L’ora del caffè – Giorgia & Gianrico Carofiglio
C’è un termine inglese, difficile da tradurre in italiano se non con locuzioni o perifrasi, che rende con molta efficacia un importante connotato del temperamento narcisista: entitlement. Esso consiste nella convinzione radicata e patologica di avere diritto a qualcosa per via di presunte doti speciali, perché si è diversi e superiori rispetto agli altri.
E sediamoci a ’sto tavolo
Le cose si mettono male, manca un minuto e mezzo, ué! Chi ci salverà da quest’incubo nero? Io dico: un eroe forte, coraggioso, intelligente, che non si limiti alle semplici parole. Oppure, Gianrico Carofiglio.
Sì, io ci provo, provo a fidarmi. Del resto, non ho tante alternative. I capi americani e i capi russi sembrano aver finalmente deciso di abbandonare il fardello del pensiero, lanciandoci verso un eccitante casino finale, e in libreria (o in biblioteca) cosa trovo? Carofiglio. Un nuovo saggio di Carofiglio. Sì, poi c’è anche Fabbricante di lacrime, ma quello l’ho già letto e… meh… non è che mi abbia suggerito una soluzione alla crisi internazionale. Va bene, rivolgiamoci a Carofiglio…
Il mondo sta sudando freddo, ho premesso, e perciò il nostro autore… decide di concentrarsi sul fenomeno dei “boomer”. Sì, cioè, i missili, quelle robe lì, però i boomer… oh cacchio, i boomer… dai, parliamo di loro. Accortosi di aver superato i sessanta, Carofiglio ha sviluppato una specie di crisi di terza età, sfociata nell’impellente bisogno di ricongiungersi con i “gggiovani”, per dimostrare a sé stesso e a tutti noi (ma soprattutto a sé stesso) che i boomer, ammesso che esistano, non sono così male. E hanno tante belle idee sul mondo e sulla vita. L’impresa non è da poco, ed ecco perché questa volta il nostro eroe ha stabilito di non agire da solo, chiedendo l’aiuto di… di sua figlia. Ma non perché è sua figlia, no, è perché Giorgia Carofiglio non può identificarsi come boomer (è mia coetanea e io decisamente NON sono una boomer… nah, nah… no… no!). E poi perché è sua figlia, e quindi è in qualche modo costretta ad aiutarlo.
Bene! Dopo aver arruolato la sua Robin, il nostro Batman mette in pratica il suo piano geniale, cominciando benissimo e dando al saggio un titolo da boomer che più da boomer non si può. Mirate: L’ora del caffè. “Buongiornissimo… caffè?!”, già. Occhei, facciamo finta di niente. Che roba sarà L’ora del caffè? Ce lo spiega il sottotitolo: Manuale di conversazione per generazioni incompatibili. E la presentazione conferma:
Stanchi di «conversare a vuoto», Giorgia e Gianrico Carofiglio si sono seduti a un tavolo e hanno affrontato con occhi nuovi alcuni degli argomenti che più li hanno divisi. Questioni che riguardano ciascuno di noi come il clima, il femminismo, il cibo. La politica.
Uao, una specie di dialogo socratico? Be’, se la struttura del saggio è quella, mi garba. Almeno, è una mezza novità, nella stantia palude della saggistica italiana. Allora, introduzione. Introduzione e… e parla Carofiglio. Gianrico. O, meglio, non si sa di preciso chi parla, non ci sono dei botta e risposta, non ci sono “io” e “tu”, non ci sono nomi e cognomi; nondimeno, io ho letto gli altri saggi di Gianrico, e poiché il lessico, le scelte sintattiche, gli artifici retorici, i temi e addirittura gli errori di queste pagine sono gli stessi che ho già incontrato, mi sento di affermare che al novantanoveenovepecciendo il narratore è lui. Per il momento, fidatevi, poi addentrandovi nella recensione vedrete da voi.
Ahi, ahi, dunque parla lui, e appunto comincia subito a prenderci a calci nel cavallo dei pantaloni, con una noiosissima cronistoria del concetto di “boomer”:
Una veloce ricerca ci dice che nel 2019 «ok boomer» è stata eletta parola – o meglio «locuzione» – dell’anno dai lettori di un giornale neozelandese ed è arrivata seconda in una competizione in Svizzera.
[…]
«Boomer» si riferisce ai Baby Boomer, la generazione che è nata tra il dopoguerra e il 1965. «Ok boomer» è l’epitome della frustrazione che i giovani, ormai anche trentenni, provano nei confronti dei nati durante il boom demografico […].
Ehm. E ci ricorda pure il famosissimo caso della tizia neozelandese che chiama “boomer” un vecchio… wow…
[…] la deputata venticinquenne che ha apostrofato con questa espressione il collega, molto più grande di lei, che l’aveva interrotta durante un discorso sull’emergenza climatica ai membri del parlamento neozelandese.
Oh, come farebbe il nostro autore a scrivere senza aneddoti? Sotto questo aspetto, si approccia alla stesura di un saggio con l’entusiasmo di un bambino che corre su una spiaggiaccia di Terracina e senza riflettere porta ai genitori tutte le meraviglie che trova: un tappo è una variopinta conchiglia, una siringa è un pesce ago, un profilattico usato è una stranissima medusa allungata. Riuscite a capire quei genitori, vero? Non c’è da stupirsi: quei genitori siete voi.
D’accordo, basta con le citazioni, eh? E basta sia. Carofiglio ci esaudisce, mollando all’improvviso le notizie dal web. Le molla e ci rassicura, un dialogo ci sarà, è una promessa:
Bisognava aprire una finestra l’uno nell’universo dell’altra, e viceversa.
Ci piace pensare che nel risultato finale, frutto faticoso di scritture e riscritture, si possano intuire le diverse posizioni da cui siamo partiti e il movimento dialettico che le ha avvicinate, smussate, mutate.
Le conversazioni fra due generazioni apparentemente incompatibili, insomma.
Trip filosofico
Ohi cazz! Da quant’è che ha smesso con gli aneddoti? Serve subito un’altra dose. Tranquilli, per garantire un minimo di varietà, ecco che ora Carofiglio si fa una striscia di aneddoti filosofico-mistico-scientifici, suo feticcio fin dai tempi di Passeggeri notturni:
Il biologo Jakob von Uexküll ebbe un’intuizione rivoluzionaria. Fino ad allora, gli studiosi avevano considerato il regno animale come un’entità unitaria in contrapposizione alla varietà dell’esperienza umana.
E così via, ci sorbiamo una pagina intera che parla di zecche, di formiche, di serpenti, di mucche (mucche?! Ahi, ahi, la vedo male…) e del modo in cui questi simpatici animaletti percepiscono il mondo. D’accordo, se il nostro eroe si fermasse a raccontare queste storielle, il suo contributo al libro sarebbe semplicemente quello che potrebbe fornire Nonno Simpson, ossia una caterva di parole inconcludenti e noiose.
Nah, Carofiglio è troppo tosto per limitarsi a fare l’anziano ciarliero: a lui piace trarre delle conclusioni, dagli aneddoti che ripete. E abbiamo la prima tesi de L’ora del caffè, così, senza tanti complimenti:
[…] un filo d’erba appare del tutto diverso alla formica e alla mucca. Non esiste un universo unico, oggettivo: ci sono solo universi individuali.
[…] Tendiamo tutti a pensare che quanto percepiamo grazie ai nostri sensi e alla nostra esperienza sia un’entità oggettiva. Ci capita raramente di fermarci a immaginare che forma abbiano le cose viste attraverso gli occhi di un altro.
E no, e no, e che, cominciamo?! Anche supponendo che zecche, mucche e carofigli percepiscano il mondo in maniera soggettiva, che diavolo autorizza a concludere da ciò che non esiste un universo oggettivo?! Ci può ben essere un mondo oggettivo che è la causa delle percezioni “individuali” (e diverse fra loro)! Oh, Gianrico, l’idealismo soggettivo, anche quello à la Berkeley, è ben lontano dall’essere filosoficamente morto, ma se ti piace una posizione teorica simile dovresti informarti meglio, ed evitare di sostenerla con argomenti che non sono argomenti! La mia obiezione, del resto, è classica, rispetto alle proposizioni di un certo idealismo soggettivo: proprio contro Berkeley e il suo “master argument”, si fa spesso la distinzione fra cause (oggettive) delle percezioni, e percezioni (soggettive) stesse. Che poi, questa specie di “master argument” carofigliano è addirittura più debole dell’originale di Berkeley: manco lo sforzo di impararti quello ha fatto? No? “Gli animali hanno percezioni soggettive, perciò non esiste un universo unico, oggettivo”, davvero? Davvero, o forse no, infatti poco più avanti Carofiglio prova a chiarire la sua teoria…
Ciò che chiamiamo «realtà» dipende non solo dal mondo esterno, cioè dai nostri sensi, ma anche dalla nostra esperienza passata, dalle nostre credenze, dal contesto, dai vocaboli che usiamo per descrivere noi stessi e gli altri.
… facendoci venire il mal di testa. Quindi la realtà è un guazzabuglio che dipende anche da un “mondo esterno” il quale è… uh… identico?… ai nostri sensi, i quali a loro volta sono soggettivi e dunque individuali e non unici, perciò la realtà, in realtà, è realmente non una, ma…
Che fatica. D’altronde, il nostro autore lo ammette (in effetti la seguente citazione si riferisce ad altro, eh), e con uno stile adeguatamente sgrammaticato: “[l]e cose sono abbastanza più complicate”.
Belandi!, questo è quanto. Questo è quanto ho capito io, almeno. E Giorgia non ha nulla da aggiungere. Mi lascia nella pupù fino al collo, a interpretare la filosofia di suo padre.
Non importa, il buon Gianrico, evidentemente a nome di tutti e due, termina di presentare il saggio con un’ulteriore rassicurazione, avendo probabilmente intuito le mie perplessità:
Così abbiamo smontato e rimontato discussioni del passato che spesso erano finite male. O anche molto male. Questa volta con uno spirito di curiosità e sperimentazione. Con la convinzione che non conta trovare risposte precise e univoche, ma un modo diverso di costruire le domande.
