L’età fragile – Donatella Di Pietrantonio

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IL GIUDIZIO:

l'età fragile romanzo di donatella di pietrantonio edito da einaudi

Non avevo voglia […].

Trashseller

Di recente ho riguardato Le nuove avventure di Lupin III, e più lo guardavo, più mi domandavo come possiamo averlo trovato sensato e ragionevole da piccoli. Le trame degli episodi sembrano scritte da qualcuno sotto l’effetto di allucinogeni: una volta Lupin è perseguitato da una vampira che è anche la gemella di Gesù Cristo; un’altra volta invece è preso di mira da Dalì, travestito da ispettore Maigret, che vuole fare del nostro un’opera d’arte; un’altra volta ancora usa un’enorme macchina che produce pop-corn per andare sulla luna (spoiler: Lupin sprofonda nella terra e finisce dall’altra parte del globo, anziché nello spazio, perché per errore al mais non è stato aggiunto il sale, come prevedeva il piano, ma lo zucchero). Il tutto è condito da numerosi bloopers.
Eppure… oh, e che je voi dì? È… è come Gianna: bello.

È bello perché non si prende sul serio, perché è scanzonato, sopra le righe e sorprendente… ma soprattutto, perché i suoi personaggi sono carismatici.
È infatti grazie a loro che l’anime è un longseller, di cui giusto pochi anni fa sono usciti nuovi sequel. Dopotutto, non ci vuole molto per creare l’ennesimo episodio in cui Fujiko tende una “trappola sexy” a Lupin, in cui Lupin compie un furto spettacolare, in cui Jigen si lamenta di Fujiko e in cui alla fine Goemon, che ha passato buona parte dell’episodio a meditare, salva in extremis i suoi compagni usando la spada. Al contrario, per creare da zero dei personaggi carismatici e brillanti come sono Lupin e i suoi amici, ci vuole creatività, tempo ed energia.
Allo stesso modo, non ci vuole molto per immaginarsi una storia ambientata nel mondo di Star Wars, ma progettare un altro mondo affascinante e complesso come quello di Star Wars è tutt’altra faccenda.

È per questo che oggi spopolano i sequel, i prequel, i remake e i live action di opere che hanno fatto la storia: l’industria del cinema vuole un profitto veloce e senza rischi, che non richieda troppo tempo e troppe risorse. Si cercano sempre di più i bestseller, a discapito dei longseller.
Ed è così ovviamente anche nel mondo editoriale italiano, che da anni continua a propinarci sempre le solite storie. Tanto per fare un esempio, nell’ultimo decennio si è perso il conto di tutti i romanzi che vedono personaggi femminili calati in contesti retrivi o arcaici: Accabadora, L’amica geniale, L’Arminuta, Oliva Denaro, La Malnata, Virdimura
Così facendo, gli stessi scrittori sono portati a ripetersi e a non sperimentare, e la produzione di Donatella Di Pietrantonio lo dimostra. Mia madre è un fiume, romanzo d’esordio dell’autrice, è ambientato in Abruzzo, parla di una donna e del rapporto con la madre anaffettiva. Bella mia è ambientato in Abruzzo e parla di una donna che si ritrova a dover ricoprire inaspettatamente il ruolo di figura materna. Il già citato L’Arminuta è di nuovo ambientato in Abruzzo, e parla di una ragazzina rifiutata prima dalla madre biologica e poi da quella adottiva. Borgo Sud, ancora Abruzzo, la protagonista de L’Arminuta è diventata adulta e riflette su sua madre e su sua sorella… che sta per diventare madre. Infine L’età fragile, che ha vinto il Premio Strega 2024: la protagonista è una madre che ha un rapporto difficile con sua figlia… e ovviamente siamo ancora in Abruzzo.
Ora lettori, qualunque scrittore, anche il più creativo, avrebbe difficoltà a trattare lo stesso argomento per il quinto romanzo di fila. Non c’è proprio da stupirsi dunque se L’età fragile è un romanzo raffazzonato, approssimativo e privo di idee. Forse sarà un bestseller per qualche mese grazie al cosiddetto “effetto Strega”, ma ve lo posso assicurare: fra qualche anno, non sarà mai esistito. E allora sbrighiamoci con la sinossi, che mi sento già il ricordo affievolirsi…

