia

Uhm, uhm, le prime parole di Simone Siviero, il nostro autore, sono contenute, ancora, in una introduzione, e di essa riporto en passant questo stralcio…

Possiamo rinchiuderci in città fatte di cemento, se vogliamo, possiamo tenere il mondo vegetale fuori dalla porta di casa, ma il nostro essere più profondo sarà sempre, in qualche modo, legato a esso. […] Scrivo questa piccola introduzione confinato in casa […] e intanto guardo fuori dalla finestra. Ogni due righe distolgo lo sguardo dal monitor e mi perdo a osservare i giochi del vento tra le chiome degli alberi in giardino. E, appena oltre, la montagna che si alza e il verde brillante della primavera che, giorno dopo giorno, si avvicina alla vetta. Ogni macchia di colore è un albero; ogni albero è un essere vivente con una storia da raccontare.

… giusto per farvi notare che sì, effettivamente Siviero sembra avere un animo incline alla poesia, all’arte in senso ampio (“divulgativa”, precisava l’editore, ma tant’è, restiamo sul generale). O, meglio, secondo me ha un animo incline a quella sorta di meditazione poetica che si rivela l’essenza di un tipo di personalità. Bene, fantastico, è una partenza incoraggiante! Attualmente, sappiamo, la nostra letteratura è infestata di soggettività, storie di vita, sensazioni private… insomma, proliferano le autobiografie e le stramaledette autofiction. Dopo tante brutture, purtroppo, c’è il rischio di prendere in odio qualsiasi impostazione anche solo vagamente intimista, e questo è l’ennesimo peccato da ascrivere agli incapaci strapompati dal “big marketing”: sì, perché non c’è nulla di male nel raccontare la soggettività. Bisogna saperla raccontare, tutto lì: senza spocchia, senza invadenza, senza ossessioni.

E ciò che abbiamo appena incontrato nelle parole di Siviero sembra appunto adeguarsi alle suddette semplici norme di buona scrittura (e di buona creanza). A differenza di altri celebrati e strapremiati “inni”, non abbiamo un “io, io, io, fortissimamente io”: c’è un… un tizio che se ne sta sognante alla finestra e si perde nei suoi pensieri. Un archetipo, no? E voi, lettori, ricordate quante volte ho insistito sull’importanza degli archetipi. È altresì evidente che Siviero ha una passione, una passione di quelle brucianti, forti. Ottimo, ci piace: oh sì, anche se magari non condividiamo e non comprendiamo, è sempre bello partecipare dell’entusiasmo altrui. E ancor più bello, di sicuro per noi che abbiamo come passione le lettere, è notare che Siviero non ci ha aggrediti con un “a me mi piace questo, e poi mi piace quest’altro, e poi a me mi piace…”, esposizione tipica, ancora una volta, di numerosi babbei da classifica. No, è dallo sguardo che non riesce a star fermo sul monitor e dalla precisa (ma, appunto, soggettiva, perché spontanea e priva di aridi tecnicismi) descrizione di cosa c’è fuori dalla finestra che il nostro autore riesce a comunicarci che cos’è per lui la felicità: un buon esempio di show don’t tell, già. Dunque è ancora possibile raccontare come si deve l’interiorità, e commuove davvero dover constatare che è un minuscolo saggio di filologia e di botanica a rivelarsi un buon esempio: eh, sì, commuove che il pubblico sia costantemente indirizzato altrove, perdendosi così quel che vorrebbe trovare.
Ma, eh, lasciamo stare, non divaghiamo. Oltrepassiamo l’introduzione, l’avvertenza legale che consiglia di non andare in giro per boschi a mangiare tutta la verdura che si incontra, e… be’, cominciamo a leggere la polpa di Mitobotanica.
No.

Bella scrittura fuori stagione

Che?! No?! Esatto, lettori, no. Prima del primo capitolo c’è… un disegno. Uhm, riduttivo: è un… una… illustrazione… no, non proprio… uff, l’editore, prima non l’ho riportato, la chiama “tavola”. Sì, a ogni capitolo siamo accolti da una tavola, opera di Giulia Allasio, raffigurate il vegetale che le parole di Siviero poi racconteranno.

mitobotanica aconito illustrazione di giulia allasio

Ciao, sono l’aconito: mangiami, se non ti piace vivere!

