Come d’aria – Ada D’Adamo
Il mio seno non ne vuole sapere di nutrirti.
Siamo ancora dentro un social
Siete sul social dei boomer, su Facebook. Scorrete la bacheca: “a cosa stai pensando?”… profilo fake con sventola rifattona che vuole provarci con voi… le ultime notizie sulla ex fidanzata di Damiano… ancora un fake, stavolta una sventola rifattona, ma asiatica… Barbascura X… uhm, il solito, insomma. Poi comincia tutta la sfilza di gruppi in cui la signora Cesira e il signor Carlo raccontano delle loro avventure con la suocera, col tonno in scatola, col vigile urbano, con i figli. Oh, c’è un post. Una tizia parla di sé. Ecco cosa leggete:
[…] “Aspetto una bimba sana” mi dicevo. “Tutto questo non mi riguarderà mai”. Pensavo che la semplice convinzione di non volere un figlio invalido (“Non saprei come fare, non ne sarei mai capace” mi ripetevo con forza) bastasse a mettermi al riparo da una simile eventualità. “E comunque c’è l’amniocentesi, c’è l’ecografia morfologica: da questi esami si può sapere tutto in anticipo e, nel caso, optare per l’aborto terapeutico”.
[…] un “bravissimo” medico non è stato in grado di leggere da una ecografia che mia figlia sarebbe nata con una grave malformazione cerebrale.
La pediatra dice che nei primi mesi devo considerarti una neonata come tutti gli altri […]. Come si può dire una cosa tanto sbagliata alla madre di un bambino con una malformazione cerebrale? Come si può approfittare della propria autorevolezza di medico e, così facendo, instillare in una donna il seme di un senso di colpa che nei giorni e nei mesi successivi le crescerà nel petto come una mala pianta fino a soffocarla?
Ebbene, che fate? Magari passate oltre, non vi interessa quello che succede agli altri, ne avete già abbastanza per conto vostro. Oppure rimanete, leggete i commenti, fate i “lurker”, come si dice in gergo. Può darsi che commentiate voi stessi, invece. “Povera donna, quante disgrazie ci sono in giro”. “Purtroppo sono fatalità, non è che è sempre colpa dei medici”. “Sì, però stai sfruttando una tragedia per fare la karen”.
Di sicuro, non pensereste di stampare il post, rilegandolo poi con una bella copertina; no, non lo mettereste nel posto d’onore della vostra libreria, là accanto ai grandi classici. E non chiamereste i vostri amici per fare un simposio, per discutere delle qualità artistiche del post. Qualità artistiche? Nah.
Eppure, dovreste riservargli un posto d’onore. Dovreste fare un simposio. Dovreste dare un premio a quel post. No, dico, dovreste anche voi: perché qualcuno, qualcuno che conta, l’ha già fatto.
Lettori, questa è una recensione difficile. Ho dovuto riflettere a lungo su come procedere, ritornando più volte sui miei passi. È una recensione difficile per vari motivi. Innanzitutto, come faccio a dare un giudizio critico su qualcosa che comincia così? Guardate:
Questo libro è la storia, vera, mia e di Daria. Veri sono i nostri nomi e quelli delle persone, grandi e piccole, che ci sono più vicine. Tutti gli altri nomi sono di fantasia, inclusi quelli dei bambini, ma autentiche restano le loro parole.
Ah, be’, grazie libro. Mi fai una cronaca, devo crederti? Eh, ti devo credere, non ho nient’altro in mano per stabilire se quello che mi racconti è vero o è una balla. Ma se il libro è una “storia vera”, praticamente un articolo di giornale, che posso dire? Certo, tutti noi commentiamo i fatti del mondo, li commentiamo e ci commuoviamo, ma… converrete con me che il nostro atteggiamento in tal caso non è nemmeno lontanamente paragonabile a quello che adotteremmo giudicando un’opera artistica.
Eh, articoli di giornale, suvvia, sono miope… esistono libri che riportano la verità e nient’altro che la verità! Giusto, si chiamano libri di storia, biografie, annali. Be’, nelle intenzioni riportano la verità, ecco. Si possono criticare i libri di storia, le (serie) biografie, gli annali? Solo in due modi: controllando la loro scientificità, cioè la loro aderenza al vero, e valutando il loro stile. O, meglio, la loro grammatica. Questo è quanto, e non credo proprio che sia sufficiente per poter imbastire un concorso di libri di storia, con tanto di giuria e di premio alcolico. Al più c’è da accontentarsi di un esamino universitario, o di una conferenza per garbate (?) teste d’uovo.
Oh, avete ragione, i diari! Me ne sono dimenticata. E me ne sono dimenticata per un motivo: le osservazioni da fare non cambiano. I diari, come quelli di Ciano per intenderci, sono in effetti un particolare tipo (particolare per forma) di annali, di biografie o in generale di libri di storia. Mah, obiettate, c’è soggettività dell’autore che permea ogni singola pagina di diario! Nulla da eccepire, ma la soggettività dell’autore, le sue emozioni, le sue aspettative, le sue fantasie (erotiche, di grandezza, e così via) sono parte della realtà esattamente come le battaglie o le riunioni di partito. Non possiamo adagiarci sulla facile, e sbagliata, equazione: elemento non oggettivo=elemento non reale. Dunque, se pure la soggettività della diaristica è verità, a noi che resta, volendo fare i critici? Quel che già avevamo a proposito dei libri di storia. Possiamo giudicare il diario cercando di capire se l’autore ci sta mentendo, possiamo analizzare il suo stile, la sua grammatica. Se abbiamo competenze nel campo, ci è pure consentito tentare un commento sulla psiche dell’autore (con tutti i caveat del caso). Però questo è quanto, sostanzialmente ci è precluso lambiccarci sulla coerenza della trama, sulla caratterizzazione dei personaggi, sulla validità (da un punto di vista filosofico) della morale. Eh, che volete, la verità è un despota che incombe su di noi.
Ora, so benissimo che ci sono gli pseudobiblia, i finti diari e resoconti (come Il nome della rosa, no?), le autofiction: oh figo, per questi non vale il discorso che ho appena fatto, siamo autorizzati a esercitare pienamente i nostri poteri da critici letterari.
Il problema, con Come d’aria, è proprio quella avvertenza iniziale: come ho detto, non possiamo stabilire se Ada D’Adamo mente qua e là, al pari di una Ciabatti qualunque, perché mancano nel testo delle contraddizioni decise, delle esagerazioni bizzarre, e naturalmente mancano dei documenti esterni, a noi disponibili, su cui fondare una specie di lavoro storiografico. Devo credere, ho detto. E credere mi fa sprofondare nel regno dei fatti reali, delle vite quotidianamente vissute, là dove ho in buona sostanza incatenate le mani. Ed è un regno anche un po’ noioso, se me lo consentite.
Questa è dunque la prima, colossale, difficoltà di questa recensione. La seconda difficoltà è Ada D’Adamo stessa. La sfortunata autrice è infatti deceduta recentemente. Eh, lettori, noi italiani abbiamo un bruttissimo vizio: rispettiamo molto i morti. Forse perché è più facile che rispettare i vivi, mah. Sta di fatto che il nostro rispetto è talmente grande, che direi di più, non solo rispettiamo i morti, li santifichiamo. Non importa quanto uno sia stato… uh… un po’ birichino, e magari anche condannato (te credo, sui grandi numeri dei processi, prima o poi capita), quando esala l’ultimo respiro diventa un grande, un esempio, un mito, un tipo che era pieno di “skills”. Uno che merita addirittura onori di Stato, ecco. Sia chiaro, festeggiare la morte di qualcuno è di norma davvero avvilente (benché, pensandoci, potrei trovare eccezioni, e non poche), ma altrettanto avvilente è sacralizzare qualcuno perché morto. Le opere non si cancellano con la dipartita del loro autore, né le belle opere né le brutte: e non vedo perché ci si debba astenere dal discutere delle seconde. Per non far dispiacere il morto? Di certo non sapremo mai se avrà da dispiacersi. Per non incorrere nelle ire dei famigliari superstiti? Al diavolo, che gente è quella che vuol tappare la bocca, eh? Ovviamente non è il massimo scoprire che l’operato del caro estinto non è del tutto apprezzato, ma bisogna essere adulti e civili, e accettare che può succedere. In fin dei conti, sostenere che il morto non ha prodotto un granché, in quell’occasione, non è dargli dello stronzo gratuitamente, no?