Chi ben comincia poi sciopera

La storia è ambientata negli anni dell’emergenza COVID-19, in un paese dell’entroterra abruzzese di cui non si specifica il nome. Qui vive Lucia con sua figlia Amanda, la quale si è trasferita in fretta e furia da Milano, dove viveva come studentessa fuori sede, poco prima che l’Italia entrasse in lockdown. Lucia, la voce narrante, ci spiega che il rapporto con sua figlia è sempre stato complesso, ma mai come in questo periodo: Amanda infatti, da quando è tornata in paese, si è chiusa in un silenzio ostile e impenetrabile, non studia, mangia poco, dorme di giorno e resta sveglia di notte. Lucia non capisce che cosa sia successo a sua figlia e non sa come guarirla da questa grave apatia. Ma Amanda non è l’unica preoccupazione di Lucia: ci si mette di mezzo anche un odiato terreno di famiglia in cui tempo addietro furono uccise due turiste. Su questo terreno, chiamato Dente del Lupo, ha messo gli occhi un maneggione che vuole farne un luogo di turismo; tuttavia, se Lucia accettasse la sua offerta a quattro zeri, si troverebbe contro tutti i pastori del paese, nonché Amanda che si innamora di quel terreno tanto odiato da sua madre…

Allora, vi dirò, all’inizio la trama non sembra neanche così male. La storia comincia infatti con un cambiamento (quello che Lucia nota nel comportamento di Amanda), e i cambiamenti hanno un potere magico sulla nostra mente,  catturandone subito l’attenzione. Ciò accade perché il nostro cervello si rilassa nelle situazioni stabili e prevedibili, mentre è addestrato per entrare in allerta non appena percepisce una modifica, anche minima, nell’ambiente: dopotutto ogni novità potrebbe rivelarsi una minaccia per la nostra incolumità, eh! Pertanto, quando leggiamo che Amanda si comporta in maniera diversa rispetto al suo solito, automaticamente drizziamo le antenne e ci concentriamo su di lei. E ci concentriamo ancor di più quando capiamo che il cambiamento in questione non è un semplice cambiamento, ma… un cambiamento inaspettato, la cui causa è ignota. Un mistero! Diciamocelo, può un libro iniziare meglio di così?

Ma poi la trama va avanti e l’attenzione guadagnata all’inizio si perde del tutto. Il motivo? La voce narrante perde continuamente di vista le cose più rilevanti, distraendosi con discorsi di scarsa importanza e fuori tema. Vi faccio un esempio. A un certo punto della storia, Lucia si accorge che Amanda evita di rispondere al cellulare, il quale continua a squillare con insistenza. Decide di indagare e, mentre Amanda si fa una doccia, le prende lo smartphone, scoprendo così che molte chiamate provengono da un certo Lorenzo, di cui non ha mai sentito parlare…

Il suo telefono suonava da qualche parte sotto il letto. L’avevo sentito anche prima, a lungo. La mia domanda senza parole: perché non rispondi? Incassava gli squilli uno a uno, poi è arrivato un messaggio. […] Mi sono allungata con il braccio sotto il letto, con la paura di essere sorpresa. Un tale Lorenzo aveva chiamato più volte, e anche papà. Ho spinto il telefono dov’era prima.

Dunque, abbiamo una ragazza depressa e un ragazzo che la chiama con insistenza. Stiamo pensiamo tutti la stessa cosa, vero? Ma certo, è semplice: Amanda e Lorenzo erano fidanzati, poi lui ha fatto il coglione e le ha spezzato il cuore. Elementare lettori, elementare! O… magari no, magari sto Lorenzo è semplicemente un poveraccio che è stato ghostato e che non c’entra proprio niente con la depressione di Amanda. O forse c’entra, ma in un modo a cui non abbiamo ancora pensato…
Be’, direte voi, inutile rimuginare, andiamo avanti con la trama e scopriamolo. Giusto! Ma… c’è un problema: Lucia non continua a indagare su Lorenzo, anzi, lo ignora completamente. Non si segna il suo numero, non prova a contattarlo, non ne parla con Amanda… oh, non si domanda neppure chi sia! Un istante dopo aver visto le telefonate di uno sconosciuto sul cellulare della figlia depressa, Lucia si mette infatti a pensare a tutt’altro, nello specifico pensa a suo marito e a come è opportuno definirlo adesso che si stanno separando:

Un tale Lorenzo aveva chiamato più volte, e anche papà. Ho spinto il telefono dov’era prima.
Dal bagno ancora acqua corrente e poi il fon, a rassicurarmi. Ecco come mi ero ridotta: una madre felice di sentire che la figlia si lavava. È uscita profumata, la capigliatura che le ricadeva vaporosa sul petto, più verdi gli occhi screziati di nocciola. Non si è richiusa in camera, ma è sparita.
Ho risposto a suo padre cercando di ricordare da quanto non mi chiamava.
– Che succede? – ha chiesto.
Era preoccupato, da settimane non riusciva a parlare con lei al telefono.
– Se è per quello non parla nemmeno con me, – gli ho detto. – E con nessun altro.
– Ma lì in casa che fa?
– Niente.
– E tu non riesci a smuoverla?
Non riuscivo, no, ancora adesso non riesco. Poteva venire lui a provarci, se credeva. […]
– Io non posso spostarmi, – ha detto Dario.
E allora non potevo aiutarlo.
Mio padre si arrabbia con me, che non faccio le carte per il divorzio. Né tu né quello smidollato, brontola. È vero, ci lega questa omissione e altro che non sappiamo. Amanda, di certo.
Ancora mi trovo in imbarazzo se devo nominarlo. Marito stride in bocca, ex marito non risulta, padre di mia figlia, non so.

Be’, notevole. Soprattutto il fatto che Lucia risponda alle chiamate del padre di Amanda dopo aver “spinto il telefono dov’era prima”. Io non ci avrei mai pensato.

La pistola, Cechov, getta la pistola!

Via, un altro esempio. Mentre Lucia si trova nel suo studio da fisioterapista, le viene recapitato un pacco di Zalando destinato ad Amanda…

Il corriere ha una consegna per mia figlia. Ha già provato a casa, ma non c’era nessuno. […]
Per fortuna il corriere si è ricordato che poteva trovarmi allo studio, dice. Do solo un’occhiata alla scritta «Zalando» e all’invito: «Love me. Wear me». […]
Amanda non ha mai ricevuto niente da quando è tornata. Sollevo il cartone e quasi mi vola via, me l’aspettavo più pesante. Lo inclino da una parte e dall’altra, all’interno un fruscio che si sposta. Se lo rovescio qualcosa di duro, forse metallico, sbatte contro l’imballaggio. Non è una delle sue tute, sento un tessuto sottile, forse cotone o viscosa. L’etichetta non mi aiuta: collo 1, numero d’ordine, codice a barre. Immagino un vestito con una cintura e una fibbia, è quella che bussa alle pareti della scatola. […]
Scuoto il pacco e non so in quale occasione Amanda indosserà il vestito che sento. Non esce dal giorno della nostra passeggiata in montagna. Porta pigiami o tute, la maglietta con il logo del bar se va a lavorare.

Lo schema è lo stesso della scena dello smartphone: Amanda non è nei paraggi e Lucia ha campo libero per ficcanasare un po’. Questa volta scopre che Amanda ha acquistato qualcosa di sciccoso, benché la sua depressione non sembri migliorata affatto e nulla lasci presagire un suo imminente ritorno alla vita mondana (“[…] non so in quale occasione Amanda indosserà il vestito che sento. Non esce dal giorno della nostra passeggiata in montagna”). Insomma, il pacco di Zalando non è un elemento coerente con il quadro che noi e Lucia conosciamo, e ciò può significare solo una cosa: qualcosa ci sta sfuggendo, e il pacco è un indizio che potrebbe aiutarci a colmare i vuoti di informazione.
A questo punto, la cosa più normale che potrebbe accadere è che Lucia si incuriosisca come abbiamo fatto noi e che cerchi di capire per quale ragione sua figlia abbia acquistato un abito (sempre che si tratti di un abito).
Ma Lucia dice: “Nah”. Si convince che sua figlia starà benone, e se non sarà così… oh, meglio ancora, perché in effetti le servirebbe proprio un abito nero, anvedi che culo!

Qualcuno si sarà ricordato di lei, qui, l’ha chiamata per una festa. Amanda ha risposto, ha deciso di andarci, indosserà il vestito che ha ordinato su Zalando. […]
O forse si è già pentita dell’acquisto. Butterà il vestito sulla sedia in camera sua, senza neanche provarlo. Se è nero potrei indossarlo io al primo concerto del coro. Sarà all’aperto, sul mare, al maestro Milo hanno concesso l’Auditorium Flaiano.

E queste sono le ultime parole che Lucia dedica al pacco. Sì, perché del pacco, come di Lorenzo, non se ne riparlerà più per tutto il resto del romanzo. Già: sappiamo con estrema precisione che cosa c’è scritto sulla sua confezione (“[d]o solo un’occhiata alla scritta «Zalando» e all’invito: «Love me. Wear me»”, “[l]’etichetta non mi aiuta: collo 1, numero d’ordine, codice a barre”), ma non sapremo mai che cosa contiene, perché è stato ordinato e soprattutto perché è stato introdotto nella trama. Qui, ve lo dico, Cechov ha deciso di prendere la sua pistola e di farla finita una volta per tutte.