Sono spesso un po’ infantile nelle mie recensioni, me ne rendo conto, perciò non vi stupirà il mio confessarvi che mi piacciono molto i libri illustrati. Però, forse vi viene una perplessità, perché in passato ho alzato sdegnosamente il sopracciglio, davanti alle immagini introduttive dei capitoli. Sì, parlo de La signorina Nessuno, che aveva delle immaginette in bianco e nero a corredo delle sue sezioni. Che, adotto una sorta di doppiopesismo, forse? No, il fatto è che le illustrazioni de La signorina Nessuno erano appese, inconsistenti, sembravano i doodle che le ragazzine scarabocchiano sui loro diari, o, il che forse è anche peggio, dei tatuaggi tamarri (i quali potrebbero forse star bene su un’autrice di poes… su una poeta, ma su una silloge… mmmh!).
Le tavole di Giulia Allasio, invece, sono a ogni evidenza coerenti con l’opera, la completano senza sbalzi e, idealmente, estendono la prosa di Siviero. Sono anche molto belle, nella loro semplicità e nella loro formale accuratezza: hanno quel colore netto e vivace che, da solo, costringe la mente a richiamare tutte le altre sensazioni che la natura, di volta in volta nel corso delle stagioni, con ostentata indifferenza ci regala. È una mia associazione di pensieri, ma le illustrazioni mi ricordano anche i lunari contadini, o i poveri (poveri per valore economico, non spirituale) quadretti a ornamento delle vecchie dimore rurali, pregne della fragranza del camino e del fieno che riempie le stalle. E non solo, mi richiamano alla memoria gli erbari del passato, perfino i disegni di Darwin, questi però riferiti perlopiù a un altro regno biologico, ovviamente. Pensieri selvaggi, senza dubbio. Insomma, tutto questo per dire che la Allasio ha fatto proprio un lavoro eccellente, gradevole al massimo: no, niente sopracciglio perplesso, stavolta solo occhi ben aperti e compiaciuti.

Ma allora, arriviamo al sodo? Sì, niente più vie traverse, state tranquilli. Ebbene, il primo capitolo, come appunto ho anticipato, riguarda una pianta: l’aconito. In effetti, le cose non sono così sterili: Siviero intitola i capitoli di Mitobotanica, scegliendo per essi parole suggestive che racchiudono, invitando alla lettura, il contenuto didattico del testo. “Il flagello dei lupi” è appunto il titolo scelto per introdurre l’aconito. Potendo io vantare di avere un pollice verde solo immergendolo nella tempera dei bambini dell’asilo, non ho idea di cosa aspettarmi dal capitolo, pertanto, uhm, vi confesso, sono curiosa. Queste le prime frasi che incontro:

Ho il brutto vizio di visitare i giardini e gli orti botanici sempre nella stagione meno indicata. L’orto botanico di Leida, nella fattispecie, è il più antico dei Paesi Bassi, e lo visitai in una giornata di
inizio novembre. Non esattamente la stagione giusta per i fiori. Qualche colchico qua e là a punteggiare il prato, qualche dalia che ancora non si sottometteva al freddo.
Non mi aspettavo certo le macchie di colore che si potrebbero vedere in Olanda al tempo della fioritura dei tulipani, perciò grande è stato il mio stupore – o forse era più un moto di gioia – nello svoltare un angolo del sentiero, aggirando una siepe, e nel ritrovarmi in una porzione nascosta di giardino, in cui campeggiava una grande aiuola di aconito fiorito.

Dell’aconito non so ancora niente, a parte che è una pianta angiosperma, a quanto pare (eh, eh, vabbè, l’avevo già capito dall’illustrazione, ma faccio finta di nulla). Smaniate forse anche voi per colmare la lacuna botanica a proposito dell’aconito, però vi chiedo di aspettare e di lasciare che commenti l’incipit che ho trascritto: dopotutto, forse un poco di letteratura ne so, e qualcosa mi dice che voi non siete qui per perdere tempo e vedermi fare la scolaretta che impara delle novità.
Dunque, non voglio fare paragoni troppo azzardati, anzi, tuttavia l’incipit scelto da Siviero mi ricorda vagamente il mio amato Moby Dick. Anche in Mitobotanica abbiamo una frase fulminea, piana, e scevra di orpelli retorici. È sempre una furbata, perché grazie a essa la nostra attenzione è inevitabilmente catturata. Nel nostro caso, poi, abbiamo tutti gli elementi che servono per tratteggiare il contesto che, nel prosieguo del testo, effettivamente ritroviamo. Che cosa è importante, infatti, dell’incipit? Lo sapete voi come lo so io: “orti botanici” e, soprattutto, “fuori stagione”. Non ci interessa come è vestito l’io narrante, non ci interessa se ascolta gli Arctic Monkeys, non ci interessa se viaggia molto, non ci interessa se è un tipo forte ma anche sensibile: non ci interessa e appunto, grazie al cielo finalmente!, non troviamo nessun riferimento a tali informazioni. Orti botanici fuori stagione: questo dobbiamo tenere a mente, per comprendere quel che segue, e questo in effetti teniamo a mente. È la forma stessa del testo a imporci uno sforzo di concentrazione su tali elementi, non si scappa. Le parole del nostro autore sono disposte in modo che naturalmente la nostra attenzione cada su ciò che è rilevante.
Ottimo! E come continuiamo?