La ragione, almeno secondo me, suggerisce di seguire la strada che ho tracciato; tuttavia, ripeto, noi italiani, quando si tratta di questioni sociali e interpersonali, per qualche motivo buttiamo a mare la ragione e cominciamo a prendere ordini direttamente dal colon. Quindi, meh, capite bene che provare a imbastire una critica letteraria del libro di una santa de facto è una bella gatta da pelare. Tanto più che la storia vera di cui sopra rivela una vita davvero grama: quindi non soltanto Ada D’Adamo è già venerabile per aver varcato la soglia dell’Aldilà, ma lo è a maggior ragione per aver sperimentato tante sofferenze.
Che fare, dunque?
Sì, io lo faccio
Per una sorta di obbligo nei vostri confronti, o forse perché la mia psiche sta cedendo definitivamente, scivolando in uno strano masochismo, ho deciso che posso comunque spendere qualche parola, a proposito di Come d’aria.
L’avete già capito dai brani che ho riportato in precedenza, la “trama” riguarda la seria malattia genetica di Daria, la figlia di Ada. Questo, in effetti, è un tema del libro: l’altro è la lotta dell’autrice contro il cancro. Lotta, purtroppo, persa. Eh, le tragedie. E la D’Adamo non ci risparmia i dettagli:
Quel tuo ricovero era stato più lungo e faticoso del solito: la plastica antireflusso che qualche anno prima ti avevano confezionato (sì, si dice così in gergo medico, neanche il fondo gastrico fosse un pacchetto regalo) aveva ceduto, ed era stato necessario rifarla.
Proprio io, abituata a tenere sotto controllo la posizione di un mignolo, mi ritrovavo alle prese con un corpo completamente fuori controllo, con scatti epilettici, una schiena e una testa incapaci di stare dritte. Tetraparesi spastico-distonica, clonie, alternanza di ipertono e ipotono, nistagmo, scialorrea… altro che mignolo!
Ah, ah, fermi. Forse ora state pensando che, in fin dei conti, una vita così straordinariamente sfortunata è in sé, in qualche modo, un’opera d’arte. È una rarità tanto grande che merita d’essere conosciuta e apprezzata: un po’ come un diamante rosso, che non fa nulla per essere prezioso, il solo esistere gli dà il diritto di essere da noi bramato e custodito.
Nah.
Sono così brutale perché la vostra (eventuale, se davvero l’avete pensata) premessa è sbagliata. La vita di Ada D’Adamo non è eccezionale, non è un unicum, non è incredibile: siamo nove miliardi a questo mondo, gente. È un numero su cui non riflettiamo mai abbastanza. Se supponessimo, ad esempio, che gli sfortunati al pari della nostra autrice siano lo 0,01% del totale, avremmo che novecentomila persone se la stanno passando malissimo. Una percentuale minuscola, vero, ma sono comunque novecentomila persone! I diamanti rossi, se vogliamo tornare al paragone, sono in tutto venti.
Quindi, non dico che non valga assolutamente la pena conoscere la storia della nostra autrice: dico che la sua vita, in sé, non è sufficiente a dare dignità a Come d’aria. No, non c’è una storia strabiliante, c’è una storia inconsueta, inconsueta e possibile, e anzi molto più comune di quanto si pensi. Anche perché le sfortune vissute dalla nostra autrice non sono necessariamente uno scherzo del destino: se piove sempre sul bagnato, eh, può ben darsi che ci sia un motivo, o più motivi. Su questo, però, vorrei tornare in seguito.
Dunque, se il gramo contenuto del libro non ha un valore intrinseco, cosa potrebbe farci apprezzare Come d’aria? Che cosa potremmo portare a sostegno delle sue lodi, considerando che lodato è stato lodato, avendo appunto vinto il Premio Strega 2023? Azzardo con voi una risposta: l’importanza di Come d’aria non sta nelle vicende biografiche in esso riportate, bensì sta nel suo essere una risposta artistica, lirica, spirituale, a tali tristi fatti di vita. È una concreta manifestazione di resilienza, è la forza interiore dell’uomo (della donna, nel caso) fatta pagine e inchiostro. Sì, ehm…
Voglio cominciare questa parte di commento proponendovi un caso esemplare su cui riflettere. Oh, sarà uno di quelli facili e scontati, ma… pensiamo a Leopardi. Di cosa fosse affetto non sappiamo di preciso, solo siamo certi che la sua vita fu fisicamente e psicologicamente una sofferenza quasi continua. Di famiglia nobile e ricca, e come godette di tali privilegi? Be’, forse l’unico vantaggio che ne trasse (non di poco conto, d’accordo) fu di non morire ancor prima di quando morì: per il resto, tuttavia, non ebbe il vero amore di una donna, non una completa e appagante vita sociale, non la spensieratezza e la sicumera dei ventenni. Dolori continui, tanto da fargli meditare in più occasioni il suicidio, come cantò lui stesso. Eppure, ci è facile riconoscere lo sforzo volto a comprendere, e quindi a vincere tali avversità (pur senza sconfiggerle, e questo è un interessante paradosso): i carmi, le Operette morali, le proposizioni più asciutte e “scientifiche”, perfino le dediche ai corrispondenti, tutta la produzione di Leopardi manifesta le difficoltà da lui vissute, però trascese e meditate. Dalla durezza dei suoi giorni, ecco, non nasce una cronaca, bensì un pessimismo che è pura filosofia, pura metafisica, pura etica. Qualcosa che ci può rapire, chiunque noi siamo, ovunque noi siamo, perché il particolare del dolore vissuto da Leopardi, uno fra gli uomini, non è più tale, è divenuto un universale. Se può essere d’aiuto a comprendere quel che intendo, mi immagino il lavoro filosofico di Leopardi (e in ciò, appunto, sta la sua grandezza sia artistica, sia intellettuale) simile al lavoro che, più banalmente, ci occorre per trovare il numero uno (cioè, il numero in sé, nella sua natura, qualunque essa sia davvero) a partire da “una mela”, “una pera”, “un sassolino”, e così via. Dal “mio dolore”, dalla “mia condizione”, dalla “mia sfortuna”, al “nostro”. Al “nostro tutto”, tutto ciò che noi umani, in fondo, siamo e possiamo essere.
Rinascita e resilienza (ma senza un piano nazionale)
Uff, alquanto difficile, mi rendo conto, e forse pure un po’ arrogante da parte mia pretendere di riassumere in una pillola un punto fisso della cultura (in termini assoluti, non “italiana”) come Leopardi. E allora lasciate che vi riporti a due testi che ho recensito, almeno di quelli qualcosa posso dire senza tema di sembrare un po’ troppo una “amateur”. Il mondo di Gilda e Versi d’amore erotico per Natalie Zumab. Credo che entrambi siano begli esempi di resilienza fattasi arte. Il dolce libriccino di favolette e filastrocche scritto da Silvana Papiccio e da Tiziana Piazzola, sotto l’apparenza semplice e spensierata, riesce a trasmetterci il senso di paura, di frustrazione, di disperazione e perfino di rabbia che accompagna l’esperienza dei “caregiver”, di coloro che partecipano del dolore dei poveri e commoventi sfortunati di questo mondo. Ma! Ma le essenziali storielle delle due autrici si rivolgono a noi mettendoci una mano sulla spalla, dicendoci: “Ehi, sei un essere umano, sei spaventato e arrabbiato, sì, ma questo non è tutto. Non che tu debba reagire: ma puoi reagire”. E la reazione è appunto racchiusa nella tenerezza della formichina Gilda, nella forma stessa dei versi (la poesia, per quanto “bassa” si voglia intendere, richiede comunque pazienza, dedizione, presenza di spirito), nella morale che, lungi dall’essere elementare e trita, si staglia con forza su tutto il libriccino. Ecco il punto! Non rigettare il male e la negatività, nemmeno quella che alberga dentro di noi, ma accoppiarli al bene, all’autodisciplina, all’esercizio della speranza e della rassegnazione (quest’ultima è ambivalente: può essere “cattiva”, ma anche “catartica”).
Silvana Papiccio e Tiziana Piazzola sono riuscite letteralmente a rispondere per le rime alla durezza della realtà. E per le rime ha risposto anche Mario Esposito, con un approccio diverso. La resilienza, nella sua silloge, si manifesta nella giocosità: la poesia, ancora lei, vede il proprio rigore al servizio di audaci associazioni, di irriverenti sprazzi di energia, di libere creazioni parodistiche dell’amore spirituale e della donna angelicata. E tutto questo si accompagna, sorprendentemente bene (ma appunto, è merito delle capacità artistiche dell’autore), con l’idea dello sguardo che si perde nel vuoto dell’incertezza e dell’angoscia, vuoto cui si accede dalla via dolorosa: proprio lì, proprio su quella poltrona da ospedale, proprio allora, mentre il farmaco entra nelle vene.