Dovevamo riuscire a prendere sul serio l’uno il punto di vista dell’altra.
State bbboni, il dialogo arriverà, arriverà. E sarà un dialogo ad alti livelli, con Gianrico e Giorgia che, immagino su decisione del primo, si atterranno a questo principio:
[…] «principio di carità interpretativa»: l’idea che quando ci scontriamo con la posizione di un nostro interlocutore dobbiamo farlo prendendo in considerazione la versione migliore della sua tesi.
Sì… il principio è “abbastanza più complicato” di così… uhm, dai, fa lo stesso, l’intenzione continua a piacermi. Se non altro, perché immagino che finalmente vedrò le “tesi” di Carofiglio senior trangugiate da qualcuno che non sono io.
Oh Natura, mi appello a te…
C’è il primo capitolo. Carofiglio il Vecchio, col suo stile inconfondibile, ci racconta di un confronto con Carofiglia la Giovane, svoltosi “più o meno così”:
La prima di tutte le nostre discussioni alla pari è nata da una decisione: quella di non mangiare più carne.
[…]
Una famiglia (in questo caso, la nostra) si riunisce dopo mesi. Entrambi i figli vivono in città diverse, se ne sono andati anni prima. È Pasqua: il piatto principale è l’agnello, com’è sempre stato.
Che palle. Per farla breve, Giorgia ha una specie di momento etico e intende autoescludersi dal club degli onnivori. Bla, bla, bla, il fratello la prende un po’ in giro, la madre è perplessa, sono affari miei, colpa sua, colpa tua… “stronzate del genere”, come direbbe il buon Joe Cabot. Poi l’escalation si aggrava, Giorgia comincia a fumare dalle orecchie, e… il racconto si interrompe. Be’, io insisto ad affermare che questa è la versione di Gianrico. Ora vediamo come ce la propone… oh… no? No, macché, parla ancora Gianrico. Ci ha raccontato la storia, ora va al sodo e riflette sulla storia. Si fa una domanda interessante e originale:
Perché si smette di mangiare carne?
E poi si dà una risposta altrettanto interessante e originale:
La causa scatenante di regola è emotiva. Raramente si tratta di una scelta razionale: le ragioni vengono dopo. Questo peraltro è in linea con il funzionamento del nostro ragionamento morale. Secondo lo psicologo Jonathan Haidt […].
Ahhhh… risposta incredibilmente arguta, e poi… nulla, parte subito per la tangente con la solita gonorrea di citazioni. Ce n’è un po’ per tutti i gusti, da Il mio amico in fondo al mare, un documentario di Netflix che ha affascinato Carofiglio perché gli ha insegnato che un polpo può essere emotivo e intelligente quanto (ma forse anche più di) lui, a Martha Nussbaum, evocata allo specchio la notte di Halloween e poi lasciata lì a marcire nel mucchio degli aneddoti. Almeno arriviamo a un punto teorico di rilievo? Ehhhh… insomma… cioè, le citazioni riempiono le pagine, sono in linea con quanto imparato all’università… già, non si conclude un granché, è vero. Tutto ciò che Carofiglio ha da proporci (di vagamente comprensibile) è di nuovo la cosiddetta “fallacia dell’appello alla natura”. Ve la ricordate? Gli era piaciuta da morire già ai tempi di Della gentilezza e del coraggio, pur non avendola capita, ai tempi. Sul serio, il nostro va matto per questa roba, non perde occasione per parlarne. È un po’ un’ossessione senile, no? Ebbene, da bravo vecchietto, Gianrico ci trascina nel suo hobby, spiegandoci che molte discussioni sulle diete assicurano che un certo alimento è “naturale”, e così facendo sbagliano, perché…
Quando diciamo che qualcosa è naturale, implicitamente (ma, come vedremo, in modo fallace) stiamo associando la natura a uno standard di moralità.
Io aggiungerei che in molti individui si tratta di una tendenziosità difficilmente evitabile perché è naturale, ma… oh, no, non posso dirlo, sto “associando uno standard di moralità”, sto commettendo una fallacia. Carofiglio, Carofiglio, sempre a generalizzare, sempre poco preciso nello scrivere… va be’, lasciamo perdere. Ora, il discorso sulle fallacie può essere interessante, ma è interessante se si approfondisce un po’, se si mettono in luce le sottigliezze. Immagino abbiate notato che ho usato la parola “tendenziosità” e non “fallacia”, termine che può risultare un po’ ambiguo. Ecco, Carofiglio potrebbe spiegarci che l’appello alla natura è in sostanza una tattica retorica, e non un errore logico in senso stretto. Infatti, certi ragionamenti che la sfruttano (“se x è naturale, allora è buono; x è naturale; quindi x è buono”) sono perfettamente validi, spesso sono dei semplici modus ponendo ponens. Quel che non va in questi casi è la premessa: un condizionale che emotivamente ci piace (perché siamo abituati, spesso dalla pubblicità, ad associare la natura alla bellezza e alla salute), ma che in effetti si rivela falso, campato in aria, fuori luogo. Fatto noto, non basta imparare i meccanismi strutturali del ragionamento, per avere ragione. Eh, chi se ne frega, Carofiglio non parla approfonditamente di questo. Be’, a onor del vero, più avanti fa una precisazione e menziona la natura retorica della fallacia, però ditemi voi se questa frase…
Si tratta di un pretesto retorico, un errore di ragionamento […]
… vi chiarisce le idee. Insomma, è un “pretesto retorico” o è un “errore di ragionamento”?
Il più grande Carofiglio del Pleistocene
Ah, magari Giorgia saprà… no, Giorgia non c’è, parla ancora suo padre. E suo padre appunto non si sforza granché di andare oltre quelle quattro cose già scritte (già scritte!) nel suo precedente saggio. Preferisce spendere due righe su… la paleodieta?! Eh…
[…] non abbiamo prove definitive che gli uomini primitivi mangiassero soprattutto carne, come tendiamo a credere.
Parte dei motivi per cui abbiamo a lungo pensato che i nostri antenati fossero principalmente carnivori è che le ossa animali si conservano assai meglio rispetto ai residui vegetali, per cui gli archeologi hanno avuto molte più prove del consumo di carne da parte degli esseri umani.
Bello quel “per cui” che vale “perciò” eh, molto apprezzato, davvero. Occhei, allora… a parte che riassumere a sentimento un articoletto di New Scientist (lo riporta nella nota finale, riferita a questa parte del saggio), già striminzito di suo, non è che faccia grande onore a L’ora del caffè, ma… Gianrico, di cosa stai parlando esattamente? L’articolo di New Scientist è preciso (tratta di H. erectus o affini), tu invece a quali “uomini primitivi” ti riferisci, per l’amor del cielo?! Ci sono state molte specie del genere Homo, e magari la dieta dell’ Homo habilis era diversa da quella del neanderthalensis, a sua volta diversa da quella del sapiens. Addirittura, la dieta delle varie popolazioni interne alle specie poteva essere diversa. Ad ogni modo, chi ha mai detto che i preistorici fossero “principalmente carnivori”? L’idea scolastica, per quanto ne so, è che fossero “cacciatori-raccoglitori”: cioè… uh… onnivori?! Che fai, Gianrico, ti costruisci un uomo di paglia?
Può darsi, considerando quanto gli piaceva lo straw man argument in Della gentilezza e del coraggio. Scherzi a parte, il suo discorso paleontologico vuole demolire una tesi? Vuole contestare la teoria (sua originale, a questo punto) che il genere Homo sia carnivoro?
No, dal testo capiamo che si fa riferimento agli argomenti viziati degli “appassionati della carne”. È sempre la questione dell’appello alla natura, la quale però è già stata liquidata quando il nostro autore ha anticipato che essa è una fallacia. Dopo aver stabilito ciò, in effetti, ogni altra lungaggine è superflua: in particolare, non ha nessuna importanza sapere se davvero nell’Età della pietra si facessero più barbecue o più insalatone. Comunque stiano le cose, abbiamo graniticamente spiegato che non si potrà mai passare da tali semplici fatti al condizionale che permette di dedurre quel che si desidera ardentemente dimostrare. Mangiavano più carne, cioè mangiare tanta carne è naturale? Sia pure, tanto non si può dire che “allora mangiare carne è una cosa buona”, “fa bene”, o che so io. Lo stesso vale se ammettiamo che mangiavano più vegetali. Quindi, che posto hanno le parole di Carofiglio, nell’economia del discorso?
Ehi, il nostro autore si accorge di tutto quel che ho appena messo in luce! Di conseguenza, non elimina le informazioni ridondanti, semplicemente aggiunge che…
[…] anche se potessimo dire con certezza cosa mangiavano i nostri progenitori […] ciò non avrebbe troppa importanza […]
… appunto squalificando alla radice la sua decisione di riassumere New Scientist.
Vi sembra che la scelta di Carofiglio sia alquanto illogica e pedante? A lui invece piace, tanto che ripete e ripete lo stesso concetto, per essere sicuro che ci siano ampi margini di confusione nel pubblico de L’ora del caffè. E perché le probabilità di stordimento siano molto, molto alte, beccatevi il brano seguente:
I leoni, le tigri, i lupi, i coccodrilli e svariate altre specie devono mangiare altri animali per sopravvivere. Non possono scegliere. Probabilmente anche gli uomini primitivi dovevano mangiare altri animali per sopravvivere […].
Ma noi viviamo nell’Occidente avanzato, nel 2022, e alimentarci senza carne – anche senza pesce – non solo non comporta un pericolo per la vita, ma nemmeno per la salute.
Oh, grazie davvero per ricordarci che “svariate […] specie” mangiano carne, che tali specie non possono scegliere cosa mangiare per far funzionare il loro metabolismo (noi invece possiamo?), e che forse “anche gli uomini primitivi mangiavano altri animali”, informazioni introdotte solo per ribadire la loro assoluta irrilevanza, però… ehm… che vuol dire quel “noi viviamo nell’Occidente avanzato”?!