Con alcune precisazioni. È giusto, dopo aver tratteggiato la cornice di riferimento: abbiamo un’idea abbastanza delimitata, ma ancora vaga, diamole dei contorni, delle ombreggiature, delle lumeggiature. Detto, fatto: “Leida”, ovviamente i “Paesi Bassi”, una “giornata di inizio novembre”. Poi c’è una considerazione: “[n]on esattamente la stagione giusta per i fiori”. In apparenza è una ripetizione inutile, Siviero aveva già detto che visita sempre gli orti nella stagione sbagliata. Vero? In realtà no, lettori, non è vero. Il nostro autore non ha semplicemente ripetuto, ci ha dato una nuova, importante informazione: la stagione non è adatta “per i fiori”. Ah, prima aveva omesso tale dettaglio! Certo, la stagione è sempre sbagliata, ma sbagliata… rispetto a cosa? Per i frutti, magari. O per le pigne. O… addirittura per la vita di certe piante, che sappiamo muoiono con l’inverno (o con l’estate). No, ora sappiamo che quella volta, in quel luogo, la stagione era inadatta… ai fiori. Perché ha senso di esistere questa precisazione, che cosa ci dice? Ci dice che il capitolo parlerà, eh, eh, di un vegetale con fiori; e ha senso di esistere perché, invece di troncare il discorso con un invadente “ehi, gente, tra poco vi parlo di pistilli e roba simile!”, integra l’informazione nel flusso del testo, riprendendo quanto detto precedentemente in termini vaghi, generali, e definendolo meglio.
In soldoni, quella frase da niente ci rinfresca la memoria e aggiunge un elemento importante al nostro quadretto mentale. Altra sottile prova di padronanza della tecnica, da parte di Siviero.

Veleno sott’olio

Proseguendo, compaiono ulteriori notizie molto utili. Sempre manifestando il medesimo artificio, ossia ripresa e aggiunta, Mitobotanica ci istruisce sulla natura fondamentale dell’aconito, il quale, essendo protagonista del capitolo, è giustamente introdotto proprio sul finale dell’apertura descrittiva. Anche quest’accorgimento di Siviero è a regola d’arte: chi frequenta la poesia sa che la fine del verso è il punto su cui si concentra maggiormente l’attenzione, e pertanto è buona regola posizionare proprio lì le parole e i concetti più importanti del componimento. Qualcosa di simile avviene in prosa: delineate idealmente delle unità di testo, la coda di esse certamente cattura le aspettative e l’attenzione di chi legge, perciò, se si ha qualcosa di importante da comunicare, è appropriato inserirlo in tale posizione.
Et voilà, senza sforzo alcuno, anzi con una certa soddisfazione per aver dopo molto tempo incontrato una scrittura competente, abbiamo capito che quest’aconito ha dei fiori molto… uh… accattivanti? Sì, cioè, che non passano inosservati. E come sono, esattamente? Be’, dalla tavola della Allasio e dalle successive parole di Mitobotanica scopriamo che sono…

[…] fiori blu così belli e velenosi.

Lettori, la mia lezioncina, la mia lezioncina. Che cosa c’è “alla fine del verso”? Esatto, “velenosi”. Ecco ciò che importa davvero. Più dei fiori e della loro bellezza, evidentemente, il capitolo esalterà della mortale dotazione dell’aconito. Interessante, no? Interessante e gradevolissimo da leggere, siamo d’accordo. Ben per l’editore che non mi ha mentito, all’inizio!

Bene, il veleno. E… via, un paragrafo tascabile ci istruisce a riguardo:

Negli anni a venire ho spesso incontrato l’aconito in montagna […] con i fiori gialli, più allungati […]. E quando lo incontro mi torna alla mente un monito della professoressa di botanica, che […] ci raccontò come alcune persone, in gita in montagna, avessero raccolto gli ‘asparagi selvatici’ e li avessero messi sott’olio. In realtà erano i giovani getti dell’aconito. Ricoverate d’urgenza in ospedale, furono salvate per un pelo…
La prima regola del raccoglitore di erbe spontanee, quindi, è essere assolutamente certi di ciò che si raccoglie.

Come potete notare, Siviero non devia dalla regola di scrivere quel che serve senza inutili lungaggini. Senza cedere a un’attacco noioso, del tipo “l’aconito dell’orto botanico aveva i fiori blu, ma ne esiste una varietà che invece ha i fiori gialli, e questa varietà, come l’altra, cresce in montagna…” e bla, bla, bla, Mitobotanica è più dinamico e diretto: il nostro autore, evidentemente, si gode delle escursioni ad alta quota (ancora quella soggettività discreta, eppure coinvolgente, in un certo senso “amichevole”), e in tali occasioni incontra l’aconito giallo. Basta, tutto qui, esiste un aconito con i fiori gialli: abbiamo capito, e non abbiamo dovuto faticare, il libro ci ha risparmiato il compito di saltare mentalmente le parole accessorie.
Altra informazione che ci aspettavamo di trovare, appunto riferita al veleno: l’aconito è pericoloso, sì… tuttavia si può sopravvivere, anche se “per un pelo”. Ah, e la simpatica piantina facilmente si confonde con gli asparagi selvatici, quindi è meglio fare attenzione e non improvvisarsi dei Bear Grylls, quando si va, ehm, “all’avventura”. D’accordo, interessante, ma per me, come c’è da aspettarsi, è più interessante il modo in cui tutto ciò è esposto. Abbiamo una… uh… mise en abyme, direi… sì: infatti, Siviero ci racconta un ricordo a proposito dei pericoli dell’aconito, e questo ricordo è un racconto della professoressa di botanica a proposito dei pericoli dell’aconito…