La cura del sofferente e la sofferenza della malattia da cui si affetti, entrambe esposte, entrambe affrontate, in modi differenti che però rivelano una certa parentela. Due opere ho menzionato, lettori, due che non hanno mai vinto uno Strega, anzi nemmeno sono state candidate.
Ora, qui abbiamo per le mani un libro solo, che propone senza sconti le suddette crudeltà della vita, e che… e che per sua stessa ammissione sembra proprio fermarsi a esse. Datemi dell’arida o dell’ottusa, se volete, ma non riesco proprio a tracciare un paragone con gli esempi che ho delineato. Come d’aria manifesta paura, incredulità, rassegnazione negativa, delusione, rabbia, tantissima rabbia: dov’è la resilienza? Dov’è la creazione dell’homo faber, l’autore che dalla materia grezza, in questo caso di puro dolore, plasma la sua sfida al mondo? Per me, non c’è. Esaminate questi brani, e poi ditemi:
Ho trascorso i miei anni in attesa di te lavorando con passione a un libro su teatro e disabilità. […] La caparbietà degli operatori e gli slanci dei partecipanti mi convincevano, mi commuovevano, anche. Restava però, intatto dentro di me, un senso di estraneità e di distanza […].
E io, che sul mio corpo allenato da tanti anni di pratica avevo puntato tutto perché mi fosse alleato nella cura di te, non ero preparata ad assistere alla sua lenta, progressiva degenerazione.
Le infermiere non sono di grande conforto, i medici si limitano a emettere i loro bollettini quotidiani senza che sia possibile ricavare un quadro generale della situazione. Nessuno mi spiega nulla, nessuno mi dice una parola di conforto. Solo ordini e procedure che bisogna imparare in fretta.
[…] aver perduto le mail di tutti quei padri e quelle madri come me, nei passaggi da un computer all’altro, è un grande rammarico. Penso che alle loro parole avrei potuto aggrapparmi in tanti momenti difficili che ho vissuto con te in questi anni. Mi domando come abbiano vissuto loro, come siano diventati. Mi auguro che abbiano resistito, che siano sopravvissuti, in un modo o nell’altro.
Chiaramente, la scelta di riportare a mo’ di cronaca i fatti, l’ho detto e qui lo ripeto, penalizza in partenza Come d’aria. Non è un caso che vi abbia proposto esempi legati dalla poesia: è proprio nella poesia che si annidano gli strumenti più efficaci, dal punto di vista psicologico, per rappresentare l’emotività e per intervenire su di essa. Leopardi, la Papiccio e la Piazzola, e Mario Esposito, evidentemente, l’hanno intuito e si sono mossi di conseguenza. La D’Adamo, invece, si è fissata con la verità nuda e cruda.
E va bene, possiamo anche passare sopra a tale aspetto: e che cosa troviamo nel libro, dunque? Si percepisce la delusione di aver avuto un guaio, invece che una gioia. La rabbia nei confronti di un mondo che non ci dà quello che ci è dovuto. Ah, eccola lì! È lei: la frustrazione di non vedere risolti i propri problemi. Di non vederli risolti: già, perché le parole del libro sembrano sempre puntare a un atteso salvatore capace, lui, di sbrogliare la matassa. E, in effetti, quando la nostra autrice trova conforto, lo trova negli altri: sono gli altri, altri genitori sfortunati, a farle forza, ad aiutarla, anche concretamente. Be’, è un po’ quel lasciarsi andare per essere raccolti, quando va bene: fare i corpi morti, regredire al bisogno fanciullesco. È il pianto dell’uomo davanti al suo Signore, in fondo. Sì, niente da biasimare, questa è la parte buia, “umana, troppo umana”, che in qualche modo possiamo ritrovare anche nelle Operette morali, ne Il mondo di Gilda e in Versi d’amore erotico per Natalie Zumab, come ho precisato. Ma, ribadisco, è tutto, per Come d’aria. La reazione, lo slancio “sovrumano”, è assente. Ehi, e se fosse questo il pregio dell’opera di Ada D’Adamo?
Una gran rottura di dogma (o forse no)
La reazione è proprio nell’assenza di reazione. Una rottura con il dogma sociale, una lancia conficcata contro il benpensare, contro le estenuanti pubblicità che ci invitano a fare la cosa giusta, a donare il nostro denaro a favore dei meno fortunati: contro le pubblicità che sfruttano la nostra empatia e il nostro senso dell’orrido, presentandoci soggetti ai limiti dell’umano (sapete a quali pubblicità mi riferisco, no? Ad esempio a quella di Mediaset Infinity, con Max Angioni). Uh, ci sono alcuni problemi con questa tesi.
Abbiamo già notato che la nostra autrice si scaglia in maniera nient’affatto velata contro un certo tipo di retorica, quella che parla dei disabili definendoli “come tutti gli altri”, o addirittura “un dono”. Inaudito, no? A essere sincera, no. No, perché in effetti il bersaglio è appunto nulla più che retorica da quattro soldi, e alla retorica, checché se ne dica, sono davvero in pochi a crederci. Nel caso specifico, è la nostra stessa natura umana, anzi animale, a dotarci di un senso innato di repulsione verso la malattia in generale e, a maggior ragione, verso la malattia congenita in particolare. È un senso che bilanciamo con un altro, quello del “branco”, del “non lasciare indietro i nostri simili”, vero, ma appunto lo bilanciamo, non lo eliminiamo: è sempre lì, fa parte di noi. E un conto è disporsi a “non lasciare indietro”, nonostante tutto, un conto è addirittura lodare, amare, godere di una situazione disgraziata: d’accordo, non lasciamo alle intemperie il poveretto tetraplegico, ma fare salti di gioia perché ci è capitata l’occasione di accudirlo, questo no, andiamo! E infatti, se in alcuni contesti sociali (mi vengono subito in mente cerimonie e “giornate” organizzate dallo Stato) si fa buon viso a cattivo gioco, basta farsi un giro nelle case di cura, nelle piazze, nei bar, sui social… insomma, in tutti i luoghi di spontanea aggregazione: quando l’argomento dovesse emergere, si incontreranno inevitabilmente i vari “sì, però è una pena”, “sì, però se non fosse stato così era meglio”. Quindi, Come d’aria non ci propone una lettura alternativa della realtà, non ci porta in nuovi, inesplorati mondi, non ci fa conoscere un sottobosco nascosto e mai neppure immaginato. Parla di noi, o meglio, di una parte di noi. E noi ci conosciamo bene, dopotutto, sappiamo come siamo: al massimo mentiamo a noi stessi, ma quel che ci frulla in testa è comunque lì.
Niente di eccezionale, sotto tale punto di vista, tuttavia… ehi, e se il pregio del libro fosse proprio quello di aver dato una martellata alle menzogne che talvolta ci raccontiamo? O, meglio, se il suo valore stesse nell’aver scardinato davvero, anche se in maniera sottile, la convenzione sociale, partecipando alla cerimonia senza indossare la maschera? Dopotutto, il clima letterario è spesso simile a quello delle “adunate ufficiali”, bisogna parlar bene e presentarsi curati. O forse… uh… no?
Be’, la letteratura non è proprio un Mulino Bianco, anzi. Se vogliamo opere che parlano della malattia, del dolore, dei bassi istinti, della sfortuna dell’uomo, della sua istintiva animalità, della sua impotenza… in breve, della durezza della vita… possiamo spulciare nella sezione “picaresca” o “crudista” di una fornita biblioteca e avremo l’imbarazzo della scelta. Sempre che non ci vada di andare sul sicuro, che più sicuro non si può, rivolgendoci al classico assoluto (e, probabilmente, insuperabile) in materia: il Libro di Giobbe. Oh, un altro esempio che mi viene in mente è Attentato: non c’entra molto col tema di Come d’aria, già, ma è comunque un romanzo che non cede alle lusinghe della bassa retorica e invece de “gli sfortunati sono angeli in mezzo a noi” ci sbatte in faccia un “ehi, chi è toccato dalla malattia può essere uno stronzo”. Perciò, eh, il lavoro della D’Adamo non è chissà che bomba. Ah, però mi fate notare che mi sono riferita soltanto a opere straniere: voi mi insegnate che Come d’aria è una bomba, lo è davvero, per il nostro paludoso e ipocrita panorama culturale. Sì… posso farvi notare che praticamente in contemporanea col libro della nostra autrice è uscito Fame d’aria, di Daniele Mencarelli? Ora, io non ho potuto leggerlo, ma mi dicono essere un romanzo che parla grossomodo di un figlio autistico e di un padre preda di mille sfortune, il quale per il proprio fardello prova… rabbia… frustrazione… “disamore”. Vedete, c’è almeno un altro testo cui possiamo rivolgerci, e proprio di questo attuale periodo, che tratta… più o meno delle stesse cose di Come d’aria. Dov’è, pertanto, l’unicità della D’Adamo, dov’è la sua forza dirompente, se lei è, in effetti, solo “una di quelli che”?