Quindi, riassumendo: Lucia non sta indagando, perciò non sta raccogliendo informazioni utili che possano farle scoprire perché sua figlia è così depressa. Come potrà mai venire a capo della vicenda?
Ah lettori, vi fate troppe domande. Pensate troppo! Non vi ricordate che cosa diceva Alex di Arancia meccanica, eh? “Il pensare è per gli stupidi, mentre i cervelluti si affidano all’ispirazione”. E la Di Pietrantonio infatti si è lasciata andare all’ispirazione. Ispira che ti rispira, alla fine si è detta: ma che è sta storia che le cose devono accadé per un motivo, facciamo che Lucia semplicemente capisce che cos’ha Amanda, così, de botto, senza senso!

Se è nero potrei indossarlo io al primo concerto del coro. Sarà all’aperto, sul mare, al maestro Milo hanno concesso l’Auditorium Flaiano.
L’ho lasciata troppo sola, nella città. È tornata un’altra. La credevo presa dalle sue nuove amicizie […]. Un posto che aveva tanto desiderato non poteva farle del male.
Prima di strapparle la borsa le hanno tirato uno schiaffo a tutta forza sull’orecchio. Non li ha nemmeno visti, in quel punto la strada era buia. Le sono arrivati zitti alle spalle, ha solo avuto l’impressione che fossero in tre, alti e magri. Le girava la testa e un fischio acutissimo la stordiva. Si è appoggiata di spalle a un SUV parcheggiato lungo il marciapiede ed è scivolata giù. Più tardi, da un numero sconosciuto, non sapeva dirmi quanto tempo era rimasta lì a piangere, seduta nella polvere. […] In fondo non era successo niente di grave, pensavo allora. Le avevano rubato soltanto la carta prepagata e il telefono. La ferita era superficiale, si sarebbe presto rimarginata. Non vedevo il danno più duraturo, la fiducia nel mondo che le avevano strappato insieme alla borsa.
Ha dimenticato presto l’episodio, così sembrava. Non ha più voluto parlarne, né con me, né con il padre.

Ma… what the fuuuuck?? Come stracacchio ha fatto Lucia a giungere a una simile conclusione? Nulla di tutto ciò che abbiamo letto finora lasciava neppure lontanamente intendere che Amanda avesse subito un’aggressione. La Di Pietrantonio deve averci pensato (in un momento di assenza di ispirazione, si intende) e ha cercato allora di aggiustare il tiro aggiungendo alla fine della spiegazione di Lucia una serie di altri “indizi”, che proverebbero che in effetti Amanda è rimasta traumatizzata dal furto:

Non ha più voluto parlarne, né con me, né con il padre. Le è rimasto addosso un riflesso che la fa saltare ai contatti improvvisi. Di notte dorme con la luce accesa e quando l’alba entra dalla finestra, Amanda preme l’interruttore e si abbandona a un sonno più profondo. M’intenerisce l’inutile coltellino che a volte si porta in tasca.

Eh, sì, bello… ma in una trama gli indizi dovrebbero comparire prima che il protagonista risolva un mistero, non dopo! E comunque questi indizi non sono granché compatibili con quanto ci è stato raccontato finora a proposito di Amanda. Infatti, non è mica vero che Amanda ha un riflesso “che la fa saltare ai contatti improvvisi”. Ad esempio, in precedenza si racconta che un giorno Lucia, in tarda mattinata, ha cercato di svegliare bruscamente sua figlia che stava ancora dormendo, la quale ha reagito… uhm, piuttosto bene, non vi pare?

Ho bussato alla sua porta, poi sono entrata. Lei sotto le coperte, la testa nascosta dal cuscino.
Le ho scoperto la faccia, per un momento mi ha guardata come se non mi riconoscesse.
– Sto in quarantena, allontanati, – ha detto. – Mangio in camera.

Scusate eh, ma vi pare questa la tipica reazione di una che salta ai contatti improvvisi? Se provi a svegliare in quel modo una persona davvero traumatizzata e con i nervi tesi, questa sobbalzerebbe all’istante… non resterebbe certo a guardarti inebetita come un bradipo strafatto.

Flashbackecacchio

Insomma, la spiegazione di Lucia non c’entra niente con la parte di trama che l’ha preceduta, e sembra un epilogo posticcio aggiunto per concludere velocemente il filone narrativo… forse perché l’autrice aveva fretta di passare a quello successivo: quello che, con una serie di capitoli flashback, racconta la scomparsa sul Dente del Lupo di due turiste, Tania e Virginia, e della migliore amica di Lucia, Doralice.
Allora, vi devo dire… se considerato in sé e per sé, questo filone narrativo (che si ispira alla storia del delitto del Morrone) è anche piuttosto godibile. Solo che… c’entra con il resto della trama come le cozze sulla Saint Honoré, ecco.