Ehi, non male, vero lettori? La mise en abyme può sembrare chissà quale artificio letterario, difficile, roba per scrittori polacchi minimalisti morti suicidi (e tant’è che puntualmente anche critici di spessore si sentono confusi e la tirano in ballo a sproposito), ma… uh… nouh?! Eggià, ci vuole poco, alla fine: quattro righe e abbiamo lì bell’e pronta una mise en abyme coi fiocchi. Niente di speciale, un aneddoto in un aneddoto, però funziona alla grande. Siamo stati tutti a scuola e anche se, come ho affermato altrove, non vogliamo più saperne di lezioncine, rievocare episodi di quel contesto ci ben dispone, solitamente. Sì, perché, appunto essendo la scuola un’esperienza archetipica, ci sentiamo coinvolti nel discorso: noi magari non abbiamo mai frequentato ore di botanica, tuttavia abbiamo sicuramente, al pari di Siviero, molte storielle da raccontare, perciò il fatto che proprio nel libro ne incontriamo una, ci trasporta subito a una tavolata in cui si chiacchiera del più e del meno. È un contesto che creaiamo noi stessi, Mitobotanica ha solo quelle parole, nient’altro.
Niente divagazioni sulle circostanze in cui l’aneddoto della prof. è stato raccontato, punto e basta. E in sostanza è stato raccontato in quel modo, niente dettagli a proposito di cifre e statistiche, niente “ibidem”, niente “et alii”, non ci interessa nulla del genere. E ciò è proprio un esempio di buona scrittura: buona scrittura è quando un libro, per la tecnica che manifesta, riesce a indurre il pubblico a formare tutti gli elementi accessori utili a perfezionare e a mantenere lo stato emotivo più consono al contenuto del testo. Nel nostro caso, idealmente stiamo conversando di argomenti (semi)dotti, e dunque è opportuno che ci si senta rilassati, calmi, con la mente pronta a balzare da un concetto all’altro. Pertanto, ottimo lavoro, continuano le impressioni positive.

Pomi d’oro e “asparagi” mortali

Dopo il piccolo spazio dedicato al veleno nel suo aspetto puramente materiale, comincia una sezione che tratta del veleno come motivo di sviluppo del mito, delle leggende, delle storie. Insomma, del simbolismo legato all’aconito. Mitobotanica, appunto.
Siviero marca il cambio di argomento con due domande che, idealmente, si sta ponendo il suo pubblico:

Da dove nasce un veleno? Da dove nasce questa pianta, considerata la più tossica presente sul suolo europeo?

Ci aspettiamo risposte scientifiche, in effetti i quesiti riguardano la natura del veleno. Già, ma con un altro semplicissimo, eppure tanto efficace, artificio, il nostro autore attacca a discutere del mito:

Non può che nascere dal mondo degli inferi o, meglio, dalla contaminazione della terra con qualcosa di infernale. Racconta il mito che, tornato dal Giardino delle Esperidi, dove ha rubato i pomi d’oro custoditi dalle ninfe, Eracle […]

Sì, certo, nonostante che sia diverso dalla scienza moderna, in fondo il mito ha (anche) la stessa funzione, ossia colmare le lacune della nostra conoscenza del mondo! E appunto ricordandosi di tale funzione del mito, Siviero riesce a scrivere di esso evitando la sensazione di una netta cesura con la parte più “materiale” e sistematica del capitolo, che abbiamo in precedenza esaminato. Non abbiamo un “le cose stanno così, adesso vediamo cosa si credeva una volta”, no, il discorso è coeso e non ci sono salti, benché il tema trattato sia di tutt’altra specie. Anche in questa circostanza, dunque, e senza chissà quali mirabolanti e arcani sforzi stilistici, Mitobotanica si lascia leggere con piacere, dando finalmente la sensazione che, ehi, qualcuno che un minimo ne capisce di come si discorre con gli altri ancora esiste!
E va bene, abbiamo visto nominato Eracle, perché da buon filologo mi sa che il nostro autore non sa nascondere l’amore per la versione originale, greca, del mito. In una paginetta, Siviero ricapitola il combattimento fra l’eroe e Cerbero, l’ultima delle dodici fatiche. Per l’ennesima volta, il testo è veloce e scevro di rallentamenti inutili, anche se, dato il tema, Mitobotanica prova a condire un po’ il riassunto, rendendolo il più immaginifico possibile:

[…] per l’ultima delle sue dodici fatiche, deve scendere nel ventre della terra e trarne fuori il guardiano, l’orrendo cane, il gran vermo che con tre gole caninamente latra, per dirla con Dante: Cerbero.
Dapprima ha paura l’eroe […]; e ha paura Cerbero di fronte al figlio di Zeus e Alcmena, ma poi, dopo un momento d’incertezza, Eracle si avventa sulla bestia.
La lotta è selvaggia; Eracle blocca la fiera prendendola per il collo e mena colpi con la mazza possente. I latrati tremendi rimbombano nel buio; Ade e Persefone tremano sul loro trono.
Battuto, stordito, vinto, Cerbero si piega infine al volere dell’eroe […]. C’è una grotta buia, racconta Ovidio, cui si accede per una fenditura tenebrosa. Ed è la porta dell’Ade, dalla quale esce Eracle vittorioso. Ma la luce del sole ferisce gli occhi della belva incatenata. Cerbero, abituato all’oscurità perenne, si contorce, si dimena, latra. Schiumano di rabbia le tre bocche e dai denti colano sul prato gocce bianche di bava infernale. La terra le accoglie e genera fra le pietre un’erba rigogliosa, tossica come tossica è la saliva del cane: l’aconito.

Uhm, vedete subito, c’è una citazione di Dante. E poi è menzionato Ovidio. Allora, l’ho detto e lo ripeto, il citazionismo è sempre un male… quando è fine a sé stesso. Siccome innumerevoli autori contemporanei, soprattutto quelli più impegnati intellettualmente, non hanno molto da dire e non sanno come dirlo (anzi, sembrano non sapere nulla tout court), essi di norma si accontentano di riempire pagine e pagine con parole altrui. Ehi, è un life hack! In tal modo si riesce a portare avanti per mezzo chilo di carta un libro che, altrimenti, sarebbe composto di sei pagine (di cui due bianche, due di note legali, una di prefazione, e una di testo, con margini inferiori e superiori che insieme fanno metà foglio); inoltre, le citazioni servono sempre a darsi un tono: se uno cita prima Dante, poi Gramsci, poi Canetti, poi don Milani… uff… e be’, quel tipo sarà di sicuro una gran testa d’uovo, no?
Lettori, ormai avete incontrato abbastanza mie recensioni e siete consapevoli che la testa non è d’uovo, ma d’altro. Quindi è comprensibile che, davanti a una qualunque citazione, si attivino i vostri sensi per avvertirvi del pericolo. Tuttavia, così come ci sono i serpenti corallo e i falsi corallo, ci sono le citazioni pericolose e quelle innocue. Il nostro è il secondo caso: Siviero si concede le parole dantesche con uno scopo preciso, ossia descrivere Cerbero. Pensateci, d’altronde c’è un modo più efficace per descrivere il mostro? Può un qualunque “non Dante” uscirsene con qualcosa di meglio di “gran vermo che con tre gole caninamente latra”? Nah, e lo sa bene anche il nostro autore. Quindi, detto fatto, due piccioni con una fava: Cerbero è introdotto come si deve e la citazione ci ricorda inoltre che il mito ha attraversato epoche e civiltà, non è rimasto confinato nel tempo perduto dell’antichità classica.
Analoga osservazione per Ovidio, che è semplicemente parafrasato e funge da fonte per la parte finale del riassunto: come a voler dire “ehi, questa cosa di Cerbero che viene trascinato fuori dalla grotta e sbava, se volete, la trovate detta meglio e in maniera più approfondita da Ovidio”. Tutto qui, la funzione dei due riferimenti letterari è chiara e giustificata. Non c’è davvero il rischio di provare imbarazzo o irritazione, così come invece accade quando ci si ritrova a dover sfogliare un Fusaro o un Recalcati. O un Rovelli, che non usa le citazioni per farsi bello, ma per cucinare un incomprensibile intruglio che pare metà mistico e metà “action”, vabbè.