Piccola parentesi: noto solo ora il titolo, praticamente uguale, dei due libri. C’è una qualche associazione fra l’aria e la disabilità, o si vuole che ci sia una tale associazione, del tipo che i disabili devono librarsi in aria, o che dovrebbero essere leggeri come l’aria, o… come fumo nell’aria? Brrr, ci sono delle interpretazioni cupe. E poi, in Come d’aria la figlia è malata e la madre è insofferente, in Fame d’aria il figlio è malato e il padre è insofferente. Simmetria curiosa. Ma che, c’è qualcosa sotto, forse? Mah, mah, mah, meglio fermarsi qui, ché di complotti non è bello parlare in questi casi.
Retorica a giorni alterni
Chiusa parentesi, abbiamo capito che Come d’aria è in buona compagnia, e difetta dunque di quel “fattore shock” che potrebbe di per sé rivelarsi un pregio. Ma c’è di più. Fin qui, complici le mie parole, avete dato per scontato che effettivamente la D’Adamo sia un’implacabile nemica della finzione retorica. Il libro, a onor del vero, sembra ulteriormente confermare: a un certo punto, la nostra autrice entra in contatto con un’associazione americana per genitori di bambini affetti da oloprosencefalia, e… be’, si mostra irritata dall’atteggiamento di alcuni membri, i quali si ostinano a considerare belli i loro figli, benché evidentemente “deformi”…
Di analoghi siti americani detesto l’esaltazione di una presunta bellezza esibita con ostentazione barocca: i ritratti di neonate deformi vestite da farfalle o da principesse, come brutte copie delle foto di Anne Geddes, e i relativi commenti – “Wonderful”, “Sweet” – la retorica dei “Baby Angels”. Ma quali angeli. […] Del resto, quando si parla di disabilità, è quasi impossibile sottrarsi alla retorica.
Fantastico, niente balle eh, la realtà è quella che è, non si può nascondere. Sì, solo che presto la realtà diventa… uh… pizzosa? Ed ecco che la D’Adamo adotta per filo e per segno gli ipocriti stilemi retorici che tanto decisamente aveva mandato a farsi fottere:
Chiara Bersani, regista e performer colpita alla nascita da osteogenesi imperfetta, ha scritto sulla disabilità al tempo del Coronavirus […]. Mentre leggo le sue parole, ripenso alla prima volta che l’ho vista in scena, in una performance di Alessandro Sciarroni che si intitolava Your Girl. Ricordo due figure che si stagliano in uno spazio tutto bianco: un ragazzo alto, bello, muscoloso (Matteo Ramponi) e una ragazza in carrozzina, bionda, dai lineamenti delicati e dal corpo anomalo. […] Lui, dall’alto del suo metro e ottanta, allunga il braccio per scostare con delicatezza infinita i capelli dal viso di lei. Due creature belle, l’una accanto all’altra, si tengono per mano. […] Verso artisti come lui [Alessandro Sciarroni], come Chiara Bersani e molti altri, nutro una gratitudine profonda perché hanno squarciato il velo mostrando quanto siano vaste e variegate le distese della grazia e della bellezza.
Siete d’accordo, spero: il brano è pura retorica, spicciola e untuosa. E si capisce subito che è retorica spicciola dal modo in cui è descritta Chiara Bersani. La D’Adamo dice di lei che è “una ragazza in carrozzina, bionda, dai lineamenti delicati e dal corpo anomalo”. Ecco, chi non ha un’idea precisa delle conseguenze che l’osteogenesi imperfetta ha sul corpo umano (come in effetti non avevo io) finisce per figurarsi una ragazza graziosa che semplicemente non può camminare sulle sue gambe. La realtà è ben diversa. Ora, se davvero una grave deformazione può essere parte integrante delle “distese della grazia e della bellezza”, perché non descriverla apertamente, come si fa di solito con un corpo ordinario? Perché schermarsi dietro quel “corpo anomalo”, perché non descrivere con ammirazione le membra corte, il busto tondeggiante? Perché, sempre per via del nostro “software animale”, non siamo programmati per trovare bella una deformità, anzi. Davanti alla deformità, alla “mostruosità”, o ritorniamo del tutto animali, e quindi ci lanciamo in offese e molestie brutali, oppure ci comportiamo da esseri umani civili e… e mentiamo, usando la cara, vecchia retorica. La D’Adamo, che parla dei capelli biondi, del viso e della carrozzina, edulcorando il corpo di Chiara Bersani e distogliendo lo sguardo dai suoi arti, s’è chiaramente comportata da essere umano civile. Ma perché proprio lei, che ce l’aveva con la menzogna pietosa?
Be’, in definitiva, è difficile non farsi l’idea che la retorica degli “angeli” sia detestata dall’autrice solo quando, in qualche modo, può riguardare la povera Daria: infatti, è ridicolo lodare la fisicità dei soggetti che condividono il destino di Daria, ma a quanto pare è accettabile strizzare l’occhio a chi soffre di osteogenesi imperfetta (o di chissà quale altro cazzo), malattia che Daria non ha. Non so se effettivamente in Come d’aria c’è questo sottotesto, sta di fatto che è una sensazione prepotente, durante la lettura. E non è una bella sensazione.
Una privata missione politica
Vabbè, quando vorremo vedere autori che fanno a pezzetti l’attuale retorica della disabilità torneremo indietro di secoli e ci rivolgeremo ai marinisti. Adesso passiamo oltre, ché c’è un’ultima possibile difesa di Come d’aria che mi va di trattare brevemente. Si può pensare che sia un libro notevole perché ha una missione politica, intende denunciare la crudele idiozia della nostra impostazione culturale e civile, intende denunciare la solitudine in cui versano i malati e i caregiver, vittime di assiomi etici e sociali che non reggono, dinanzi alla realtà dei fatti. L’eutanasia, o anzi, direttamente l’eugenetica: ne vogliamo parlare seriamente? O no, vogliamo rimanere attaccati all’idea che gli “angeli” non si toccano, che le loro miserabili vite senza coscienza e senza speranza sono sacre e indiscutibili? Eh? Tanto poi se ne occupano gli altri, vero? Facile tirare in ballo i nazisti per troncare ogni dibattito, quando le mani restano sempre lontano dalla merda e dal moccio. E del diritto, quando si ha una malattia di tale gravità come il cancro, a ricevere le migliori cure, senza riserve? Del diritto a essere trattati con dignità sempre e comunque, mai come numeri, come pazienti numerati? O ancora, del diritto di scegliere come e quando morire, senza ridursi a una larva, e magari sapendo che colui di cui ci siamo occupati sarà trattato degnamente dallo Stato, e non abbandonato in qualche squallida topaia, seguito da fottuti idioti menefreghisti?
Lettori, sono stata durissima in questa mia invettiva, ma non perché voglia sottendere delle mie risposte alle domande, o perché abbia una mia teoria controversa, no, no, lungi da me. È perché nel libro, tutta quell’enfasi, tutta quella ferocia, non c’è. Certo, io posso a priori non essere d’accordo con una politica di eugenetica, ma… ma mi interessa meditarci su, mi interessa che la questione sia sollevata. Vogliamo introdurre il problema dell’esistenza o no delle “vite senza valore” (fanculo i nazisti, però, davvero, che altra espressione si dovrebbe usare, che non sia di nuovo pura retorica?): perfetto, facciamolo, sono disponibile a guardare nell’abisso. Ma facciamolo seriamente, senza fronzoli e con un certa maturità filosofica. Ah, ecco, la filosofia, c’entra sempre alla fine. Ed è proprio un grosso difetto di Come d’aria. La nostra autrice, almeno dalle parole che ha scritto, non manifesta chissà quale animo incline alla speculazione metafisica o etica. Non c’è veramente nessuna suggestione che riguardi il tema di “che cosa dovremmo farne di loro?”, o il tema di “che cosa sono io, ora che sono debole e praticamente finito?”, anzi i profondi quesiti cui ho fatto accenno sono a malapena intuibili in una sbiadita e niente affatto “tosta” formulazione.