Avviluppato più che mai, a me pare che Carofiglio ci proponga o un non sequitur semplicissimo, o un ragionamento con una vagonata di assunzioni implicite, assunzioni tutt’altro che limpide. Abbiamo un non sequitur se stiamo alla lettera del testo: “noi viviamo nell’Occidente avanzato, nel 2022 [premessa] e [qui vale “quindi”] alimentarci senza carne […] non comporta un pericolo per la vita [conclusione]”. Abbiamo invece un ragionamento più articolato, e forse pure valido, se appunto aggiungiamo per conto nostro assunzioni su assunzioni, come: “possiamo essere curati se le nostre abitudini alimentari danneggiano la nostra salute”, “se viviamo nel 2022, allora abbiamo alterato il nostro metabolismo” accoppiata a “se abbiamo alterato il nostro metabolismo allora evitare la carne non fa male”… e così via, l’idea ve la siete fatta. È una bella prova d’autore, non c’è dubbio, soprattutto se all’autore stanno molto a cuore il rigore logico e la chiarezza espositiva.
Che dire di più? Di più dico che l’eventuale non sequitur carofigliano è addirittura peggiore di quelli dei carnivori e dei vegani sfegatati (“gli antenati mangiavano solo carne, quindi mangiare solo carne fa bene”; “gli antenati mangiavano solo verdura, quindi mangiare solo verdura fa bene”), perché questi ultimi almeno hanno delle pseudopremesse che gravitano intorno allo stesso campo semantico della pseudoconclusione. Carofiglio invece è avanti, e dalla sua geolocalizzazione, unita alla data che legge sul calendario, apparentemente riesce a dedurre che evitare di mangiare carne non fa male alla salute. Anzi, la conclusione definitiva, che segue a ruota l’argomento spaziotemporale, è questa:
Ciò [presumo “il fatto che evitare la carne, nel 2022, non è pericoloso”] non significa, di per sé, che mangiare animali sia sbagliato – la controversia è del tutto aperta e complessa. Significa che mangiare animali è il risultato di una scelta.
Impressionante, che si trattasse di una “scelta”, di una “decisione”, era l’assunzione iniziale, fin da quando Carofiglio raccontava la storiella pasquale… ehm, “ok, boomer”.
Giorgia, Giorgia ci sei? Devi intervenire, devi fermare la mano di tuo padre! No, Giorgia non c’è, è in ritardo per questo saggio in cui si siede al tavolo e dialoga con suo padre, perciò Gianrico sembra proprio costretto a dialogare con sé stesso. Non che gli dispiaccia, pare: dopo le paludi logiche, il nostro autore ci ricorda quei due o tre dati (corretti, lo ammetto) che tutti sanno, cioè che il cibo è importante per stabilire legami socioculturali, che i bovini sono demoni impellicciati che consumano tonnellate d’acqua, che “[l]a scelta di mangiare carne, e di mangiarla in [grande] quantità, non è tradizionale […] [e] non è sostenibile”, bla, bla, bla. Poi, con un’altra profonda sequenza logico-retorica, Carofiglio ci insegna che il cibo… be’… sì, che il cibo è importante… ah, e che ha effetti sulla nostra salute e sulla nostra società. Mecojoni! Ci fa pure presente che legata al tema dell’alimentazione è la “diffusione sempre più massiccia e impressionante dei disturbi alimentari come la bulimia e l’anoressia”. E così il nostro autore si dà il la per iniziare il secondo capitolo de L’ora del caffè.
Mi sento una gran rabbia in corpo
Evviva, parliamo di malattie mentali! La cosa mi interessa molto, per… ovvie… e personali… ragioni… sì… perciò, che fico!, spero che il nostro si riprenda un po’ e che mi dia qualche dritta. Cominciamo con… evvai, cominciamo con una bella generalizzazione a ca**o di cane:
Due emozioni dominano le persone che si trovano ad affrontare un serio disagio psicologico o una vera e propria malattia mentale: un profondo senso di colpa e la dolorosa sensazione di non poter essere compresi.
Apperò, dunque hanno derubricato il disturbo antisociale di personalità? No, perché l’ultima volta che ho controllato era ancora considerato un serio disordine della personalità, ossia un disordine psichiatrico (una “malattia mentale”), caratterizzato… eh… dalla quasi totale mancanza di senso di colpa, di empatia e dall’indifferenza per il fatto di essere o non essere compresi?! Sempre, sempre, sempre il solito. Ho capito che simili immagini fanno un po’ santone saggio, e che aiutano molto a costruire delle tesi personali, però… eh, e daje.
Va be’, soprassiedo, anche perché L’ora del caffè inaspettatamente mi regala una sorpresa, un’affermazione condivisibile:
[…] nella nostra cultura è radicata l’idea che i disturbi della mente siano, quando non immaginari, in qualche modo meritati, espressione di mancanza di volontà […].
È vero. Per pignoleria, credo sia giusto precisare che non tutti i disturbi della mente sono considerati in tal modo, solo quelli più “innocui”, per così dire: insomma, il boss sadico e psicopatico è sotto sotto rispettato, temuto e forse anche considerato sexy, mentre il poveretto con depressione maggiore, o con disturbo evitante di personalità, è semplicemente un cagone. Brutto atteggiamento, benché, purtroppo, connaturato alla nostra specie. Connaturato o no, è comunque il caso di contrastarlo, e il primo passo, appunto come fa Carofiglio, è metterlo in luce. Perciò, bravo Gianrico. Quando tua figlia leggerà il libro sarà fiera di te, ne sono sicura.
Se poi non ti perdessi di nuovo in cazzate! Eh già. Finita la bella invettiva contro i pregiudizi, prima troviamo una lapidaria scemenza che forse si riferisce al riconoscimento, da parte dell’OMS, che l’omosessualità non è un disturbo mentale (1990), ma che, così proposta, sembra un mezzo delirio sociologico, marxistoide o addirittura grammaticale (“costrutti”?)…
Salute e malattia non sono entità immutabili, ma costrutti che si modificano nel tempo e che dipendono dalle strutture economiche e sociali, dal clima culturale della nostra epoca.
… e in seguito troviamo lei, la classica idiozia secondo la quale chi non sa parlare bene diventa, è, o rimane un maniaco:
[…] il tema della disponibilità di un lessico per la sofferenza psicologica è del tutto cruciale. Quando, per ragioni sociali, economiche, familiari, non si dispone di adeguati strumenti linguistici; quando le parole fanno paura, e più di tutte proprio quelle che dicono la fragilità, la differenza, la tristezza; quando non sappiamo nominare le cose e le emozioni, manca un meccanismo fondamentale di controllo sulla realtà e su sé stessi.
L’idiozia è classica perché, ne sono sicura, vi ricordate di averla già incontrata ne La nuova manomissione delle parole. Intendo, l’avete trovata pari pari, a parte qualche microscopica differenza:
Quando, per ragioni sociali, economiche, familiari, non si dispone di adeguati strumenti linguistici; quando le parole fanno paura, e più di tutte proprio le parole che dicono la paura, la fragilità, la differenza, la tristezza; quando manca la capacità di nominare le cose e le emozioni, manca un meccanismo fondamentale di controllo sulla realtà e su se stessi.
(La nuova manomissione delle parole, cap. 1, Quante parole, quali parole)
Il tutto è ancora più eccezionale, se pensiamo che ne L’ora del caffè è la terza volta che compare questo passaggio, preciso identico (eh sì, La nuova manomissione delle parole era semplicemente una riedizione, con un nuovo capitoletto finale, de La manomissione delle parole, uscito undici anni prima, quindi…). Gianrico, non si fa così, i libri nuovi devono essere nuovi, non dei copiaincolla! Va be’ che nella presentazione si diceva “smontato e rimontato discussioni del passato”, ma: 1) “smontare” e “rimontare” erano da intendersi in senso lato; 2) non ho ancora visto nessuna discussione.
Ah, via, poiché Giorgia latita, devo pensarci io a te, lo sapevo. Be’, e che dovrei dire, a proposito del brano riciclato? Quel che ho già detto a suo tempo: ciò che sostiene il nostro eroe è basato su una semplice correlazione, non su una relazione causale. Ad esempio, si è notato che comportamenti criminali e violenti sono associati a un certo grado di “analfabetismo”, ma non è stato affatto stabilito che l’alfabetizzazione, di per sé, sia un “meccanismo fondamentale di controllo sulla realtà e su sé stessi”. Ah, ma che perdo tempo? Tanto so già che per Carofiglio “correlation implies causation”, e non riuscirò a convincerlo del contrario. Sul fatto, poi, che il nostro autore parli di “controllo sulla realtà”, mentre in precedenza aveva sentenziato che “non esiste un universo unico, oggettivo”, e che “realtà” è “un termine […] sfuggente”, non voglio nemmeno battibeccare. Se lui è riuscito a conciliare le cose, avrà avuto dei motivi, oppure no.
Mi rilasso, quindi, ché pure Carofiglio sembra in vena di cazzeggio, dopo il sermone sull’analfabetismo. Infatti, stempera un poco il discorso con queste parole:
Un meme di enorme successo suona più o meno così: «Vado in terapia per tutte le persone che non ci sono andate prima di me».
Ehi, che divertente. Sì, se non fosse uno di quei memacci “da boomer, per boomer” (ripensandoci, forse è più da zitella inacidita… non saprei, non importa), il quale, ammetto, fa davvero bella figura nel libro di un boomer che non vuol passare per boomer. Eddai, Gianrico, non fai qualche ricerca sui giovani, sulla loro cultura, sulle mode? Un bel Big Chungus, un GigaChad, un Ricardo, una Riley Reid, un Doge… sono questi i meme famosissimi, quelli che impazzano, gli evergreen: e fai qualche scemenza sulla loro base, lasciati aiutare da Giorgia per una volta, e su! Non fare il boomer!
Uff, via, velocissima riporto un’osservazione intelligente del nostro uomo, che ha smesso i panni del mematore…
[…] il mito del miglioramento personale, la retorica dell’auto-aiuto, portano con sé anche dei pericoli […]
… com’è ovvio rovinata già pagine e pagine prima da uno slogan alla Gurufiglio…
[…] non devi avere una malattia per volerti occupare della tua salute mentale […]
… e poi mollo il capitolo. Non per mancanza di materiale, no, no, anzi. È che non voglio rimanere intrappolata, e in qualche modo devo finire la recensione. Eh… vediamo il capitolo sull’emergenza climatica. Oddio…
Don’t have a cow, man!