La polvere della lotta

Oltre alle citazioni, notate, nel brano che ho riportato, numerose frasi concise e lineari, con poche subordinate e una certa abbondanza di coordinate. Questo non è lo stile smozzicato à la Baricco o à la Missiroli: le proposizioni sono brevi, sì, tuttavia non sono monche, difettose, e anzi contengono tutti gli elementi necessari a capire di che cosa si sta parlando. Appunto, il discorso è il riassunto di una scena di combattimento: è naturale che servirsi di subordinate, implicazioni e una caterva di vari costrutti sintattici “difficili” non sia il modo migliore di procedere. È necessario essere brevi, sia per rispettare le costrizioni che un buon riassunto richiede, sia per adeguarsi al tema trattato, il quale di certo non si accoppia idealmente a soluzioni che allungano il tempo della narrazione, essendo dinamico ed eccitante. Bene, dunque, trovare soggetto, verbo, complemento, punto fermo.
E altrettanto un bene è che Mitobotanica ci proponga termini descrittivi che trasmettono solennità, evitando però di cedere a forme eccessivamente auliche. Si parla di mito, quindi non è proprio come raccontare della giornata tipo di un panettiere; e quindi ci sta che Siviero usi un “si piega infine al volere dell’eroe” invece di un più comune “si arrende”. Ma andare oltre, ad esempio con un “si prosterna in segno di disfatta dinanzi alla possanza dell’invitto divo”, sarebbe oltremodo ridicolo. È roba da lasciare al solito Fusaro e, appunto, il nostro autore sta decisamente alla larga da simili (non) modelli di scrittura.
Perfetto, abbiamo scoperto cosa pensavano i nostri antenati a proposito dell’aconito, della sua origine e della sua tossicità. Come continua il capitolo (perché continua, eh)? Nella recensione è stata menzionata più volte la parola “filologia”. Indovinate un po’? Presentato il mito, Siviero si dedica a trattare dell’aconito. Ehm, intendo proprio del nomeaconito”:

Il primo a dare una descrizione botanica dell’aconito è Teofrasto, botanico allievo del filosofo Aristotele, vissuto tra il IV e il III secolo a.C., che ne collega il nome ad Acona, città della Bitinia (in Asia Minore), dove si diceva crescesse particolarmente abbondante. Tuttavia, sono state proposte anche altre etimologie. Ovidio, alla fine del racconto citato, suggerisce l’idea che derivi dal greco akone, pietra, in quanto cresce in luoghi sassosi. Pure la parola greca akonitos, nel suo significato di ‘non coperto dalla polvere della lotta’, è stata proposta (forse un riferimento al fatto che può uccidere senza che ci si sporchi le mani?), così come si dice che Aconitus fosse chiamato il luogo dello scontro tra Eracle e Cerbero. Tante proposte, eppure l’etimologia reale sfugge anche ai linguisti moderni.

Ah, che soddisfazione, dopo tanti pseudosaggi (che ho letto volontariamente eh, mannaggia a me!) strabordanti di approssimazioni, inesattezze, e palesi stupidaggini inventate, mi ritrovo Teofrasto che strizza l’occhio e dispensa una fulminea nozione etimologica. E poi, ancora Ovidio, che risponde idealmente a Teofrasto e rilancia con un significato più terra terra (no pun intended). La mia proposta etimologica preferita, però, è quella di “non coperto dalla polvere della lotta”: eh, eh, molto arguta, si concentra sulla tossicità, la quale in effetti dà gli stessi risultati di un sanguinoso scontro fisico, evitando la fatica dello stesso. Ovviamente, di là da tutto questo, ciò che più sta a cuore al nostro autore è ricordarci che non c’è affatto consenso sulla reale etimologia di “aconito”. Come spesso accade, le parole si perdono nella notte dei tempi, e la ricerca filologica può finire per trasformarsi quasi in un gioco di bocce, con gli addetti ai lavori che, almeno nella mia immaginazione, tra loro gareggiano per “avvicinarsi di più” a un invisibile boccino.

Insomma, nuovamente abbiamo un testo breve, che dà quel che si ripromette di dare, evitando di ridursi a un asettico elenco con elementari espedienti (connettivi, subordinazioni isolate, minime riprese dei concetti all’introduzione di nuovi… ) capaci da sé di distinguere una scrittura gradevole, e leggibile, da una grezza e ributtante. Oh, davvero, nulla di eccezionale: l’uso dei connettivi e delle fulminee riprese è roba scolastica (se s’insegnano ancora), quelle sono alcune tra le prime dritte da seguire per comporre pagine apprezzabili. Com’è giusto che sia, ai giorni nostri, c’è bisogno di far notare che un autore si attiene a simili regolette, e se questa sorta di necessità lascia l’amaro in bocca, è comunque un sollievo constatare che non tutto il buonsenso (e il buongusto) stilistico-grammaticale è stato drenato dalla cultura nostrana.
Quindi, ancora un bravo a Siviero, che non ha ceduto né a improbabili virtuosismi à la Chiara Valerio né a noiosissime rievocazioni di seminari universitari à la… ehm… boh, qui potete metterci il paragone che volete, lettori, gran parte dei saggisti di fama sembra non riuscire a scrollarsi di dosso i panni del barone accademico…