Ad esempio, la D’Adamo tocca la questione dell’eugenetica con le seguenti parole, tratte da una sua lettera indirizzata a Corrado Augias:
Anche se mi ha stravolto la vita, io adoro la mia meravigliosa figlia imperfetta. Ma se avessi potuto scegliere, quel giorno, avrei scelto l’aborto terapeutico.
Ora, lettori, a parte la spiazzante retorica della “meravigliosa figlia” che la D’Adamo avrebbe preferito gettare nel tritacarne, intuite che c’è un problema in questa posizione teoretica della nostra autrice. Quale? Be’, che non è una posizione teoretica: è un rimpianto, un desiderio, un… uh… una visione estremamente limitata e soggettiva dei fatti. L’enigma etico non è nemmeno impostato, perché le parole del libro riguardano ciò che Ada D’Adamo, proprio lei, avrebbe fatto, o voluto fare, non quello che “si dovrebbe”, “si potrebbe”, “sarebbe meglio fare” (inoltre, l’eugenetica, tema vastissimo, è semplicemente ridotta all’aborto terapeutico). Non capiamo se l’aborto terapeutico sia utile, buono, cattivo, inutile, o chissà che altro: possiamo comprendere che la nostra autrice avrebbe voluto farlo, ma per motivi suoi, perché a lei andava così. E che ce ne facciamo di questo pezzo di soggettività? A noi che ci frega? È come se nel Libro di Giobbe l’eroe eponimo urlasse di non meritare il castigo divino perché egli, in quanto Giobbe, non vorrebbe avere le ulcere sul culo, e non perché egli è un uomo giusto (ossia l’archetipo di tutti coloro che, privi di colpe, subiscono il male). Appunto, in Come d’aria troviamo una questione filosofica solo ed esclusivamente rispetto al rapporto che essa ha con la personalità dell’autrice, coi suoi bisogni, coi suoi desideri e con i suoi interessi.
Vai, banale!
Come d’aria, dunque, non martella né la metafisica della persona né l’etica della nostra civiltà, e proprio non sa andare oltre massime di nessuna pretesa, quando proprio proprio ci prova. Massime come questa:
[…] si cerca una causa concreta perché non si accetta di essere vittime di una semplice casualità.
Lasciatemi essere franca, lettori, è brutto dover constatare che la cifra più eminentemente intellettuale del libro si manifesta in tal modo. Quel che enuncia la nostra autrice è semplicemente sbagliato, e se non è sbagliato, allora è banale: forse la D’Adamo voleva dire che cerchiamo una colpa per dare un senso alle nostre disgrazie, ma cercare una colpa non è cercare una “causa concreta”. Le nostre disgrazie hanno una (o più d’una) causa concreta, così come tutto il resto che accade: una mutazione del gene pinco pallino, mutazione causata, che so, dall’interazione con raggi gamma, causa lo sviluppo di una cisti nel fegato, la quale cisti a sua volta causa una compressione dolorosa dell’organo, il quale dolore compromette la capacità di muoversi, che poi… insomma, avete inteso. Non siamo “vittime di una semplice casualità”, siamo invece anelli in una catena causale: non “è successo senza un motivo”, come sembra suggerirci la D’Adamo, bensì “è successo per un motivo”, eccome. E che piova sempre sul bagnato, in fin dei conti, non dovrebbe stupirci troppo, se pensiamo in termini scientifici, di causa ed effetto (vi avevo anticipato che sarei tornata sulla questione). Certo, il motivo, la causa, non è morale: la nostra autrice non si è comportata male, non è per una sua mancanza che ha dovuto subire ciò che ha subito. Ma ancora una volta, se, appunto come ho generosamente interpretato poc’anzi, Come d’aria vuole insegnarci che “cerchiamo una colpa perché non accettiamo che le cause siano soltanto materiali”, dove sta il merito del libro? È un’ovvietà, un qualcosa che circola nell’etere filosofico da secoli e secoli, al pari dell’evemerismo o del materialismo.
Che dire poi di talune “riflessioni” sul cancro? Nel libro troviamo pensierini (e stranamente ne troviamo davvero pochi) di questa caratura:
[…] la fragilità diventa parte di me. Accettare che sarà così per sempre: è questo il punto da cui ripartire per immaginare un futuro.
Quando ci fa male qualche parte del corpo cerchiamo di evitare che qualcuno le si avvicini, e talvolta quello che facciamo per il corpo lo facciamo anche per la nostra anima […].
Se la malattia altera il sé, è stato allora che ho cominciato a diventare un’altra?
Ora mi è chiaro che non sarò mai più quella di prima, ma oggi sono io […].
Eh, davvero, che dire? Forse, e questa è l’osservazione più lusinghiera che mi viene, c’è una vaga nozione di identità fra il sé e il corpo: anche in questo caso si tratta di una minestra riscaldata talmente tante volte, che è del tutto evaporata. Ma, per parlare fuori dai denti, più che una (per quanto dichiaratamente priva di alte aspirazioni) “filosofia del cancro e della malattia”, mi pare che Come d’aria si accontenti di proporre una sorta di frullato di “tips” da libro di autoaiuto: robetta di suo irritante e superficiale, non fa troppo piacere che sia addirittura parafrasata.
E se questo è il meglio che il libro ha da offrire, domando io, ci serve Come d’aria, per meditare sull’irresistibile e misteriosa crudeltà del reale?
No, in tutta onestà non ci serve. Di conseguenza, il giudizio ultimo sul contenuto del libro non può essere positivo: per quel che ci propone, Come d’aria non riesce a soddisfare le nostre esigenze intellettuali, non ci lascia migliori di come ci ha trovati, non ci rende più saggi, o meno incantati, non scuote le nostre coscienze, non schiude portali verso nuove realtà, portali che la nostra mente o non aveva mai nemmeno intuito o non aveva mai osato varcare. Non fa nulla del genere. Sì, ci scuote emotivamente, ci può turbare, può toccare le corde del nostro cuore: ma questo può farlo anche un articolo di cronaca nera. Purtroppo.
Bazzi dice che è tipo una poesia
Perché il Premio Strega, quindi? Be’, a mio parere, s’è ben capito, il motivo non è la sostanza del libro di Ada D’Adamo. Rivolgiamoci alla pura forma, magari scopriremo un tesoro. Oh, e che volete, devo almeno fare un po’ finta, no?
Allora, allora. Se gironzolo per l’internet, scopro molti commenti entusiastici, a proposito dello stile di Come d’aria. Viene definito “un inno”, un libro dalla “bellezza selvaggia”, un libro “magnifico”, “magico”. Uhm… sì, insomma… può anche essere, per carità. I brani che vi ho proposto fin qui non sono molto in linea con tali giudizi, però, ehi, possono ben esserci degli altri passaggi, dal tono più lirico: in fondo, sappiamo bene, proporsi di trattare la verità non implica una rinuncia al bello stile. Però… un momento… quei commenti sono di… vedo nomi… Chiara Gamberale… Lisa Ginzburg… oh… oh, Bazzi…?! ’Orco cazzo, questo non va bene! Diavolo, corriamo subito a vedere da noi se davvero tutta ’sta “bellezza selvaggia” è bellezza.
Troviamo un “tentativo di poesia” all’inizio di Come d’aria, subito dopo l’avvertenza che ho già riportato:
Sei Daria. Sei D’aria. L’apostrofo ti trasforma in sostanza lieve e impalpabile. Nel tuo nome un destino che non ti fa creatura terrena, perché mai hai conosciuto la forza di gravità che ti chiama alla terra. Gravità, che ogni nato conosce non appena viene al mondo. Gravità che il danzatore trasforma in arte quando dalla terra spicca il volo e quando alla terra torna, per cadere e di nuovo rialzarsi. Tu non sai lo splendore quotidiano dello stare in piedi, la “piccola danza” che muove ognuno nell’apparente immobilità del corpo verticale.
Ah, occhei. Un gran… uff… un gran bel calembour: “Daria”, “D’aria” (addirittura con la maiuscola, sia mai che passi inosservato). Ed è pure un calembour spiegato: sapete, non è evidente che “d’aria” è un’espressione scelta per descrivere, con la massima raffinatezza e forza poetica, la fragilità di Daria, la sua vita quasi invisibile. Be′, mi consolo col fatto che la spiegazione richiama un po’ “l’apostrofo rosa”, ed è una novità interessante da trovare in un libro, lo ammetto. Bello anche l’ulteriore calembour, stavolta giocato tutto sulla polisemia della parola “gravità”, che… ah no. No, “gravità” significa solo la… la forza. Non si parla di “gravità” col senso di “difficoltà”, “pericolosità”. Ehm, vabbè, è un po’ un’occasione sprecata, ma ne prendiamo atto. Almeno, “gravità” è il perno di un’anadiplosi (“la forza di gravità che ti chiama alla terra. Gravità, che ogni nato conosce”) e di un’anafora (“[g]ravità, che ogni nato conosce non appena viene al mondo. Gravità che il danzatore trasforma in arte”). Ci sono poi un’anastrofe (“alla terra torna”) e un ossimoro (“muove ognuno nell’apparente immobilità”).