Dovete sapere, lettori, che Gianrico Carofiglio è una lenza, e sa bene come catturare il pubblico. Lui affabula, affabula, e raggiunge lo scopo perché sa adattarsi all’uditorio, sa parlare agli esperti così come agli umili, agli ultimi, alla gente del popolo. Mirate, ad esempio, la bella immagine con cui riesce a plasmare nella mente del popolino la minaccia incombente dei mutamenti climatici:
Prendere il sole su una spiaggia delle Maldive. Realizzare il sogno di vedere da vicino le statue che popolano l’Isola di Pasqua. Tra meno di trent’anni, queste sono cose che non potremo più fare a causa del cambiamento climatico.
Eh, sì, er precario cò e pezze ar culo è stato punto nel vivo: chi, infatti, non sente crescere l’angoscia al pensiero di non poter più andare alle Maldive? E le foto coi moai, non poterle più fare… dico, vi rendete conto? L’operaio non ci dorme la notte, era il suo sogno erotico! Ah, questo è un capitolone, lettori. State prendendo nota? Giorgia sì, e ancora sta riempiendo il taccuino; almeno, suppongo, non avendo lei contribuito alla “discussione” nemmeno stavolta.
Ebbene, abbiamo visto come Carofiglio ci coinvolge. Badate, il nostro maestro della retorica ha tutto sotto controllo, e non dovete temere che L’ora del caffè, dopo avervi preso, vi inganni con grafici e con tabelle che dimostrano (sì, “dimostrano”, su questo non discutiamo e non facciamo i complottisti) l’imminente disastro ambientale, anche perché…
Se bastassero a convincerci i dati e le previsioni degli esperti, avremmo trovato una soluzione già da tempo.
Giusto, concordo. E quindi… meh, quindi il testo prosegue con… aneddoti, citazioni… dati… previsioni degli esperti… un po’ la solita roba, in effetti. Ehi, aspetta un momento:
Ci allarmiamo per la possibilità di eventi statisticamente poco significativi (incidenti aerei, assalti criminali, immigrazione) ma che colpiscono la fantasia.
Oh no… no… no! Ma questo è…
In certe zone del pianeta c’è chi ha molta paura degli attacchi degli squali, che in realtà sono rarissimi (dieci morti all’anno) ma che ricevono sempre un’enorme pubblicità. Assai più pericolose per l’uomo sono per esempio le zanzare (che causano più di seicentomila morti all’anno), ma anche i cani che trasmettono la rabbia (venticinquemila morti all’anno) […]
… è proprio… è…
[…] persino le mucche, la cui pericolosità statistica è superiore a quella degli orsi.
Nooo Gianrico, porco cazzo! È quell’enorme mi*chiata che avevi scritto in Della gentilezza e del coraggio, cioè, esattamente identica, proprio quella! Ancora?! Dico, ancora ti autoplagi e ancora insisti con la storia delle mucche? Che t’hanno fatto?!
Davvero, quando ho letto questa parte de L’ora del caffè mi sono sentita confusa, smarrita. Ma come si fa a propagandare scemenze del genere? E sì che basta riflettere un secondo o due, per capire di essere appoggiati a una cantonata. Ad esempio, il nostro autore afferma che “[i]n certe zone del pianeta c’è chi ha molta paura degli squali”: eh, sarà che… “in certe zone del pianeta” ci sono gli squali? Non credo che la Svizzera sia una di quelle zone, ma gli abitanti delle coste australiane, o della costa orientale degli Stati Uniti, sono forse dei cretini? Fanno bene a essere prudenti, e in un certo senso fanno bene ad avere paura: sì, perché grazie alla paura di un animale realmente pericoloso, realmente presente in quei luoghi, e che realmente attacca, sono state prese contromisure. Reti antisqualo, torrette di avvistamento, censimenti periodici, spiagge chiuse per presenza di pescecani, cambi di programma per il weekend: questa si chiama “riduzione del rischio”, ed è proprio perché ci si attiva per ridurre il rischio, che il rischio… eh… si riduce. E se il rischio si riduce, non c’è da stupirsi che i morti per gli attacchi degli squali siano così pochi. Certo, fanno la loro parte anche il fatto che gli squali stessi (ma poi, quante sono le specie letali?) vengono “ridotti” nel loro numero e il fatto che la stragrande maggioranza della popolazione umana non vive in luoghi frequentati dagli squali.
Ecco spiegato (comunque malamente, me ne rendo conto) perché ci sono in media solo dieci morti l’anno per colpa dei pescecani. Con ciò, non dovremmo preoccuparci del bianco, del tigre, del longimano?! Dovremmo fare gli zuzzurelloni al lago Nicaragua, dovremmo smettere di sbatterci per la manutenzione delle reti antisqualo, dovremmo affittare una replica della USS Indianapolis, affondarla, e poi aggrapparci a una zattera di fortuna dopo esserci fatti un taglio sulla coscia? Dovremmo smettere di uccidere… sì, questo dovremmo farlo… ma il resto no! Quindi, che cazzo stai a di’, Gianri’? Allarmarsi fa bene, in un certo senso!
Niente, lui comunque vuole arrivare alla diffamazione delle mucche. E a questo proposito il discorso è lo stesso, non mi ripeto. Voglio solo far notare al nostro saggista che non basta inserire un aggettivo come “statistica” per tramutare una sciocchezza in un apoftegma filosofico: “pericolosità statistica” non significa niente. Verissimo, ogni anno sono più i morti causati dalle mucche, rispetto a quelli causati dagli orsi: ma, pur con questo, un orso è, e rimane, più pericoloso di una mucca.
Annamo bbene, speravo di non dover tornare sulla questione, dopo Della gentilezza e del coraggio! Vedrete, vedrete che arriverà il giorno in cui dirà chiaro e tondo che possiamo fare a meno della polizia, dei militari, delle carceri, delle frontiere, e chi più ne ha più ne metta, essendo “gli assalti criminali” così pochi, rispetto alle morti causate dalle zanzare. Oh, lo dirà, e se non lui qualche suo epigono; quel che non sentirete dire, né da lui né dai suoi epigoni, sarà l’osservazione che… eh… gli assalti criminali sono pochi proprio perché abbiamo ancora una polizia, un esercito, delle carceri e delle frontiere. E abbiamo queste cose perché sappiamo che gli assalti criminali sono pericolosi, e siamo terrorizzati da essi.
Ma che dico? Sciocchezze! Perciò, chiudo con un appello: Roby Facchinetti, stai leggendo? Spero che tu abbia imparato la lezione, dall’incontro ravvicinato con quei rapinatori: la prossima volta, lascia perdere le inferriate e vedi di installare delle zanzariere. Capisci, tu sei stato vittima di un evento statisticamente insignificante, è di quelle merdine succhiasangue che ti devi davvero preoccupare. Ricordalo!
Fermate il pianeta dei millennial, voglio scendere!
Bah, proseguiamo. Dopo ulteriori citazioni e aneddoti da social network, Carofiglio si accorge dei giovani. Si accorge proprio della loro esistenza:
In Italia, secondo uno studio recente, la maggioranza dei giovani è convinta che avrà uno standard di vita peggiore dei suoi genitori.
Un ventenne di oggi vive spesso con angoscia una giornata di caldo fuori stagione, anche se poi esce e va prendere il sole.
È interessante che sia il nostro sessantenne a parlare di e per i giovani, quando… uhm… quando uno degli autori de L’ora del caffè ha ventisette anni compiuti! Ehi, che ci posso fare? Anche ora, quando sembra proprio essere arrivato il momento, Giorgia Carofiglio non c’è. Non discute con suo padre. In questo saggio che è una discussione fra un padre e una figlia.
Poiché manca una figura con i neuroni al massimo della prestanza, Carofiglio senior è privo di freni inibitori, e la sua mente finisce per giocargli dei tiri mancini. Io immagino così la scena: a un certo punto, mentre scriveva le succitate parole, Carofiglio ha iniziato a fare due più due. “I giovani provano angoscia”… “il cambiamento climatico causato dalle generazioni precedenti”… “i giovani provano angoscia”… e così via, per un pomeriggio. Poi, passano i giorni, passano le settimane… bing! Improvvisamente al nostro autore viene un cruccio: “e se le mucche fossero malvagie?”. Scritto quel che si doveva scrivere sulle mucche… bing! Un altro cruccio: “e se i giovani ce l’avessero coi boomer?”. Qualche altra settimana per accorgersi di essere lui stesso un boomer e, zac!, la paranoia si è annidata nel cervello. Oh sì, avete capito bene: Carofiglio teme che i giovani vogliano farla pagare ai boomer per via di quella cosa del clima, e di punto in bianco L’ora del caffè prende la piega di una strana autoapologia…
Come possiamo essere colpevoli solo per aver vissuto secondo le regole del nostro tempo e secondo la promessa implicita che se lavori duro hai diritto di progredire e di incrementare il tuo benessere (una promessa che si è inceppata per chi è venuto dopo)? È inaccettabile l’idea che aver ottenuto onestamente standard di vita sempre migliori, e aver cercato di garantirli ai propri figli, possa essere una colpa.
E forse in questo i più adulti non hanno torto. […] La verità è che i giovani, fossero nati trent’anni prima, avrebbero vissuto secondo le stesse modalità: avrebbero goduto dei frutti di quel benessere […].
Ehm, sono sinceramente spiazzata da queste parole. Non tanto perché si tratta di assunzioni del tutto campate in aria (se i giovani fossero nati trent’anni prima, e avessero avuto le ruote… eh, suona così, non è vero?), a quelle ci sono ormai abituata in questo saggio; e non è neanche la visione di una specie di mezza arcadia perduta degli anni Settanta (ma non erano gli Anni di piombo, tra l’altro?) cui sembra inclinare un poco il nostro autore. No, è che vorrei in qualche modo consolare Carofiglio, ché lo sento davvero preoccupato: tranquillo, non verremo a prenderti coi forconi, non ti impiccheremo per aver incasinato il clima. Noi giovani siamo arrabbiati, sì, ma siamo soprattutto dei mollaccioni: a malapena riusciremmo a dire “scusi, guardi che sta ledendo i miei diritti” all’unno che ci svaligiasse la casa dopo aver stuprato i nostri famigliari, figuriamoci se abbiamo il fegato di piantar grane a uno come te.