Be’, devo in ogni caso supporre, e con ciò ammettere, che la parte prettamente filologica del capitolo, e così di tutto Mitobotanica, può risultare alquanto… uh… “tosta”. Direi che se il saggio in sé già non è proprio una pizza con birra, le etimologie sono quasi delle escargot con Pinot noir. Per apprezzare pienamente bisogna essere un po’ degli estimatori, ecco. Attenzione, “estimatori” in senso lato: se di questioni, appunto, filologiche, tanto meglio, tuttavia è sufficiente essere estimatori della conoscenza in generale per compiacersi d’aver sfogliato le pagine di Siviero. Ehi, questo non è affatto un problema, in fin dei conti! Sicuro, non so se mai avrò modo di trarci qualcosa di utile dal sapere come Ovidio raccontava l’origine del nome “aconito”, ma… suvvia, sono in ogni caso contenta di aver carpito un briciola in più di sapere. E sono certa che chiunque di voi lettori (perché voi siete lettori di alto livello, essendo qui a confrontarvi con le mie recensioni, e non altrove con “recensioni”) mi potrà far eco, dopo aver letto il saggio.
E poi, uhm… be’, magari posso già sfruttare Mitobotanica per punzecchiare gli amici (dopo che ne avrò trovato qualcuno, LOL) con uno sfoggio gratuito di erudizione. Dico, lo fa Carofiglio ai party chic, e proponendo delle nozioni distorte, che a me non è consentito?! Ma sì, via, e allora credo che… credo che mi servirò di questa “curiosità”:

Aconitum lycoctonum […] [:] la parola lycoctonum è un altro termine interessante, in grado di svelare, ancora prima di leggere la descrizione dioscoridea, l’impiego che duemila anni fa si faceva della sua radice tuberosa: uccidere i lupi. [Racconta Dioscoride che] La usano per la caccia al lupo, nascondendone dei pezzi nella carne cruda. Il lupo la mangia e muore. Tanto diffuso dovette essere tale utilizzo nei secoli che ancora oggi uno dei nomi inglesi più diffusi per indicare la pianta è wolfsbane, ‘il flagello dei lupi’.

Ah, spiegato il titolo del capitolo! Eh sì, fino a questo punto non mi era chiaro il riferimento: cioè, ovvio, l’aconito e i lupi non vanno d’accordo, ma perché? Ho pensato c’entrasse Cerbero, il quale è… è un canide, dopotutto… invece no, dietro c’è una crudele (ma forse necessaria, almeno “duemila anni fa”) pratica di “pest control”, la quale è all’origine, stavolta certa, di altri due nomi dell’aconito: quello scientifico, e quello più popolare inglese, appunto “wolfsbane”. Interessante, interessante.
Anche se ciò che più mi rallegra del brano è il naturale passaggio dal discorso etimologico a quello storico e, di nuovo, a quello etimologico. È uno zigzag che porta con sé il rischio di lasciare scoperte delle giunzioni, delle “seam lines” come direbbero i modellisti, ma… no, ancora una volta il nostro autore se la gioca bene e la lettura scorre liscia, priva di bruschi salti. C’è forse un piccola, piccola macchiolina, quel “tanto diffuso” seguito a ruota da “più diffusi”, però… dai, può capitare, succede pure a me e nemmeno troppo di rado, pertanto è giusto lasciar correre, non mi posso permettere di fare la fiscale e la pedante, con questo libriccino.

Wollemia editoriale

Ebbene, Siviero chiude il capitolo dedicato all’aconito proponendo ulteriori notizie storiche intrecciate a riferimenti documentali, ancora sul tema dell’uso concreto della pianta come mezzo per eliminare bestiacce sgradite… a quattro o a due zampe:

[…] non furono soltanto i lupi a sperimentare la potenza del veleno dell’aconito. […] si dice che Lucio Domizio Enobarbo (il futuro imperatore Nerone) se ne sia servito per uccidere il padre adottivo Claudio, solleticandogli la gola con una penna intrisa del succo della pianta […]. E a tal punto dilagò la macabra moda in Roma che l’imperatore Traiano si vide costretto a proibire la coltivazione della pianta nei giardini domestici. Sull’isola greca di Chio, invece, permaneva l’impiego della pianta come tossico per l’eutanasia di anziani e infermi. Per tutto il medioevo in Europa ne rimase comune l’uso come veleno da freccia, tanto che nella Penisola iberica se ne hanno attestazioni ancora nel XVII secolo. L’applicazione sulle punte delle frecce o delle lance risale ad antica data: se ne trova traccia anche nel ṚgVeda (1200 a.C.). […] In Nord America, invece, gli Aleuti dell’Alaska meridionale ricorrevano all’aconito per avvelenare gli arpioni utilizzati nella caccia alla balena.