Senza filtri? È un po’ robetta. Non c’è una ricerca formale fatta come si deve: a parte gli artifici che ho elencato, il lessico è terra terra (“stare in piedi”, wow), la struttura sillabica è costruita senza criterio, l’armonia dei suoni è inesistente, tanto da far pensare che la nostra autrice non abbia per nulla orecchio.
Ah, chissene, tanto l’orgoglio della D’Adamo è il calembour. Dopo tale immensa trovata, il resto è superfluo. E che l’autrice sia davvero estremamente soddisfatta lo dimostra il gran finale di Come d’aria (oltre che il titolo, ovviamente):
Appena conosciuti, io e il tuo babbo avevamo coniato un acronimo a partire dal mio nome, A(di)A: “Ada di Alfredo”. Ma anche “Alfredo di Ada”. Poi, quando sei nata, quel “di” che stava lì a indicare il reciproco possesso (io sono tua, tu sei mio) è diventato D, l’iniziale del tuo nome. Io, lui e tu nel mezzo al centro esatto del nostro amore. Un amore d’aria. E il mio nome sta pure dentro il mio cognome. Detti insieme fanno uno scioglilingua sul quale tante volte ho recriminato: si deve pronunciare lentamente per non rischiare di scivolare su quelle sillabe ripetute che sbattono e si arrotolano sul palato. Da lì comincia questo gioco di parole, senti se ti piace:
d’adamo
d’adamo
d’a(di)a
d’a(ri)a
d’aria
Finirò col disciogliermi in te? Sono Ada. Sarò D’aria…
Visto? Sensazionale. Ah, e ovviamente apprezzo moltissimo anche tutti i vari spiegoni, sapete, è sempre bello essere considerati degli idioti, dagli autori premiati.
Ehi, a proposito, ora che ci penso, un atteggiamento simile l’abbiamo trovato pure nella Gamberale e nella Ginzburg, entrambe riempitesi di uno smisurato autocompiacimento, dopo aver inventato due puerili cazzatelle (“Adelescenza” e “carapace, cara pace”, rispettivamente). Non deve proprio essere stato un caso che le due si siano prestate alla campagna di endorsement per Come d’aria…
Sfiga generale, senza dubbio
D’accordo andiamo avanti. Quelle che avete letto poc’anzi sono… sono le vette liriche del libro. Già. Tutto lì, in fondo. Dopo il calembour, il deserto. Gli sforzi poetici calano a zero, e siamo costretti a incontrare autentiche brutture. Un primo esempio soft, per abituarci gradualmente:
[…] ciascuno di noi riceve almeno un dono dalla vita e […], nella sfiga generale, tanto vale approfittane.
Non c’è nulla di male nell’usare “sfiga generale”, io stessa do sapore alle mie recensioni con una caterva di parolacce. Però, meh, “sfiga generale” me lo aspetterei da un tipo come Galiano che cerca di fare il ccciovane: da un’autrice che apre il proprio libro, vero e drammatico, con uno straordinario calembour, ecco… diciamo che mi piacerebbe non trovare un’espressione simile, molto, troppo stonata. Tanto più che “sfiga generale” segna un brusco mutamento di tono, il quale non ha motivo di esistere, perché nel testo non c’è un deciso cambio di tema. Un tantino amatoriale come scrittura, eh? E questo era il “soft”. Progrediamo:
E anche noi, lentamente, cominciavamo a mettere il muso fuori dalla tana. Venivamo da un letargo senza sonno, puzzavamo di lacrime […].
“Muso”, sì? Siamo sicuri? Editor, siete sicuri? A quanto pare sì, è la parola giusta. Dopotutto, essendo il momento narrato particolarmente tragico (l’autrice racconta dei primi difficilissimi mesi con Daria), c’è proprio bisogno di un termine disumanizzante. Una madre emotivamente provata è una specie di mustelide, di mammifero terricolo: certo, perché no? E “perché no” (ma senza punto interrogativo) è anche quel “puzzavamo di lacrime”: oh, ora sono seria, la vogliamo smettere con queste “puzze”, “puzzette” e “puzzoni”? “Puzza” e derivati hanno un potere suggestivo molto intenso, sono da usare con molta cautela, e con la consapevolezza dell’effetto che si vuole ottenere; neanche a dirlo, in questo caso Ada D’Adamo introduce il verbo “puzzare” ottenendo un risultato non soltanto sgraziato, ma pure molto, molto cacofonico.
Via, adesso, con un esempio che alza l’asticella del brutto, con pregevoli variegature cringe:
Così, mentre i tuoi compagni cominciavano a fare amicizia, […] tu saresti piombata in classe la settimana dopo, nella tarda mattinata, dopo la fisioterapia, come un marziano che arriva quando la festa è già cominciata.
Allora, più che semplicemente brutto, confesso che il brano mi sembra incomprensibile. Cioè, non fraintendete, il senso l’ho afferrato: Daria, cominciando la scuola dopo l’inizio ufficiale, avrebbe dovuto affrontare un’accoglienza maggiormente fredda e distaccata. Va bene, ma perché la nostra autrice ha deciso di usare come termine di paragone il marziano che piomba a una festa già cominciata? Che devo fare, devo immaginarmi un alieno di Independence Day che sfonda la porta di casa di Pinco Pallino, incombe minaccioso e, dopo aver oltrepassato gli invitati che hanno già i pantaloni marroni, si china e offre a Pinco un pacchettino con il biglietto “per i tuoi sei anni”? Ma che cazzo è, scusate? L’effetto è in definitiva buffo, ridicolo, e perciò che c’azzecca con l’argomento del testo? Era sufficiente paragonare Daria all’invitato che arriva in ritardo alla festa: basta, perché è opportuno offendere la povera Daria, ancora attraverso una disumanizzazione, associandola a un mostro extraterrestre? Rispondete: magari l’autrice voleva riferirsi anche allo shock emotivo che gli altri compagni avrebbero subito vedendo Daria per la prima volta. Nice try, readers!, ma… no. In primo luogo, non credo che quella fosse l’intenzione, giacché il cruccio della D’Adamo nel passo che ho riportato è solamente il ritardo con cui la figlia avrebbe cominciato la scuola; secondariamente, quand’anche aveste ragione, sarebbe stato sufficiente usare la (trita e ritrita) immagine del marziano che sbarca sulla Terra. Senza aggiungere la festa, che di per sé non c’entra nulla, non spiega nulla, e anzi ci scaraventa in quel contesto comico di cui ho parlato.
E il problema personale della D’Adamo, con lo strumento della similitudine (e della metafora), permane per l’intero libro. Ecco per voi ulteriori prove di quel che affermo:
Giù in cortile, nel buio, un gatto cerca riparo dalla pioggia. È bagnato, infreddolito, spaventato. Una bestia sola nella tempesta… Quel gatto sono io.
In realtà è da quando sei nata che serriamo le fila. Lo so, la metafora della guerra è abusata, probabilmente inopportuna, ma mi esce di bocca ancora una volta perché davvero non saprei come altro definire il nostro percorso in questa vita […].
Lettori, quando si giudica “stantia” un’immagine di Come d’aria, bisogna tener presente che si sta facendo il maggior complimento possibile; ed è singolare che l’autrice stessa riconosca di non avere inventiva, quando si tratta di imprimere su carta una metafora accettabile, perché a questa autoconsapevolezza… non segue proprio nulla. Nemmeno il pensiero che, forse, se non si hanno buone idee non è il caso di fare per forza qualcosa…
Stupida io! Avrei dovuto ricordarmi che, in caso di creatività assente, arriva sempre a dare una mano il caro e affidabile citazionismo. E poiché, abbiamo appunto capito, la D’Adamo riconosce di non avere i mezzi, ecco che spesso e volentieri nel suo libro delega ad altri il compito di trovare le parole giuste, guardandoli mentre si sbattono:
Lo ha detto anche Patrizia Cavalli: «La malattia mi ha tolto le forze, le cure mi hanno tolto la memoria».
La malattia è la miseria massima, la massima miseria della malattia è la solitudine. Lo scrive John Donne […].