Scherzi a parte, Carofiglio introduce la questione sostanzialmente per spiegarci che, a proposito dell’emergenza ambientale (ma anche a proposito di qualunque emergenza, viene da pensare), non è utile giocare a chi ha più colpe. Sì, sempre in sostanza, sono d’accordo: il problema è che L’ora del caffè non va oltre. Come puntualmente accade nei saggi del nostro autore (almeno, in quelli che ho letto), ci sono delle vaghe idee di fondo né sbagliate né controverse, ma poi le pagine del libro si perdono dietro a citazioni, banalizzazioni e divagazioni. Appunto, Carofiglio ci insegna a non distrarci dalla questione climatica, trasformandoci in giudici della Storia, però poi non dice niente di concreto sulle eventuali strategie da adottare. Non so se è mai stata sua intenzione, a essere sincera, ma in ogni caso Carofiglio non riesce a imporsi come “capo”, come “profeta”, come voce autorevole in grado di mobilitare chi incontra le sue idee (non giudichiamo quei ruoli, di per sé sono neutri, e probabilmente connaturati al nostro istinto sociale); si manifesta invariabilmente come il borghese d’alto lignaggio che si interessa con sincera preoccupazione ai problemi del mondo, non riuscendo però a concepire che le sue maniere garbate e ingenuamente classiste non muoveranno all’azione mai nemmeno una mosca.
Senza farla troppo lunga, vi confermo che, dopo l’apologia del boomer, il nostro autore ricomincia con le citazioni semiaccademiche, riproponendoci anche la distinzione fra “colpa” e “responsabilità”, distinzione che ormai conosciamo a menadito, perché è l’ennesimo prestito dai suoi precedenti libri. E via, il discorso evapora; peccato, in precedenza ci aveva pure messo in guardia sul fatto che, se vogliamo evitare il disastro, non sarà così facile come bandire il DDT, dovremo praticamente rifondare la società. Giustissimo. Qualche indizio su come farlo? Nah, prima le mucche, poi ancora un po’ di statistica qua e là, poi si parla di semantica. E il capitolo finisce. Eh…
Le donne hanno fatto anche cose buone
Wow, wow, wow, mi sa che è iniziata la seconda parte del saggio, quella in cui finalmente leggeremo le opinioni di Giorgia. Infatti, si parla di femminismo. Già, quale dei due autori, secondo voi, è più adatto a trattare la questione? Esatto: Gianrico. Il sistema è lo stesso, chi scrive non si sa, ma un sospettone io ce l’ho.
Non che un uomo non possa trattare di temi che riguardano le donne, epperòcheccacchio, ha parlato fino adesso, e parla ancora lui, parla sempre e solo lui! Ed è una garanzia, si comincia alla grande, con pensieri di sommo livello…
Il mondo è pieno di uomini mediocri (o peggio) in ruoli di potere e ci pare che sia nell’ordine naturale delle cose. A nessuno viene il dubbio che sia la natura maschile a produrre più facilmente mediocrità, a non essere adatta al potere o a mestieri stressanti, alle discipline scientifiche, a conciliare famiglia e lavoro. Siccome si dà per scontato che qualcuno quei posti li debba occupare, nessuno batte ciglio quando li occupa un uomo non troppo brillante. Eppure, il dubbio ci dovrebbe venire. La mediocrità maschile è dappertutto, molto più di quella femminile.
È ovvio che essere mediocri non è una questione di genere. Ma lo è il modo in cui giudichiamo la mediocrità.
Cosa avrà voluto dire? È un’elaborata sintesi? È una gag? È una sorta di yoga intellettuale, un modo contorto di esprimere un’idea semplicissima (“ci sono più uomini che donne, in certi contesti, ma per molti non è un fatto preoccupante, perché costoro danno per scontato che debba essere così”)? Mentre ci pensiamo, Carofiglio fa un po’ il simp, e così ci imbattiamo immediatamente in un bell’elogio del “femminismo”, anche se non si sa esattamente di quale femminismo si stia parlando:
Il femminismo negli ultimi decenni ha portato avanti una lotta per rendere più visibili donne eccezionali […].
Scoprire chi siano queste donne è lasciato a noi. La Murgia? La Valerio? La Ciabatti? La Ginzburg? Boh… menziono alcuni nomi del mio settore, brancolando nel buio. Chissene, perché l’apprezzamento carofigliano che ho appena riportato è in realtà un’esposizione critica e vagamente (molto vagamente) ironica, a fondamento dell’idea che quel tipo di lotta femminista è inconsapevolmente invischiata nelle strutture socioculturali patriarcali, ed è ferma “a un punto […] in cui tocca dimostrare che le donne sanno fare le stesse cose degli uomini”. Invece, secondo il nostro autore, “[è] importante che arrivi il giorno in cui ci saranno donne ovunque, e dunque anche donne mediocri”. Uff, ho capito dove andiamo a parare. Lettori, propongo di non impelagarci in diatribe faticose, che ne pensate? Vi basti sapere che la sviolinata fasulla prelude a pagine dense di melodie capaci di fare breccia non solo nei nostri cuori, ma anche nei nostri cervelli, con un notevole carico di informazioni del tutto scientifiche, mai esagerate:
Gli uomini hanno goduto, per la maggior parte della storia, di quote di genere al cento per cento.
[…] le donne faticano ad arrivare ai vertici delle organizzazioni e delle professioni perché si trovano ad affrontare ogni giorno un sistema non pensato per loro, criteri di merito tutt’altro che neutri e stereotipi duri a morire.
Poche donne ai vertici, salari più bassi, persistente paternalismo maschile più o meno occulto sono solo la conferma che il vecchio sistema resiste, che il mondo non è ancora giusto.
D’accordo, capisco che mi state sinceramente odiando per la lunghezza di questa recensione, quindi commenterò i brani in maniera sintetica, pur con i rischi che ciò comporta. Andiamo, Carofiglio si getta a bombazza sui peggiori stereotipi di un certo femminismo, quello più “ideologico”, “di pancia”, proprio quello à la Murgia per intenderci. Sarò bollata come superficiale e prevenuta, ma tale concezione degli studi di genere, e delle lotte di genere, è una cazzatona.
Non è con ipotesi al limite del complottismo terrapiattista che si possono comprendere, e soprattutto eliminare, le discriminazioni che senza tema di smentite affermo esserci ancora al giorno d’oggi. Tanto per dire, è vero che essere donna è sempre stato difficile, tuttavia gli uomini non hanno mai goduto “per la maggior parte della storia” di “quote di genere al cento per cento”, testimoni Zabibe, Caterina II e Ranavalona I, fra le altre (senza contare che pure le culture di solito bollate come fondamentalmente ed estremamente maschiliste hanno le loro “eroine”, due su tutte Debora e Khadija, quest’ultima “businesswoman” da viva e “Madre dei credenti” in Paradiso).
Il sistema in cui tutti noi viviamo, donne e uomini, per quanto ripieno di preconcetti e idiosincrasie, non è proprio “stato pensato” per giovare a una parte e contemporaneamente nuocere all’altra: sì, qualcuno ci ha provato e ci prova ancora, qualcuno si illude, ma la (forse) triste verità è che i sistemi complessi come le nostre società non hanno burattinai che tirano i fili, le interazioni sono in un certo senso naturali (calma Gianrico, non sto dicendo “moralmente giuste”) e non ci sono piani grandiosi per mantenere questo e quello in schiavitù. O meglio, ci sono, però bisogna poi vedere se vanno in porto (no, non ci vanno, e se ci vanno, ne escono in tempi ragionevoli). Quindi no, i motivi per cui “le donne” (di quale etnia, di quale nazione, di quale età, di quale religione?) “faticano ad arrivare ai vertici delle organizzazioni” non sono riducibili semplicemente all’essere vittime di un gioco studiato a tavolino, affinché ci siano delle perdenti in partenza.
“Poche donne ai vertici”, e “salari più bassi”. D’accordo, ancora una volta è mettere nel calderone fenomeni diversi, ma lasciamo perdere: ebbene, è anche stato provato che tali fatti sono parte di un piano maschilista, o che sono l’indubitabile frutto di un “vecchio sistema” ingiusto? Ah, certo, che bisogno c’è di interrogarsi, per L’ora del caffè “sono solo la conferma” del complottone, punto, fine. Per il resto del mondo, invece, esiste a riguardo ancora un dibattito, lontano dall’essere risolto: benché il persistere di pregiudizi (che poi, i pregiudizi… e se ci fosse una causa naturale, “evoluzionistica”, alla loro radice?) sia una delle possibili spiegazioni dei suddetti fenomeni, potrebbero esserci in effetti altri motivi, concomitanti o addirittura prevalenti. Ad esempio, sarà mica che c’è il grosso zampino dell’economia occidentale, del mercato? Se fosse così, nessuno controlla il mercato, questo si sa. No, non mi sto schierando, sia chiaro, mi limito a farvi notare che il saggio si schiera, senza però ammettere apertamente di avere un’opinione: non c’è riferimento ad alcun dibattito, non si dà a intendere che, fra alternative, c’è una spiegazione da considerarsi migliore, per questo o per quel motivo. L’ora del caffè ci presenta, come fosse un fatto, l’interpretazione di un fatto, e questa non è una bella mossa, per quanto tale interpretazione possa essere più credibile di altre.