I flashback, infatti, si inseriscono in un romanzo con uno scopo ben preciso: il loro compito è di aggiungere informazioni funzionali alla comprensione della trama principale, nello specifico servono a spiegarci quali sono i retroscena che hanno portato gli eventi a svilupparsi in un certo modo. Ad esempio, il protagonista ha una fobia bizzarra? In questo caso, è utile un flashback in cui si racconta del trauma infantile che ha originato la fobia. Nella trama c’è un villain che però mostra di avere una personalità gentile? Un flashback in cui vengono chiarite le ragioni per cui una persona gentile come lui ha finito per ricoprire il ruolo di cattivo è pressoché necessario. Siamo in un romanzo distopico? È una buona idea illustrare con un flashback come si è passati dall’assetto geopolitico odierno a quello presentato nella storia.

Ne L’età fragile invece i flashback non spiegano nulla di quello che accade nella trama principale, perché raccontano un episodio che ha avuto serie ripercussioni solo su personaggi secondari, e non su Amanda e Lucia. In pratica, ci troviamo davanti non a dei flashback, ma a uno spin-off. E se ha senso che in una trama ci siano dei flashback, non ha invece assolutamente senso che ci sia uno spin-off che interrompe la trama per parlare in maniera approfondita di quello che è successo ai personaggi secondari. Ehi, è vero che il filone narrativo che riguarda Amanda e la sua depressione era arrivata a un punto morto, ma la soluzione non può essere quella di troncare la trama e iniziarne una completamente diversa, con nuovi personaggi, nuovi problemi e nuove situazioni. A questo punto, non era forse meglio lasciar perdere del tutto il rapporto fra Lucia e Amanda, su cui evidentemente l’autrice non sapeva bene che dire, e dedicare l’intero romanzo al racconto del delitto? Così, magari, il racconto del delitto avrebbe potuto anche essere migliore di quant’è… già, perché, anche se godibile, conta comunque diverse pecche.

Per cominciare, c’è scarso coinvolgimento emotivo. La ragione è che i personaggi di questo filone narrativo, ovvero Doralice e le due turiste, sono personaggi anonimi, di cui non sappiamo quasi niente a parte che sono state coinvolte nel delitto. In pratica, sappiamo che cosa è successo loro, ma non sappiamo chi sono. E se non abbiamo modo di conoscere una persona, non possiamo nemmeno affezionarci a lei, e di conseguenza non possiamo rattristarci quando muore o preoccuparci quando sparisce nel nulla. In sintesi: se non conosciamo una persona, di lei e di quel che le capita ce ne importa ben poco. È proprio per questo motivo che riusciamo a seguire con tranquillità le serie crime, benché pullulino di ritrovamenti di cadaveri: gli sceneggiatori infatti evitano appositamente di inserire tante informazioni su ciò che erano le vittime in vita, in modo che lo spettatore non empatizzi troppo con loro e possa concentrarsi invece sulle capacità investigative del protagonista, al quale spetta il dominio della scena.
E però… mica la Di Pietrantonio sta scrivendo una serie crime. L’obiettivo di questo filone narrativo (sempre che ne abbia davvero uno, e che non sia solo un riempitivo) è di commuovere e magari sensibilizzare i lettori riguardo il tema dei femminicidi. Ma pretendere di ottenere commozione e sensibilizzazione senza il coinvolgimento emotivo è come pretendere di farsi un panino con la mortadella senza la mortadella (sto scrivendo questo pezzo in prossimità dell’ora di pranzo, abbiate pietà della similitudine e di me).

Oltre al coinvolgimento emotivo, c’è poi anche un’altra grande assente: la suspense. Seguitemi, che vi spiego meglio. Ora, in realtà questo filone narrativo non manca davvero di suspense: infatti la Di Pietrantonio sviluppa il racconto seguendo un buon ritmo, e si avvale anche di tecniche narrative appropriate, come il cliffhanger. Ne è un esempio il seguente brano con cui si chiude un capitolo…

I fari hanno illuminato la targa della Renault: MO 250645, e a Osvaldo [padre di Doralice] è venuto quel dubbio. Fermati un momento, gli [al padre di Lucia] ha detto. Ha lasciato la portiera aperta ed è corso dentro il campeggio. Mio padre si è voltato a guardarmi, come se io sapessi perché.
Osvaldo è tornato subito, le mani alle tempie.
– Ci mancano pure le giovinette di Modena. Alla tenda non ci stanno.