«Io sono nient’altro che la cura che faccio» scriveva Severino Cesari. «E non sono solo nel farla. La cura presuppone l’esercizio quotidiano dell’amore. Non c’è altra vita che questa adesso, questa vita meravigliosa che permette altra vita». Sì, è così: la cura è la sola vita possibile per me, in questo momento.
Poi, tutto è accaduto all’improvviso. Un giorno, come ha scritto Joan Didion, ti siedi a tavola e la tua vita non è più la stessa.
Nel libro di Carrère mi colpisce la teoria elaborata dallo psicanalista Pierre Cazenave, che si definiva un “canceroso”. Dice: «Quando mi è stato comunicato che avevo il cancro, ho capito che lo avevo sempre avuto. Era la mia identità». […] Ecco perché quando mi sono ammalata, non mi sono stupita più di tanto. Quella ferita, quella lesione sulla schiena, quel nodulo al seno erano lì da tanto tempo. Questo tumore sono io, è la mia identità.
«Le cose vanno in pezzi, il centro non può reggere» è un celebre verso di William Butler Yeats. Quando il nonno è morto, l’intero sistema è andato in pezzi.
Pensate, lettori, ci sono nel libro talmente tante citazioni, che diversi blog e giornali ne riportano alcune dimenticandosi di avvertire che esse non sono parole originali della nostra autrice. Una svista inevitabile, a quanto pare, complice anche il fatto che ultimamente si è persa un po’ l’abitudine, nei grandi testi in classifica, di marcare sempre quel che si prende direttamente in prestito da altre opere.
E direi che questo è tutto, per ciò che riguarda la (non) bellezza di Come d’aria. Con quel che vi ho proposto potete farvi un’opinione sufficientemente chiara della forma del libro, anche perché non è che ci sia molto altro, sono poco meno di centocinquanta pagine. E scommetto che la vostra opinione non è tanto diversa dalla mia; in compenso, deve essere anni luce distante dall’opinione di chi ha assegnato a Come d’aria il maggior premio letterario italiano, e da quella di chi ha tirato fuori dal cilindro i migliori encomi per incoraggiarne la lettura. Vorrei poter dire che non capisco, ma purtroppo temo di capire, e quindi non mi va di aggiungere altro.
Prima di passare alle conclusioni estreme, tuttavia, c’è un’ultima cosa che mi preme trattare. Ed è anche la più controversa e scivolosa, perciò, eh, vi ho avvertiti.
Sono io, o c’è una punta di narcisismo?
Piccola premessa: io non ho la minima idea di chi sia stata Ada D’Adamo. Non posso giudicarla per la donna che è stata, e comunque non voglio farlo. Con questo, però, non mi sento di passar sopra a certe sgradevoli impressioni (“impressioni”, mi raccomando, non “diagnosi”, non pensateci nemmeno!) che ho avuto durante la lettura. Ho fatto qualche velata allusione in precedenza, ma se devo dirla come va detta, in numerosi punti il libro mi è sembrato presentare una narcisista incallita, una boriosa maniaca del controllo, un’infantile viziata che disprezza la piccola Daria solo perché non si è rivelata all’altezza delle aspettative, solo perché potrebbe essere la prova vivente che, orrore!, colei che l’ha creata non è perfetta.
Sono estrema in questo senso, ma sono anche onesta con voi. Di nuovo, a scanso equivoci, e in barba all’avvertenza del libro, le mie parole si riferiscono alla Ada D’Adamo “personaggio” di Come d’aria, non a Ada D’Adamo in sé. E, quand’anche quello possa essere un personaggio “vero”, sempre personaggio rimane, e non persona: perché Come d’aria non è l’intera Ada D’Adamo, al più è una parte di lei, e non sappiamo se sia una parte grande o piccola. E un qualcosa costruito con una parte di noi è solo ed esclusivamente da definirsi un personaggio. Voglio infatti credere, alla fine della fiera, che la D’Adamo persona fosse molto, molto, molto di più: una donna realmente coraggiosa, caparbia, pronta di spirito, affettuosa… insomma, una persona completa, come tutti noi siamo, nel bene e nel male. E mi piace immaginare che fosse completa più nel bene che nel male, ovviamente.
Nondimeno, Come d’aria mi suggerisce quel che vi ho confessato. Alcuni motivi sicuramente li avete già intuiti, ad esempio il diverso registro quando si parla di Daria e quando si parla di altri disabili, la costante presenza nel testo di aggettivi possessivi, di “mio” soprattutto, o ancora quell’insistenza, quasi sacralizzante, sul nome dell’autrice (“[…] avevamo coniato un acronimo a partire dal mio nome […]”, “[…] il mio nome sta pure dentro il mio cognome”, “[…] uno scioglilingua sul quale tante volte ho recriminato: si deve pronunciare lentamente […]”), ma essi non sono gli unici.
Vi dirò, una delle ragioni principali delle mie cattive e irrispettose sensazioni sta nel fatto che Come d’aria è stato anche definito, ad esempio su Il Sole 24 Ore, “l’amore di una madre per la figlia in forma di lettera”: eh, già, se solo fosse vero. In effetti, nelle parole del libro è incredibilmente difficile percepire l’intimità tipica di un genitore che parla alla sua creatura. Prestate attenzione a questo brano:
Questa lettera, pubblicata su «la Repubblica» nel febbraio 2008, mi è uscita d’impeto dal petto come un grido. […] Da qualche tempo si era riaccesa la polemica intorno alla legge 194, gli antiabortisti erano tornati alla carica con le loro battaglie in difesa della vita, in tv si succedevano dibattiti, dichiarazioni, proclami. […] Quella sera Emma Bonino lesse la mia testimonianza durante una trasmissione televisiva, alcuni conduttori di radio e tv mi chiesero di partecipare ai loro programmi, mentre la mia casella di posta si riempì di lettere di supporto, inviate in gran parte da genitori di bambini disabili che avevano riconosciuto nelle mie parole quel groviglio di amore e disperazione che era anche il loro. Ma in Rete, dove “la lettera di Ada” fu rilanciata, comparvero anche alcuni attacchi. Ne ricordo un paio. Il primo era di un uomo convinto che la mia lettera fosse un falso […]. Il secondo era di una donna: faceva fatica a credere che una madre potesse scrivere una cosa simile di sua figlia. […] Quei commenti mi ferirono, mi indussero a ritirarmi dal dibattito politico e mediatico ancor prima di esserci entrata.
Siate onesti e rispondete al mio quesito: vi sembra plausibile che la madre di una ragazza disabile scriva un brano del genere? La D’Adamo parla della legge sull’aborto, di programmi televisivi, di giornali, di internet, di email (e notate il calcare su “alcuni attacchi” che “ferirono” la nostra autrice)… insomma, sono cose che possono interessare a una persona con un grave problema al cervello? O, dico io, possono anche solo essere da lei comprese? Non c’è assolutamente nessuna considerazione per la natura e per le esigenze di colei cui è idealmente rivolta la “lettera”. Ma se noi facciamo qualcosa per qualcuno, se ci mettiamo in tale situazione, stiamo ben attenti a chi abbiamo come destinatario, no? Altrimenti, chi ce lo fa fare, se vogliamo fottercene di chi riceverà le nostre attenzioni, tanto vale non muovere un dito dall’inizio.
Certo, può darsi che nel brano la D’Adamo abbia messo in atto una sorta di sospensione dell’incredulità: si rivolge a una Daria ideale, una Daria che può comprenderla. Eh, però rimane comunque un’evidente assenza di intimità fra madre e figlia: non c’è, ad esempio, la costruzione di un linguaggio comune e segreto, non c’è la condivisione di esperienze di cui solo Ada e Daria possono essere a conoscenza. Vi propongo concretamente la mia idea di come avrebbe potuto essere il passo di Come d’aria, se avesse avuto le caratteristiche attribuite al libro dai suoi amici:
“Quella sera la mia testimonianza fu letta durante una trasmissione televisiva da Emma Bonino. Te la ricordi? È quella donna che porta sempre un sontuoso turbante sulla testa, uno di quelli con cui ti avvolgo il capo quando ti svegli di buon umore e ti lasci acconciare per la passeggiata. Ebbene, proprio la Bonino stava leggendo la mia lettera, che parlava di te.”
Ora, io non sono un’autrice da Premio Strega (non sono un’autrice, punto), tuttavia suppongo possiate concordare sul fatto che, rispetto alla mia riscrittura, il brano originale è freddo e completamente formale: non c’è niente che rievochi l’intimità domestica, e i verbi sono spesso in prima persona, tutti aventi come soggetto la nostra autrice.