Ancora a proposito dell’ultimo brano che ho citato, voglio concentrarmi su quel “persistente paternalismo” e su quel “il mondo non è ancora giusto”. Sulla questione di genere non ci dicono chissà che cosa, tuttavia ci dicono molto sulla questione Carofiglio. Almeno, io trovo ulteriori piccole prove di quel che penso da un po’: il nostro autore è intimamente sincero, e la sua forma mentis non concepisce affatto come il mondo è, bensì come il mondo deve essere. Altrimenti, quale pazzoide deciderebbe volontariamente di sputtanarsi parlando di “paternalismo”, in un capitolo dedicato a spiegare la natura delle discriminazioni subite dalle donne, e in cui non c’è una mezza frase attribuibile con certezza alla giovane donna coautrice del saggio? È una gaffe involontaria, eddai. E dolersi perché “il mondo non è ancora giusto”, appunto, è partire con l’idea che abbia un senso applicare i concetti di “giusto” e di “sbagliato” a certi fenomeni, senza aver neppure provato a studiare gli stessi, senza poter affermare se essi sono fenomeni “naturali”. Perché, ehi, se si scoprisse che sono in effetti “naturali” (quand’anche orribili), proprio Carofiglio ci ha spiegato che non è intelligente parlare di “giusto” e di “sbagliato”, quando ci si riferisce a cose naturali…
Lasciamo perdere, il capitolo poi trottola su sé stesso, andando a parare sulle parole, sulla questione dei pronomi, su “avvocato” e “avvocata”, con l’incredibile buona novella che “[…] i nomi al femminile per le professioni non sono neologismi, ma forme previste dalla lingua italiana […]”. Insomma, le solite cose che possiamo trovare in un qualunque altro libriccino da classifica, del genere “sociologia” o “gender”.
Doggy style
E noi non fermiamoci, facciamo conoscenza del successivo capitolo de L’ora del caffè. Si parla del politicamente corretto, stavolta. Cioè, Gianrico parla, ma questo ormai l’avete capito. Aneddoti, aneddoti, aneddoti, quasi tutti inevitabilmente stantii, essendo perlopiù cronache di costume che hanno girato in lungo e in largo l’internet. E poi citazioni, citazioni, citazioni, di quelle che fanno viaggiare la memoria fino ai dolci anni dell’università: sapete, quegli anni spensierati in cui si collezionano ipse dixit e ci si sente di conseguenza dei gran fichi, degli acculturati. Mi rendo conto che, avendo seguito il modello “tesi triennale” per pagine e pagine, Carofiglio è un po’ stanco, pertanto credo sia giusto chiudere entrambi gli occhi, davanti a certe fonti un tantinello discutibili, riassunte in un modo ancor più discutibile:
Nel suo libro Il mito della bellezza, Naomi Wolf racconta che la diffusione degli standard di bellezza attuali, così pervasivi e universali, è stata resa possibile solo dall’avvento della fotografia.
Sì, non è che Naomi Wolf, ormai complottista dichiarata (a proposito dell’ISIS e del COVID19), sia quella gran testa d’uovo, e Il mito della bellezza è un polpettone pop, con giusto qualche casuale schizzetto di scienza qua e là (in mezzo a statistiche e ad argomentazioni alquanto “makeuppate”). Oh, no, non voglio di sicuro prendermi la briga di controargomentare puntualmente, se Carofiglio si è persuaso che agli antichi egizi farebbero schifo le content creator attuali, e che siano principalmente gli uomini a guidare la selezione sessuale umana (pressappoco è quel che si desume da Il mito della bellezza), fatti suoi. Mi preme però fargli presente che sarebbe stato più interessante lasciar perdere certi bug accademici come la Wolf, proponendo invece riflessioni meno scontate e più “disturbanti”. Invece no, dopo poco vediamo correrci incontro l’intramontabile Umberto Eco, tutto trafelato perché vuole ricordarci quella storia degli imbecilli di internet che prima non potevano esprimere le loro opinioni, ma ora possono. E poi… pop!, compare quest’interessantissima informazione:
Nel 2013 […] «Avvenire» commentava lo spettacolo ispirato a un libro per bambini in cui sono rappresentate sia famiglie eterosessuali che omosessuali intitolando l’articolo Verità rovesciate. Se l’asilo ti spaccia la famiglia con due papà. Puntava il dito, in particolare, contro una pericolosa vignetta di due pinguini maschi che si prendono cura dei loro piccoli. A parte ogni altra considerazione, è bene ricordare che si tratta di un fenomeno accertato in natura. Comportamenti omosessuali sono diffusi, oltre che fra i pinguini, fra i cani, i gatti, i cigni, i gabbiani, le anatre, i delfini, i leoni, gli elefanti e molte altre specie.
Embè, esticazzi? Cosa c’entra che è “un fenomeno accertato in natura”? In che senso “è bene ricordar[lo]”? Non stiamo trattando questioni di etologia, stiamo parlando di politicamente corretto, di comunicazione, di etica e di supposto indottrinamento! Per l’ennesima volta, non si era tra stabilito che la natura non può darci indicazioni pratiche o morali, e che dunque è assolutamente inutile e fuorviante riferirsi ad essa, quando non si parla di questioni naturali(stiche)? Oltretutto, “prendersi cura dei piccoli” non è di per sé avere “comportamenti omosessuali”: com’è che si passa da una cosa all’altra con tale immediatezza?
Eddai Gianri’, ti contraddici, ti perdi nel tuo stesso museo mentale. In confidenza, se nel capitolo vuoi suggerire che sarebbe bene ripensare il modo in cui normalmente si parla di e con le persone non eterosessuali, nobile fine, non ti serve puntualizzare che “ci sono i gggghei anche fra gli animali”. Cioè, non soltanto non ti serve, dovresti capire che menzionarlo è stupido e pure un po’ offensivo; è quasi spontaneo immaginarsi che all’osservazione etologica sia sotteso qualcosa come: “vedi, figliolo, quei finocchi lì tutto sommato vanno bene, adesso la pensiamo così perché abbiamo visto che lo fanno anche i pinguini”. Aspettate, lettori, c’è una risposta del nostro autore:
Il riferimento al diritto naturale è un modo per legittimare una specifica visione regressiva. La natura è moralmente neutra e appellarsi a essa per sostenere posizioni etiche (inesistenti, appunto, in natura) è una delle tecniche più classiche per manipolare in direzione conservatrice le discussioni sui valori.
Ahhhh, e daje con ’sto diritto naturale… è un concetto di una specifica scuola di filosofia del diritto, sappiamo che non gli piace, ma basta confonderlo con l’appello alla natura! Sono due cose diverseeee! E comunque non c’è traccia di pentimento, anzi Carofiglio sembra non accorgersi minimamente di tutte le volte in cui lui stesso si appella alla natura. Come quella sparata sui pinguini, scritta esattamente… qualche paragrafo… prima.
Eh, tanto è chiaro, Carofiglio è un gaffeur professionista, vano è sperare che cambi a questo punto del saggio. E, infatti, un’altra bella grossa la spara verso la fine del capitolo, quando, con il candore che gli è proprio, e che abbiamo in precedenza esaminato, dichiara solenne:
Accogliendo nuove voci, siamo costretti a rivedere le nostre regole […] laddove prima non era mai stato necessario, perché a farsi ascoltare era solo un tipo specifico di persona: maschio, bianco, eterosessuale, probabilmente laureato, insomma, il profilo di uno dei due autori di questo libro.
Ah, cazzarola, che bello trovare ancora un tale messaggio di civiltà, in un libro che, dal primo capitolo all’ultimo, ci impedisce di separare nettamente le opinioni dell’autrice da quelle del vecchio maschio bianco! Gianrico, sei un fottuto mito, te lo riconosco.
Ad ogni modo, come in precedenza, spendo una lode anche per questo sproloquio sul politicamente corretto. La seguente affermazione, presa per quello che è, mi sembra condivisibile, un’analisi lucida e nient’affatto sciocca:
L’offesa è soggettiva ed è una ragione piuttosto debole per denunciare, censurare, o proibire un atto. Su una bilancia ideale, la suscettibilità soggettiva non può competere con la libertà d’espressione. In altri termini, se qualcuno dicesse: non possiamo mettere a rischio la libertà d’espressione solo per evitare che Tizio o Caio si sentano offesi, non avrebbe tutti i torti.
Non voglio quindi sparare troppo sulla riflessione che la segue…
[…] l’ingiustizia non è generata dal singolo episodio ma da una rete di comportamenti e significati e simboli inconsci, non analizzati, considerati normali.
[…]
Perché certe ingiustizie esistano non è necessario individuare un colpevole o delle cattive intenzioni: è il modo stesso in cui la nostra società è organizzata, dalla cultura, ai media, alla burocrazia, ai mercati a creare ingiustizia […]
… perché altrimenti dovrei ricapitolare tutto, e far presente al nostro autore che la società, i mercati e quelle balle lì sono strutture complesse “naturali”, non dei videogiochi programmati ad arte, e dunque se “certe ingiustizie” sono il loro prodotto, non si possono affatto considerare “ingiustizie”, con la connotazione morale insita nel senso del termine (sempre per la storia dell’appello alla natura, eh). E dovrei anche ricordargli che, se effettivamente è “tutta colpa” della società, della cultura e dei mercati, allora…
La buona notizia è che lingua e cultura, usate criticamente, hanno anche il potere di stravolgere e spazzare via quelle rappresentazioni.
… non è una buona notizia, è una personale speranza. Interessante è notare che “cultura” compare sia nel ruolo di causa dell’ingiustizia, sia nel ruolo di cura: immagino che non si tratti della stessa cosa, o magari Carofiglio concepisce la cultura a mo’ di randello. La medesima cultura oggi crea ingiustizia perché dei bruti ce la sbattono veementemente in testa, domani produrrà diritti e amore perché dei carofigli la useranno criticamente, cioè daranno mazzate con gentilezza.
Giocati dal caz…
Dai, non pungolo più, passo ad altro. Parliamo di… uh… fortuna, opportunità, autostima… mah, non è che mi sia molto chiaro. Il nuovo capitolo comincia con un riassunto di Giocati dal caso. Sapete come fanno questi boomer alla Carofiglio, no? Vedono un film, leggono un libro, e via, se gli piace poi te lo raccontano all’infinito, in preda a quella petulanza senile incontrollabile.
Ecco, dopo il piacevole riassunto, Carofiglio (ormai non devo nemmeno più precisare che la voce mi risulta essere solo ed esclusivamente la sua) trae una conclusione:
Una persona fortunatissima, nel contesto sbagliato, si sente un perdente.