Be’, il brano è sicuramente ben fatto. Guardate  innanzitutto la lunghezza delle frasi: sono brevi e concise, tipiche di chi ragiona in preda al panico e all’adrenalina, e quindi si adattano allo stato d’animo dei personaggi, preoccupati per la scomparsa di Doralice. E poi, c’è un vero tocco di classe: l’autrice dice che Osvaldo ha “le mani alle tempie”, prima di svelare il perché si sia portato le mani alle tempie. Insomma, c’è un brevissimo frangente in cui noi sappiamo che è successo qualcosa di grave (perché altrimenti Osvaldo non si sarebbe portato le mani alle tempie), ma non sappiamo che cosa, e ciò è parecchio esasperante.
E allora, per quale ragione dico che non c’è suspense?

Ebbene, il problema non è nel filone narrativo del delitto, ma in quello precedente (quello della depressione di Amanda), in cui l’autrice ci spoilera già tutto. Ci spoilera che le due turiste sono morte…

Amanda vuole vedere il vecchio campeggio. […] Si aggira nell’abbandono, tocca i vetri rotti di una finestra con il piede. Scopre sul retro dei servizi le scritte con la vernice rossa sbiadita dagli anni. Da una parte: AMMAZZATELO, e dall’altra, su due righe: VIRGINIA E TANIA PER SEMPRE VIVE.
– Che significano quelle frasi?
– È successo molto tempo fa, tu non eri ancora nata. Un delitto.
– Ma dove? – m’incalza.
– Nel bosco. A Pietra Rotonda, alla fine di quel sentiero che non abbiamo preso.

E ci spoilera che invece Doralice si è salvata:

Un’infermiera ci riceve, è gentile, ci conosciamo. Amanda entra in sala prelievi con lei, la sua mano sulla spalla. […]
Esce un uomo con la manica della camicia rimboccata sul braccio sinistro e l’ovatta premuta sulla vena. […]
– Buongiorno, Osvaldo.
[…]
Osvaldo butta il tampone nei rifiuti, si srotola la manica della camicia e abbottona il polsino. Restiamo incerti tra il congedarci e scambiare qualche parola.
– E Doralice è da tanto che non torna? – chiedo.

Perciò, sì, bello il ritmo e bella la scena in cui Osvaldo si mette le mani sulle tempie, però… uhm, non servono a niente, dato che sappiamo già come sono andate le cose.

Premesse da marinaio

Infine c’è il terzo filone, in cui Lucia deve decidere se vendere il suo terreno e intascarsi una bella somma o se dar retta a sua figlia e salvaguardare il paesaggio del Dente del Lupo, che a quanto pare è “tutelato”:

 – Lì non si può costruire.
La voce severa di Amanda alle mie spalle mi fa quasi sobbalzare, ci voltiamo tutti e tre verso di lei.
– Forse non sapete che il paesaggio è tutelato, – dice.

Occhei, allora, l’idea alla base del filone non è male. L’autrice ci propone infatti uno scontro generazionale fra i giovani, che hanno a cuore l’ambientalismo, e i loro predecessori, abituati a vedere la natura semplicemente come una risorsa da sfruttare. E poi, c’è il topos della scelta, che costringerebbe la nostra protagonista a entrare in conflitto con sé stessa. Pertanto, sì, le premesse sono buone… ma poi di buono non si trova più niente.

Innanzitutto, la Di Pietrantonio non imposta il topos della scelta nella maniera corretta. Infatti, affinché possa svilupparsi una trama interessante, la scelta deve essere difficile. Prendete ad esempio un’opera di grande successo che ha fatto della scelta il fulcro della sua trama: La scelta di Sophie. Ebbene, la protagonista, Sophie appunto, si trova in un campo di concentramento quando è costretta dai nazisti a scegliere quale dei suoi due figli spedire al forno crematorio e a quale invece salvare la vita. La sua è una scelta estremamente ardua perché Sophie, come è naturale, non vorrebbe rinunciare a nessuno dei suoi figli. Dunque, la scelta che le viene imposta è una difficoltà. E a noi piace quando i personaggi devono affrontare delle difficoltà, perché siamo sempre curiosi di sapere come i nostri simili riescono a superare e a vincere situazioni a loro avverse.
Ora, siamo d’accordo, la scelta di Lucia è molto meno drammatica e sadica rispetto a quella di Sophie, tuttavia dovrebbe seguire lo stesso principio: anche Lucia dovrebbe essere fortemente combattuta nel prendere una decisione.  E invece non è così. È chiaro fin dall’inizio che Lucia finirà per assecondare il volere di sua figlia, giacché non sembra mai, neppure per un istante, essere interessata alla somma offerta dal maneggione, anzi… per un qualche motivo sembrerebbe addirittura che l’offerta le faccia girare le palle:

Sul pullman riaccendo il telefono. […] Apro anche la posta, è arrivata un’e-mail. Puntuale, nonostante sia domenica, mi ha scritto il gruppo Spezzaferro. Eccolo, Gerì [il maneggione]. Nell’oggetto la sua migliore offerta per l’acquisto del terreno denominato «Dente del Lupo». Lo conosce più di me, nemmeno i documenti del notaio riportavano tutti questi dettagli: superficie in ettari, particelle catastali, nomi e cognomi dei confinanti. Non manca nemmeno la distanza dalla strada provinciale, metri duecento. Gerì l’ha studiato a fondo ciò che vuole prendersi. […]
Riapro l’e-mail, scorro il testo veloce, fino alla cifra. La rileggo più volte, conto gli zeri. Non ci credo ai sessantamila euro che offre Gerì Spezzaferro. È più del doppio di quanto mi aspettavo per un terreno pieno di macerie, come le chiama mio padre. Lui, soprattutto, non ci crederà. Hai sbagliato a leggere, mi dirà. Nessuno ti regala niente.

Ma… che cazzo? Con quella somma Lucia potrebbe permettersi la carta igienica di marca, un paio di borse Vuitton e perfino una bottiglia di olio extravergine italiano, eppure si legge l’e-mail con la stessa irritata indifferenza che normalmente riserviamo allo spam che ci intasa la casella della posta. Reazione che potremmo comprendere se Lucia fosse ricca e affezionatissima al terreno… ma è solo una fisioterapista (e, da quel che so, i fisioterapisti non si mangiano certo caviale o ciliegie a colazione) e per di più in precedenza ha detto chiaramente di non essere interessata al Dente del Lupo…

 – Volevo farti vedere come sta ridotto il posto [dice il padre di Lucia].
Alzo le spalle, l’ho visto e possiamo anche andarcene. A me non interessa il posto.
– Dopo il fatto non lo voleva nessuno, manco regalato, – sembra quasi giustificarsi.
– Nemmeno io lo voglio, è un posto che fa paura.

 Eeeeh… boh.

Reflusso di coscienza

E va bene, abbandoniamo la trama e passiamo adesso allo stile… stile che purtroppo non fa nulla per risollevare il romanzo, anzi, rende l’esperienza di lettura ancora più pesante e pallosa. Questo perché la narrazione de L’età fragile è caratterizzata da continui cambi di argomento che ci lasciano piuttosto confusi. Vi porto subito un esempio:

Poi la sera [Amanda] mi ha inviato un messaggio. Era arrivata, avrebbe dormito con gli altri in un grande casale tra i vigneti. Un emoji sorridente e un grappolo d’uva. Buonanotte, le ho scritto più tardi.
Giorni fa ho confidato a Rubina [amica di Lucia] che oggi forse mi mancherebbe il coraggio di avere figli. Parlavo così solo perché ero arrabbiata, ha detto.
Al padre ho scritto un’e-mail. Mi ha telefonato poco dopo, preoccupato. Io non potevo in quel momento: richiama più tardi, gli ho chiesto.

Vedete? Il brano comincia con uno scambio di messaggi fra Lucia e sua figlia, poi passa alla conversazione che Lucia ha tenuto con una sua amica, e infine, di punto in bianco, si introduce il padre di Amanda. Non esiste un filo del discorso, in pratica l’autrice narra semplicemente accostando una scena all’altra, e delegando a noi lettori il compito di indovinare che connessione c’è fra queste scene.

Molto probabilmente, l’intenzione dell’autrice era di esprimere il monologo interiore di Lucia attraverso una sorta di flusso di coscienza, in cui i pensieri, come sappiamo, non si dispongono in un ordine razionale, né in una linea progressiva e consequenziale di discorso, come accade nella narrativa classica, ma assecondano la logica associativa dell’inconscio. E in effetti, con un flusso di coscienza ben fatto, non ci sarebbe stato nulla di male nel passare dai messaggi di Amanda alla conversazione con Rubina, all’e-mail con l’ex marito… ma eh, il flusso di coscienza della Di Pietrantonio non si avvicina neanche un po’ al concetto di “ben fatto”. Il flusso di coscienza è, appunto, un flusso, ovvero un movimento continuo e scorrevole di pensieri, in cui ciascun pensiero ne introduce un altro, creando così una catena ininterrotta di libere associazioni. Non esistono “salti” e cambi di argomento drammatici e inspiegabili.