Non ho finito. Dalla prima pagina all’ultima di Come d’aria, mi è parso perfino che la D’Adamo abbia voluto evitare il più possibile di affrontare il rapporto con sua figlia. Badate al seguente stralcio:
Quando ho capito che hai un debole per un ragazzino della tua classe, ti ho confidato all’orecchio che alla tua età anch’io ero innamorata di un ragazzo che portava lo stesso nome: Paolo. […] Tu mi hai sorriso e, con la tua voce senza parole, hai commentato la notizia con una modulazione di suoni così articolata da lasciarmi interdetta. Era come se avessi compreso perfettamente quello che ti stavo dicendo. In quel momento ho avuto la certezza che stavamo comunicando davvero, con una modalità che non so spiegare, che non passa dal linguaggio verbale (non per te, almeno) ma che arriva dritta, senza indugi, e che riempie tutti i sensi.
Sono passati più di trent’anni da quando Paolo se n’è volato via appresso alla vela del suo windsurf, in una mattina grigia di fine ottobre. […] Ti mostro la sola foto che ci ritrae insieme, io quindici anni, lui uno di più. […] Siamo su un prato, io seduta come Buddha, Paolo disteso, con la testa poggiata nell’incavo formato dalle mie gambe. Lui ha la mano sollevata verso il mio viso, nell’atto di sfiorarmi la guancia con una carezza. […] Quella foto, apparentemente esempio di tenerezza e di dolcezza, coglieva in realtà l’attimo successivo a un litigio. Avevo scoperto che Paolo e i suoi amici si erano appartati per fumare uno spinello […].
Avete notato? Il brano si apre con un momento di inaspettata e insperata apertura alla vita da parte di Daria. Non è un fermacarte, carne inerte: Daria è viva, Daria vive, Daria prova emozioni, ha desideri! O, almeno, sembra. Che sia, o che sembri, poco importa, c’è qualcosa. È un momento importante, lettori, un momento di intima e quasi metafisica (abuso un po’ del termine, lo so, ma mi piace e lo trovo molto utile) connessione fra la madre e la figlia. Un moto di felicità? Sì, felicità, finalmente! E… e poi… e poi, poco dopo, prostrazione: quanto è crudele questo mondo infame, che insinua in una povera sfortunata il desiderio di amare ed essere amata carnalmente? Lettori, mi vengono i lucciconi, povera me!
Già, è tutto molto commovente, è tutto molto aulico perfino: ecco, leggete bene già solo la prima frase del brano. Che fa la D’Adamo? Fa una cosa del genere: ehi, Daria ha una personalità, ha avuto un’esperienza, presto, parliamo dei cazzi miei! Tu hai una cotta? Fico, ehi, ma lo sai che pure io ho avuto una cotta alla tua età? Una vera, sai, lui ricambiava: era proprio un bel tipo, però un po’ mi rompeva i coglioni perché fumava e io non volevo che faceva le cose che lui voleva fare ma io non volevo, e quindi…
Di nuovo, siate onesti, non vi sembra che la mia esagerata parafrasi sia in fin dei conti parecchio calzante? Andiamo, la love story preistorica dell’autrice è completamente fuori contesto, e inoltre dei suoi dettagli non ce ne può fregar di meno. Sarebbe già stato molto diverso se la D’Adamo avesse raccontato una storia d’amore sdolcinata e romanzata, con il solo intento di far sognare Daria attraverso le sue parole: Daria, che sappiamo non potrà sperimentare appieno simili esperienze. Ma quello che il libro ci presenta? Che senso ha raccontare di Paolo, è solo un modo di cambiare argomento, al contempo imponendosi su Daria, reclamando il centro dell’attenzione. E la precisazione sui litigi per gli spinelli? Dà l’idea di essere un rancore antico che ancora riaffiora, un vecchio affronto mai vendicato, un delitto di lesa maestà che inconsciamente ritorna e ritorna, perché ha rappresentato una sfida alla bramosia di controllo assoluto della nostra autrice/personaggio. Che brutta cosa, se ho ragione. E l’impressione generale, a proposito del rapporto fra madre e figlia, è che la D’Adamo non riesca proprio a concentrarsi su Daria e sul suo destino, pare che cerchi continuamente di distogliere lo sguardo dalla figlia “storta”, come lei stessa la definisce. Per disprezzo, o per paura? Ah, di questo non posso dire, nonostante le mie severissime ipotesi. Anche se andassi fino in fondo e mi risolvessi a rispondere “disprezzo”, peccherei di superbia e di superficialità: sì, perché tutti noi siamo consapevoli che a volte, alla radice del disprezzo e di altri comportamenti sgradevoli e “maligni”, c’è solo un’irresistibile paura. Paura che va compresa e compatita, più che biasimata.
Una buona notizia (ma solo per Gennaro)
Ad ogni modo, non volendo assolutamente sostenere che che la D’Adamo sia stata una pessima madre, voglio almeno poter dire senza sentire dei “buuu!” che la D’Adamo non è stata una gran scrittrice. La decisione, con Come d’aria, di rivolgersi direttamente alla figlia non è stata una scelta felice, perché è un’impostazione difficilissima da concretare, anche per i veterani delle lettere. A prescindere dai temi trattati e dalla forma di essi, dobbiamo convenire che la D’Adamo semplicemente si rivolge a Daria fingendo che quest’ultima possa capirla, non rendendosi conto che è un’impresa attribuire a una persona a noi ben nota caratteristiche che sappiamo non appartenerle. Immaginare di parlare con Daria non è come immaginare di parlare con un amico fantastico (Kitty per Anna Frank) o con una creatura non più o non ancora esistente (Lettera a un bambino mai nato, ad esempio). Daria è vera, è viva, e ogni suo dondolio della testa, ogni suo lamento, ogni suo respiro ha probabilmente ricordato all’autrice che la Daria a cui stava indirizzando la lettera non esisteva e non sarebbe mai esistita. Un enorme guaio, per la corretta stesura del libro: ma è anche un guaio in cui Ada D’Adamo s’è volontariamente ficcata, perché, ripeto, non c’era l’obbligo di scrivere Come d’aria. Non c’era l’obbligo, volendo mostrare amore per Daria; non c’era l’obbligo, volendo far conoscere la propria storia; non c’era l’obbligo, volendo urlare in faccia al mondo che è solo un grandissimo figlio di puttana.
È il momento di chiudere il sipario. Ebbene, non ho molto altro da aggiungere a proposito di Come d’aria, se sia un “libro sì” o un “libro no” l’avete inteso. Soggettivamente potrà anche piacere, non lo nego, potrà essere una chiave per aprire le fontane dei vostri occhi, però, per quel che si può stabilire oggettivamente, è un’opera da niente. Ce ne sono tante in giro con un’impostazione simile, scritte da autori improvvisati, della domenica: più che opere in senso proprio sono estensioni dei loro creatori, una continuazione con altri mezzi dei loro impulsi emotivi, una delle tante forme che assumono i meccanismi di difesa e le nevrosi della loro psiche. Hanno un posto a questo mondo, lo credo davvero, ma esso non è nella letteratura, nella cultura. E così ritengo avrebbe dovuto essere per Come d’aria: sarebbe dovuto rimanere una “faccenda privata”, nel senso che il suo nome non avrebbe dovuto essere scritto nel Grande libro custodito dal nume della letteratura italiana. Avrebbe dovuto fare il suo corso, trovare i suoi pochi, pochi, lettori, soddisfare le esigenze profonde per cui è stato scritto, e infine spegnersi silenziosamente e, direi, dignitosamente.
Invece no, è il miglior libro italiano del 2023. Lettori, è ormai diventata un’attività assurda e ridicola cercare di capire perché da troppo tempo i libri giudicati migliori non siano né libri né migliori: sarebbe come domandarsi perché, invece di politici capaci, puntualmente sugli scranni che contano si trovino delle caricature di esseri umani. Succede così: c’è una causa, ma non è una causa morale, non è una colpa. O forse è appropriato parlare di colpa, quando si considera che Come d’aria è Premio Strega 2023?
Termino così. Anzi, no, ci tenevo a dire ancora una cosa, prima di congedarmi da voi: statti pure tranquillo Gennà, nun ti si perzo nu cazz!
Anche a voi, lettori, dedico qualche parola di conforto: non siate troppo avviliti nel trovare sul vostro cammino libri di dubbio valore. Non ci sono libri inutili: possono esserci libri brutti, ma essi aiutano ad apprezzare ancora di più quelli belli. E di libri belli ce ne sono, ce ne sono ancora, non temete. Cercateli, amateli, fateli conoscere. Soprattutto, fate con essi una buona lettura!