Gianri’, scusa, per me è un po’ una cazzata. Parti dall’assunzione che la persona sia fortunatissima? Ma chi l’ha messa nel “contesto sbagliato”? Se ci è capitata per caso, o per cause esterne (e noi decidiamo liberamente di fare qualcosa? Uhm…), non è forse una persona sfortunata, proprio per via di quel dettaglio? Oh, no, no, non c’è tempo per gli indovinelli filosofici, si parla ancora di logica. Se ne parla ancora in modo… ehm, ehm…
Siamo vittime del cosiddetto «pregiudizio di sopravvivenza»: un errore logico per cui, quando valutiamo una situazione, lo facciamo considerando solo gli elementi che hanno superato un processo di selezione e ignoriamo gli altri, perché meno visibili.
Be’, insomma, avrei da ridire. Idem come sopra: errore logico? C’è forse un non sequitur, una negazione dell’antecedente, un’affermazione del conseguente, un qualsivoglia altro vizio formale in un argomento deduttivo? Non mi sembra il caso di dare sempre retta a Wikipedia (sì, la definizione della versione italiana è pressoché identica a quella data da Carofiglio… paralleli già notati in Della gentilezza e del coraggio, eh?). Cerchiamo di essere più precisi: lo dice già il nome, “pregiudizio”, e dunque si tratta di una tendenziosità psicologica (un “cognitive bias”, se preferite l’inglese), non tanto di un errore logico in senso stretto, come può essere, appunto, una negazione dell’antecedente. Sì, sì, lettori, a questo punto alcuni di voi sono irritati dalla mia pignoleria, però voglio ricordare che questo saggio ha intenti seri, e che il nostro autore tira spesso in ballo la logica, convinto che la “pratica” della stessa abbia effetti dirompenti: be’, se gli piace tanto la logica, dovrebbe essere lui pignolo, dovrebbe stare attento alle sottigliezze!
E lasciamo stare, va bene, vi ho capito. Che succede, dopo la wikipediana definizione del bias? Be’, sapete che risultati corretti e conclusioni vere possono manifestarsi per pura fortuna (oh, capita a fagiolo), e… e infatti sembra che ne L’ora del caffè succeda proprio qualcosa del genere. Carofiglio continua la sua esposizione dell’errore (non così tanto) logico con questa osservazione:
[…] il pregiudizio di sopravvivenza si manifesta anche in maniera opposta: cioè quando chi ha successo conclude che se gli altri facessero come lui o lei, raggiungerebbero gli stessi risultati.
Uhm… sì, dai… ottimo! Scordiamoci le fregnacce che abbiamo incontrato fin qui, adesso daremo una lezione a tutti quei piacioni che ti rompono le palle dicendoti che, se farai come loro, avrai successo! Oh, pare proprio che il saggio continui così:
[…] se io sono arrivato in cima grazie al mio impegno, e lo hanno fatto anche le persone intorno a me, significa che chi lavora duramente ha successo. Chi è povero o costretto a lavori poco soddisfacenti deve, di conseguenza, essere una persona che ha deciso di non fare i giusti sacrifici e di non impegnarsi come dovrebbe. Qui l’errore logico è chiaro, ed è un errore nel ragionamento induttivo: si generalizza un caso particolare e se ne tira fuori una regola anche quando non ci sono le premesse, quando le premesse sono insufficienti o fallaci.
E… però, scusate, ancora una volta: dov’è esattamente “l’errore nel ragionamento induttivo”? Nel “generalizza[re] un caso particolare”? No, quella è la definizione del ragionamento induttivo. Oh, perché Carofiglio si complica la vita? Stiamo parlando del pregiudizio di sopravvivenza: basta far notare che il tizio dell’esempio, quando stabilisce che “chi lavora duramente ha successo”, considera soltanto le persone intorno a lui e, di queste, soltanto le persone che hanno effettivamente avuto successo. A causa del bias psicologico, si dimentica di esaminare anche altri soggetti, in particolare quelli che non hanno avuto successo, e quindi generalizza sulla base di dati che non tengono conto di (eventuali) insuccessi accoppiati a un grande impegno. Con questo, se non fosse caduto nel bias e avesse considerato quel che c’era da considerare, avrebbe comunque generalizzato un caso particolare.
Tutto qui. Ma no, Carofiglio insiste col suo modus operandi, e al ragionamento induttivo deve far seguire un ragionamento deduttivo valido (“chi è povero […] di conseguenza […]”) che non interessa, che allunga il brodo, che distrae; poi, non pago, finisce appunto per ingarbugliarsi, lasciando intendere che generalizzare sia in sé parte del problema. Secondo me, se avesse scritto: “è un errore nel ragionamento induttivo: sbrigativamente, ci si basa su un certo caso particolare, il quale non è di per sé un premessa sufficiente per poter trarre per via induttiva una regola generale”, sarebbe stato meglio.
Non dico che lo spirito del brano riportato sia sbagliato, o che non sia intuibile cosa Carofiglio vuole comunicare; però il nostro autore, invece di un esempio chiarificatore, ancora una volta ci regala un certo qual senso di confusione. E il bello è che l’esempio non andava nemmeno spiegato, perché era già preceduto dalla parte teorica che descrive il pregiudizio di sopravvivenza…
Appunto non è la prima volta che incontriamo situazioni del genere, e oltretutto il mio tentativo (non so quanto riuscito) di imbastire un discorso logico duro e puro ha sicuramente rotto, perciò passiamo oltre. E oltre si trova una bella perla di saggezza, che andrebbe scritta su un biglietto e tenuta nel portafogli:
Che i giovani vengano incolpati di essere pigri, poco seri, non è una novità. È sempre stato così, ha sempre fatto parte dei rituali linguistici di passaggio fra le generazioni. Adesso però questa retorica è diventata un alibi, alimentato da una pericolosa fallacia, per giustificare un sistema profondamente iniquo.
Ah, pensavate scherzassi? No, sono seria, Carofiglio ha ragione, e fa piacere che lo dica a chiare lettere. Voi lasciate perdere la giustificazione teorica, come sempre confusa, accontentatevi della tesi: non è sbagliata per niente, e se solo la nostra società se la ricordasse più spesso, meh, forse alcuni sarebbero meno vessati, e certe opportunità potrebbero finalmente essere colte. Quindi, bravo Gianrico, ne spari di buone. E qui dai il meglio di te, continuando così:
La storia del merito personale è una storia che poteva reggere in un’epoca di prosperità economica, o perlomeno di crescita sostenuta. Quando l’economia è in espansione è più facile credere che ci sia una correlazione tra impegno, quantità di lavoro, remunerazione economica (e in termini di status).
Il disagio dei giovani occidentali poggia su una promessa infranta: che ogni generazione migliorerà rispetto a quella che l’ha preceduta.
Cosa può significare, dunque, diventare adulti in un mondo in cui tutto sembra precario e incontrollabile?
Eh, totalmente d’accordo, Gianri’.
Sono meno d’accordo, invece, con quel che segue la domanda, risposte che evidenziano tutta la candida ingenuità e il fanciullesco idealismo che pervadono la mente del nostro Carofiglio:
Per chi è ancora costretto a vivere in casa con i propri genitori, può significare la scoperta di un senso di autonomia nell’assunzione di responsabilità verso gli altri: contribuire al budget familiare e alla gestione domestica, assumersi compiti di cura, impegnarsi nel volontariato e nell’associazionismo.
Insomma, in generale: ripensare le nozioni stesse di successo e di fallimento. […] È necessario che i giovani si emancipino dall’atteggiamento paternalistico a loro riservato, spesso sinonimo di esclusione o partecipazione parziale alla vita collettiva. Per farlo bisogna rifiutare un individualismo pernicioso e tornare ad accettare la nostra interdipendenza, l’idea che il benessere non è un obiettivo individuale ma comune, che non c’è vergogna nell’avere bisogno di una rete di supporto.
Vedremo, vedremo.
Alla fine è sempre colpa mia
Bene, lettori, siamo arrivati all’ultimo capitolo. E… e basta, mi trattengo e non commento più di tanto, lo giuro. Vi faccio solo notare che non ci scostiamo dai modelli precedenti: pure qui troviamo il nostro sessantenne che parla di e per i giovani, dopo essersi assicurato che la coautrice ventenne non abbia firmato alcuna opinione…
I giovani non amano la politica.
Poi continua la crociata contro la “volontà popolare”, combattuta sin dai tempi de La nuova manomissione delle parole…
La differenza tra uniforme e comune permette di concepire la democrazia e la politica come un’ideale assemblea in cui si confrontano punti di vista discordanti (e anche i punti di vista spesso molto diversi di generazioni diverse) e non una sola verità, non un’unica volontà popolare.
Abbiamo degli incredibili insight filosofici, roba da proporre direttamente a Kripke…
[…] è appena il caso di notare che l’etimologia del verbo comunicare deriva da quella di comunità […].
Sembra lamentarsi delle mie precedenti recensioni…
Se non riesci a spiegare il tuo ideale a un dodicenne di intelligenza media, allora probabilmente è colpa tua.
Usa malamente la punteggiatura, inducendoci a fraintendere le congiunzioni, con la conseguenza che finiremo per stimare Di Maio un buon politico, e Mussolini un integerrimo servitore dello Stato…
Ci sono politici competenti e semianalfabeti; onesti e criminali.
Si lascia ispirare da una recente pubblicità di WindTre e si inventa pure uno slogan accattivante…
Nel 1874 lo scienziato Philipp von Jolly affermò che nella fisica era ormai stato scoperto tutto. Nel 1916 Charlie Chaplin disse che al pubblico non interessava vedere figure in movimento su uno schermo, ma esseri umani in carne e ossa su un palcoscenico. Nel 1932 Albert Einstein dichiarò categoricamente che non ci sarebbe mai stata la possibilità di produrre energia atomica. Nel 1943 l’allora presidente dell’Ibm Thomas Watson sostenne che in futuro ci sarebbero state al massimo cinque persone nel mondo interessate a comprare un computer. Nel 1977 Ken Olsen […].
Tante cose sono accadute perché qualcuno ha avuto il coraggio di spararla grossa, di pensare l’impensabile e di pretenderlo.
Va be’, ci sono un sacco di altri appunti da fare su questo capitolo, ma… chiudiamola qui. Come prima, non crediate che abbia deciso di liquidarlo per mancanza di materiale. Davvero, comprendo la vostra pazienza e non mi va di tirare troppo la corda. Vi rassicuro, però: ne L’ora del caffè la parola “frattale” non compare mai.