Uhm… occhei, può darsi che io vi abbia confuso. Allora, per capirci meglio, prendete questo brano tratto da Ulisse di Joyce, l’autore per antonomasia del flusso di coscienza. Nello specifico, si tratta di un estratto dell’ultimo capitolo, in cui Molly dà libero sfogo al suo monologo interiore…

Sì perché prima non ha mai fatto una cosa del genere chiedere la colazione a letto con due uova da quando eravamo all’albergo City Arms quando faceva finta di star male con la voce da sofferente e faceva il pascià per rendersi interessante con Mrs Riodan vecchia befana e lui credeva d’essere nelle sue grazie e lei non ci lasciò un baiocco tutte messe per sé e per l’anima sua spilorcia maledetta aveva paura di tirar fuori quattro soldi per lo spirito da ardere mi raccontava di tutti i suoi mali aveva la mania di far sempre i soliti discorsi di politica e i terremoti e la fine del mondo divertiamoci prima Dio ci scampi e liberi tutti se tutte le donne fossero come lei a sputar fuoco contro i costumi da bagno e le scollature che nessuno avrebbe voluto vedere addosso a lei si capisce dico che era pia perché nessun uomo si è mai voltato a guardarla spero di non diventare come lei miracolo che non voleva che ci si coprisse la faccia […].

Diciamocelo: è illeggibile. E infatti non è un caso che il flusso di coscienza in questa versione così hardcore non abbia mai realmente attecchito nella narrativa. E però, se fate attenzione, noterete che il flusso di coscienza di Joyce è più comprensibile di quello della Di Pietrantonio. Questo perché nel monologo di Molly si capisce bene il motivo per cui si passa da un certo argomento all’altro. Ad esempio, vediamo che Molly inizia il suo monologo parlando della colazione a letto richiesta da suo marito, vediamo che questo evento le evoca un altro ricordo, ovvero di quando Leopold all’albergo City Armsfaceva finta di star male con la voce da sofferente”, e vediamo poi che questo ricordo le fa tornare in mente che allora, contemporaneamente, Leopold faceva anche “il pascià per rendersi interessante con Mrs Riodan”, la quale scatena in Molly un moto di rabbia. Insomma, sì, anche in Ulisse la voce narrante passa costantemente da un argomento all’altro, ma senza trascurare di rendere esplicita l’associazione di pensieri che ha portato al passaggio, il quale dunque non risulta brusco, netto e incomprensibile come quello che spesso si ritrova ne L’età fragile.

E va bene, abbiamo detto abbastanza, traiamo le nostre conclusioni. La faccio breve: L’età fragile è un romanzo che non solo non meritava un premio, ma che non meritava nemmeno di essere pubblicato. E non tanto per i casini che l’autrice ha combinato con le trame e con il flusso di coscienza… oh no, non è quello il vero problema. Dopotutto, noi amanti delle storie siamo un popolo magnanimo, e di fronte a una storia valida e appassionante chiudiamo spesso un occhio sulle imperfezioni (e il successo della saga di Lupin III è la dimostrazione). C’è una cosa però che proprio non riusciamo a perdonare agli autori: quando scrivono un libro tanto per riempire le pagine, senza avere in mente qualcosa di interessante da dire. Ecco, è proprio questo il vero problema de L’età fragile: l’autrice non sapeva che cosa dire, e ha finito per scrivere un libro di cui ci si dimentica cinque minuti dopo averlo letto.
Ma ehi… ho detto che siamo un popolo magnanimo, ed è possibile che voi siate molto più magnanimi di me e che vogliate comunque dare un’opportunità a L’età fragile. In quel caso, il mio augurio è sempre lo stesso: buona lettura!

Sara

Ciao! Sono la fondatrice del blog letterario "Il pesciolino d'argento", amo profondamente i libri, l'arte e la cultura in generale.

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Una risposta

  1. Francesca ha detto:

    Oh, finalmente una recensione seria, ben fatta, accurata. Ho appena scoperto il suo interessantissimo sito e mi riprometto di esplorarlo con attenzione, perché lo trovo ben fatto, i post scritti con competenza. Avevo visto il romanzetto (etto non solo per lo squallore della scrittura e dello stile, ma anche per le dimensioni) in questione in libreria, lo avevo sfogliato e subito rimesso al suo posto. Scritto coi piedi, con un linguaggio povero, in uno stile sciatto, direi da esordiente di poco talento, mai avrei speso anche solo un euro per comprarlo. Tipico romanzo da Premio Strega, in linea con l’inesistente letteratura italiana degli ultimi 50 anni.
    Grazie.