Piccola nota personale: e chi si ricordava più che Nerone aveva un altro nome?! Eh, eh, sembra strano, ma… davvero, non sai mai quando, dove e come imparerai (o ricorderai) qualcosa. Per me, è un altro punto a favore di Mitobotanica, e un’ulteriore giustificazione dell’opinione molto positiva che fin qui vi ho proposto.
A essere precisa, ultima propaggine a proposito del nostro “flagello dei lupi” è una citazione tratta dai Discorsi cinquecenteschi di Pietro Andrea Mattioli, testo che… non… conoscevo… ah! In effetti, non soltanto il capitolo sull’aconito termina con le parole di Mattioli; in altri casi, invece, l’autore ci propone in chiusura brani tratti da fonti diverse, e pochi sono i finali scevri di tali citazioni. Addirittura il capitolo dedicato al cedro riporta… no, non la Bibbia… l’Epopea di Gilgameš. Quest’idea… mi piace, sì. Come le altre sparse qua e là, non si tratta di vane manifestazioni di una supposta erudizione dell’eutore: le parole provenienti da altre opere completano il testo, e ci offrono inoltre la possibilità di un confronto fra ieri e oggi.
Sì, è bello sperimentare un’appassionata lezione di Siviero, ma è anche meglio cogliere un briciolo della passione che, in tempi ormai remoti, ha animato la penna di autori tanto distanti per competenze, formazione e obiettivi. Perché, diciamolo, il nostro autore può (davvero senza tema d’essere bacchettato) parafrasare e spiegare quanto vuole, ma dodici versi puri tratti direttamente dall’Epopea di Gilgameš non potranno mai essere superati, per ciò che riguarda la capacità di comunicare con noi che cosa effettivamente gli occhi degli antichi, istruiti dal mito, vedevano quando si volgevano al verde del mondo.

Altri capitoli, ho detto. Sì, ce ne sono ventitré (se ho contato giusto, eh, eh), tutti ovviamente corredati dalle piacevolissime illustrazioni di Giulia Allasio: ventitré, direi, è un numero sufficientemente alto da soddisfare l’esigenza di incontrare una buona dose di varietà nel contenuto del saggio. E appunto, da un lato incontriamo vegetali a noi ben noti, come il fico e il mais, dall’altro ne scopriamo altri che, meh, forse forse ci sono oscuri, come la berardia e la wollemia, quest’ultima un tesoro assoluto (almeno per chi, come me, ama i bei tempi andati dei dinosauri).

mitobotanica sorbo illustrazione di giulia allasio

Io sono il sorbo e… oh! Un uccellino mi sta azzimando (forse).

Dunque, questi capitoli, queste piante, e… e io mi fermo qui. Esatto, questa è una recensione, non un riassunto: e se altri “blog” non conoscono la differenza, be’, io la tengo sempre a mente. Soprattutto, perché la lettura è un piacere intimo, che non va guastato troppo dalle chiacchiere di contorno. D’altronde, l’analisi che ho fin qui condotto, pur non esaustiva, è sufficiente per stuzzicarvi l’idea che, sì, Mitobotanica merita. È un bel libro, curato sia dal punto di vista autoriale, sia dal punto di vista (non meno importante) editoriale. Davvero, so di averlo ripetuto fino alla nausea, però sono contenta che si stampino ancora opere così, in barba alle cantonate (perché questo sono) del mercato e alle linee guida di questa o di quella lobby. Sono contenta, nondimeno sento una punta di tristezza, quando penso che, al pari di tanti e tanti altri libri (alcuni dei quali già recensiti, eh!), Mitobotanica è un po’ come la wollemia che celebra: una specie ormai rara e in via di estinzione.

Lettori, c’è però una speranza. Come per le specie biologiche in pericolo esiste la possibilità di intraprendere azioni concrete volte alla loro salvaguardia, così per le specie culturali in pericolo c’è l’occasione di fare qualcosa per salvarle. Io posso fare qualcosa, voi potete fare qualcosa: potete andare in biblioteca o in libreria e insistere per avere una copia di questi bei libri totalmente trascurati da classifiche, inserti “culturali” e simposi “colti”. Potete chiedere all’amico che possiede una copia di prestarvela; o potete prestarla voi stessi, incoraggiandone la lettura. Fatelo, fatelo con Mitobotanica e con gli altri suoi degni compagni, che vi ho presentato in passato: discorrete di essi, non impelagatevi in sterili discorsi da bar (anzi, da apericena) sui Sembrava bellezza, sugli Spatriati o sui L’appello.
Fate anche voi la vostra parte, affinché la nostra letteratura, in tutti suoi generi, non sia spazzata via da mode effimere, da diktat assurdi e da sconclusionate strategie commerciali. È non solo una sorta di obbligo morale e di impegno civile, è anche un attivismo che potreste voler concepire mosso da obiettivi puramente egoistici. Eh già, perché solo se i buoni libri riusciranno a salvarsi dall’estinzione, tutti noi potremo ancora compiacerci, in futuro, d’aver fatto una buona lettura!

Sara

Ciao! Sono la fondatrice del blog letterario "Il pesciolino d'argento", amo profondamente i libri, l'arte e la cultura in generale.

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