Senti chi parla!
Saltiamo dunque alle… no… no? No, niente osservazioni finali, c’è Una specie di postfazione. Oh mio… oh mio… lettori, lettori! Voi non potete crederci. Parla! Lei parla, cioè… Giorgia! C’è un dialogo fra lei e suo padre!
Eh sì, la presentazione diceva il vero, nel saggio c’è una discussione fra un padre e una figlia. E Carofiglio ha giustamente scelto il posto migliore, la postfazione, il culo del testo, per far parlare la sua coautrice. Dai, dai, vediamo un po’. Toh, guarda, il narratore è dichiaratamente Gianrico, stavolta. Fantastico, ecco l’ennesimo indizio a favore della mia idea: lui è la voce del saggio, di tutto il saggio. Nah, tranquilli, non voglio divagare, adesso riporto quel che c’è scritto ne L’ora del caffè:
Giorgia era casualmente a Bari – di solito è altrove, in posti vari, non tutti raccomandabili – e io ero appena rientrato da Roma.
Ohi, frena. “[P]osti vari, non tutti raccomandabili”?! Ma che fai, Gianrico, lo sai che vuol dire “posti non raccomandabili”, in un contesto del genere? Diamine, così sembra che stai dando del puttanone a tua figlia! Come ti viene in mente?! E lei ti lascia scrivere questa roba, gli editor stessi non te la correggono? Che cavolo, io davvero non so più che pesci pigliare. Va be’, continuiamo, ché è meglio…
– Ciao Giorgia, devo parlarti.
– Di cosa?
– Non lo immagineresti. Ci fanno la proposta di scrivere un libro insieme.
– Vuoi dire: tu e io?
[…]
– Perché vogliono me e non un’altra ragazza? Che ne so, una giornalista?
– Ma che dici? Sarebbero conversazioni figlia-padre. Ti consta che abbia altre figlie, magari che fanno le giornaliste?
Ehi, almeno è proprio un dialogo! Sì, insomma, chiacchiere da bar. È la mia modesta opinione, ma non si potevano mettere queste belle battute… eh… magari all’inizio, così, per dare un’idea della genesi del libro, e per renderlo da subito… una “conversazion[e] figlia-padre”?
Be’, meglio tardi che mai. Il dialogo continua e finalmente possiamo conoscere lo spessore intellettuale di Giorgia, le sue preoccupazioni filosofiche, la sua tenacia nella difesa di tesi eterodosse, il suo spirito da…
– Se non lo faccio con te, non è che lo faccio con un’altra, questo ipotetico libro. Non si fa e basta.
– Diranno che è un ingiusto privilegio.
– Ovvio che qualcuno lo dirà e qualcun altro lo penserà. Dunque? Chi se ne frega […].
Ah, si preoccupa di passare per raccomandata. Ehm, occhei… eh… no, dico, tranquilla, almeno a me non è mai passato per la testa, e credo non lo penseranno nemmeno gli altri. Insomma, di solito un raccomandato viene piazzato lì e fa qualcosa. Lo fa magari male, senza alcuna competenza, però lo fa, e si vanta di averlo fatto. Non potrei mai sospettare che tu sia stata raccomandata, per aver partecipato a un saggio a cui sembra che tu non abbia affatto partecipato.
Oh, sentite, questo siparietto non porta a nulla, è solo un cringissimo scambio di battute tra una giovane donna alquanto confusa e un boomer entusiasta oltre ogni immaginazione. Più che altro, buona parte del contenuto è volta a discolpare Carofiglio dall’accusa (esplicitamente mossa da Giorgia) di porsi come un irritante, paludato e sconclusionato avvocato in ogni conversazione che prova a sostenere, con chiunque. E sapete che c’è? Un dubbio mi viene sul serio, ma non sull’eventuale raccomandazione di Giorgia: e se quest’ultima parte de L’ora del caffè fosse completamente frutto della fantasia gianrichesca? Mah. Quel che so è che il dialogo, e con esso il saggio, termina definitivamente con parole che esprimono la sexy ironia di Carofiglio, ironia che lo consacra definitivamente come lo “stand-up comedian” erede di Silvio Berlusconi (ora che il povero Silvio è costretto a essere un “comedian” e basta):
Gli editor che hanno letto la prima versione del manoscritto sostengono che i contributi della figlia erano migliori di quelli del padre, affermazione che smentisco in modo categorico.
Nessun animale è stato maltrattato durante la stesura, anche se talvolta la gatta di casa dava segni di insofferenza.
Tutte le parti riuscite sono merito mio, mentre eventuali difetti sono tutti da attribuire a Giorgia.
Ah, ah, ah, ah, ah, ah. No, lettori, è che mi sto ancora sbellicando per la simpaticità del nostro amato Carofiglio. Come dite, che diritto ho di definirlo “amato”, io che sono la sua hater numero uno? Oh, fraintendete, lettori. Io non sono affatto una sua hater.
“Il Gianni”
No, no, vi ho ricordato all’inizio che ho la stessa età di sua figlia, quindi non è troppo strano che possa volergli bene come a un nonno. Prendetemi sul serio: io apprezzo Gianrico Carofiglio, mi piace. Sicuramente non nel senso (intellettuale, eh, non pensate male) che vorrebbe lui, però mi piace. I suoi saggi mi divertono e, no, non intendo un divertimento maligno. Ormai non so nemmeno più quante prese in giro gli ho riservato, eppure non ho mai sentito di volerlo bullizzare (be’, non ho mai voluto bullizzare nessuno, sia chiaro). Quando inveisco contro di lui non provo affatto una soddisfazione sadica, appunto del genere che prova il bullo intenzionato a umiliare il secchione. Mi sento in effetti come se stessi perculando un compagnone di vecchia data. Potrà sembrarvi strano, ma nel dargli del boomer o del casinaro, mi sembra (e in quest’occasione più che mai) di stare al tavolino di un bar e di far caciara con “il Gianni”, quello della combriccola che ha sempre da dire sulla politica, e su cosa hanno scoperto quelli là, e su questo, e su quello. C’è un che di cameratesco, che forse mi è difficile trasmettere in una recensione, e che però, ribadisco, mi diverte davvero.
Non so di preciso da dove arrivi una tale sensazione, perché col nostro autore non ho mai fatto nemmeno mezza chiacchiera. Forse è lo stile dei suoi saggi? L’ho sostenuto più volte, dai suoi libri traspare una sincera voglia di aiutare il prossimo, e un genuino interesse per problemi filosofici e scentifici che abbiano pure una rilevanza sociale. So che molti dei suoi (veri) hater lo considerano un montato: sì, forse un po’ montato lo è… ma è ’na qualità! Come disse lui stesso, “[u]na certa quota di narcisismo è una componente naturale e necessaria di una personalità equilibrata” (Della gentilezza e del coraggio, cap. 8, Umorismo, virtù politica), e perché mai dovrei lamentarmi, se quel “narcisismo” dà il coraggio di scrivere libri che hanno lo scopo di migliorare tutti i lettori? Che poi il contenuto dei libri sia quello che è, in fin dei conti possiamo considerarlo una cosa di (relativo) poco conto. E se comunque non vi sta bene che Gianrico Carofiglio sia un montato, concedete almeno che ha di buono la volontà di far sì che anche tutti gli altri possano sentirsi dei montati come lui. Almeno, così credo. Ma sono certa che anche voi potete giudicare valido questo ragionamento: Carofiglio pensa di essere er mejo perché sa un sacco di cose; con i suoi saggi, lui vuole divulgare tutte quelle cose, cosicché chiunque possa conoscerle; se qualcuno conosce quelle cose, può giustamente sentirsi un montato; dunque Carofiglio ha piacere che tutti possano sentirsi dei montati.
Corretto? Boh, a questo punto mi sa che sto dando i numeri. Prima di salutarvi, voglio ancora spendere due parole a proposito del giudizio finale su L’ora del caffè. Per certi aspetti è un po’ una gramellinata, quindi meriterebbe tre stelle, ma… non me la sento proprio, ci sono praticamente tutte le cavolate che hanno fatto guadagnare la stella solitaria ai precedenti saggi del nostro autore, considerare L’ora del caffè un prodotto quasi mezzo riuscito… eh, sarebbe incoerente. Una stella. E, come le altre volte, ciò non vi deve suggerire che nel libro ci siano solo ed esclusivamente cavolate. La seconda parola che devo spendere riguarda il “vincitore” della mia bocciatura. Anche se la copertina riporta due nomi, io do il voto solo a Gianrico, perché non posso proprio sapere quanto c’è di Giorgia ne L’ora del caffè. Forse metà delle battute della postfazione? Comunque è troppo poco per poter dare un voto alla sua scrittura. Pertanto, Giorgia non si senta mogia a causa di questa mia recensione; più che altro, la prenda come un invito a considerare con attenzione i suoi futuri “partner in crime”.
E poi, dai, nemmeno Gianrico deve sentirsi bocciato o mortificato. Intanto, lui ha già sei stelle, e non è poco. Sei distribuite su cinque libri diversi, ma è un dettaglio. Sono inoltre fiduciosa che il nostro uomo capisca bene il senso delle mie recensioni: del resto, un autore che scrive (per l’ennesima volta, già) queste parole…
L’umorismo e l’autoironia sono doti epistemologiche perché ci permettono – sottraendoci alla trappola di un punto di vista tutto centrato su noi stessi e le nostre esigenze – una migliore visione e una migliore comprensione del mondo e di noi stessi. […] L’umorismo è un’arma contro il fanatismo.
… sa di avere le carte giuste per farsi voler bene da chi lo legge, per quante stronz… ehm, affermazioni opinabili possa scrivere.
E voi, siete d’accordo? Ribadisco che se volemo tutti bbbene qui, alla fin fine. Perciò, se volete bene a Carofiglio come gliene voglio io, leggete i suoi saggi. Non vi garantisco che imparerete qualcosa di utile, o di vero, se non per caso (o per via negativa, come dicevano i medievali), però vi assicuro che in qualche modo vi divertirete; e poiché vi divertirete, io vi auguro una buona lettura!
Wow!