Pane del bosco – Chandra Candiani

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IL GIUDIZIO:

pane del bosco silloge poetica di chandra candiani edita da einaudi

Non sia rabbia la mia vecchiaia
né delusione ma essere più sciocca
abbandonata al non senso
e pronta alla risata per la lacuna
in cui abito di giorno in giorno
un po’ più intima. Dentro di me
c’è una bambina uccello.

Osh… anto Cielo!

È sempre la stessa storia. Noi abbiamo una tradizione poetica invidiabile, complice la nostra bella lingua, di suo incredibilmente musicale e affascinante. Ma, da bravi mammoni, finiamo per disperdere le nostre fortune, cullandoci nel ricordo dei tempi andati e lasciando dilagare la mediocrità. Gli Americani, che si ritrovano a usare come strumento quella specie di inglese gutturale, quantomeno ci provano a innovare e a tenere viva la poesia. E stiamo parlando di un popolo che quasi non sa leggere e che ridicolizza tutto ciò che abbia il sentore di “cultura umanistica”. Noi invece, che regolarmente lasciamo fuggire i migliori scienziati e ricercatori tenendoci i “signori illustrissimi dottori in ermeneutica delle prime quattro pagine de L’arte della gioia”, riproponiamo all’infinito le poesie sull’ammmorey e sui sentimenti in generale.
Uhm. Va be’, però avete ragione, e dopotutto l’ho già sostenuto più di una volta: non è che il tema trito e ritrito dell’emotività debba essere squalificato a priori. Di Mario Esposito non ce ne sono molti, in fondo, e che si dovrebbe fare, quindi, pubblicare una silloge al decennio, se va bene? Ma no. Ci sono anche i Penco, dico, poeti che sanno trattare sempre le solite cose con stile (no pun intended), soddisfacendo ogni nostra aspettativa. Ah, ottimo! Però è una questione di duro lavoro, di disciplina: far buona poesia, a proposito dell’amore, del bene, della spiritualità, è possibile se ci si sbatte tantissimo, se si imparano le regole classiche, se si prova e si riprova. E anche se si hanno un certo orecchio e una certa intuizione, doti che, ahimè, non si possono apprendere (a meno che questo nostro mondo non sia in effetti Faerie, in tal caso mi mangio il cappello).
Alright, fine! Quindi cosa rimane ai poveri diavoli che non hanno orecchio e non hanno voglia di sbattersi, intendo gli autori famosi, quelli che fanno gli incontri, i podcast, quelli che tengono amici? Uhm, rimangono loro due cose. La prima: i sentimenti e la spiritualità stile Baci Perugina o frasi di Osho. La seconda: eh, be’, lo Strega. C’è il Premio Strega Poesia, no? Non ditemi che non lo sapevate!

D’accordo, sono troppo acida: è vero che avevano inserito la Soleri, però poi l’hanno fatta fuori dalla rosa finale, facendo vincere… ehm… boh, uno. E anche quest’anno, per la seconda edizione, la lista dei papabili non è proprio roba di cui vergognarsi, ci sono dei professionisti, gente che sembra sapere il fatto suo. Però la Soleri l’avevano accettata, l’avevano considerata poesia. Già. Ehi, sentite un po’, perché non ci facciamo del male e spulciamo fra i trombati di quest’anno? Oh, se la scorsa edizione c’era La signorina Nessuno, magari stavolta troviamo… la… signorina… qualcuno?
La signorina qualcuno non la troviamo, troviamo invece la signorina qualcun altro. In effetti, fra gli esclusi incontriamo una certa Chandra Candiani, che a me pare sia un nome noto, giusto? Sì, insomma, a me è noto perché talvolta, non so il motivo, me lo trovo associato a quelli di Bazzi e di Chiara Valerio, ma a quanto sembra ci hanno anche fatto delle tesi universitarie (sì, esatto) e degli articoli di giornale, quindi…uh… yay?!
Ebbene, tagliamo corto, la silloge della nostra autrice si intitola Pane del bosco. Ah, occhei, c’è un proliferare di lievitati nel panorama editoriale dell’ultimo decennio: Il pane perduto, Pane nero. Donne e vita quotidiana nella Seconda guerra mondiale, Il pane di ieri, Pane per i bastardi di Pizzofalcone, I baci sul pane, Corpo di pane
Originale. Tuttavia il titolo mi lascia alquanto perplessa, insomma, non mi è chiaro di cosa tratterà la silloge (il pane sarà una metafora?). E se certamente ci sono un modo sbagliato e un modo giusto per giungere alla conoscenza (tipo… leggere le poesie), c’è anche il mio modo, che è sbagliato ma più svelto. Qual è, domandate? Semplice, chiedere spiegazioni alla quarta di copertina. E la quarta di copertina mi spiega che:

Questa nuova raccolta di poesie di Chandra Candiani nasce da un’esperienza reale: l’abbandono di Milano e il trasferimento in una casa su un alpeggio piemontese in mezzo a un bosco. Non che Chandra non avesse un forte rapporto con la natura anche da “cittadina”, ma quando le relazioni diventano fisiche, quando gli alberi e gli animali ti circondano, li vedi e li puoi toccare, vivi con loro, le sensazioni raggiungono un’intensità diversa, e le poesie che nascono da questa esperienza, pur nella continuità delle caratteristiche stilistiche e di pensiero, propongono una svolta, per esempio dissolvendo progressivamente i residui autobiografici e registrando i dati del mondo esterno e delle sue sofferenze con un sentire tanto più intimo quando più defilata è la posizione di ascolto.

E… wow!, quello sì che è un periodo superdotato. Vabbè, a parte la logorrea, è evidente che il tema portante di Pane del bosco è… uhm… che bello il bosco, ti fa rilassare ma ti fa anche riflettere?

Signori, il Puma è con noi!

Non è successo niente, lettori. Era solo la presentazione del libro, come al solito c’è più marketing che altro, perciò mi sa tanto che devo attenermi al modo giusto ed esaminare i vari componimenti. Sì, però voglio farvi notare che un’informazione precisa c’è nella quarta di copertina, la raccolta infatti “nasce da un’esperienza reale: […] il trasferimento in […] un alpeggio piemontese”. Remember that!, come dice Gianluca “biscottino” Torre in quella réclame della banca. D’accordo, lettori, tagliamo la testa al toro e leggiamo insieme il primissimo carme di Pane del bosco. Non ha titolo (nessuna poesia ce l’ha, in questo siamo sul classico) e recita così:

Lei ha un puma al fianco sinistro
ha un lupo al fianco destro
[…]

Woah, woah, woah, wait a minute… what the fuck, lady?! Abbiamo parlato poco fa di “esperienza reale”, di “alpeggio piemontese”, e il primo verso mi parla, toh!, di un puma?! Il famoso coguaro delle Langhe, la pantera (del) Rosa!
Uff, ecco che arrivano le vostre obiezioni. Sara, babbea, la poesia non è necessariamente un trattato scientifico, è creatività, invenzione, il poeta deve potersi liberare dalle costrizioni della realtà! Sì, è vero, sono d’accordissimo, l’immaginazione dell’artista, anche la sua stravaganza a volte, è un pregio da elogiare e da proteggere. Tuttavia, se il poeta è libero di esprimere sé stesso, eh… anche il pubblico è libero di farlo, no? In particolare, davanti a un qualsivoglia componimento, noi che leggiamo siamo liberi di provare questa o quella emozione, e di fare questa o quella associazione mentale. Di sicuro alla Candiani importa poco di chi, come me, tende all’aridità STEM, non per snobismo ovvio, ma perché l’opera si rivolge ad altri: bene, però Pane del bosco lo posso leggere anch’io! E vi posso offrire la mia personale opinione. Che poi, a dirla tutta, questa storia che “eh, guarda che questo mica era pensato per te” ha un po’ rotto, mi sa un tantino di paraculata… però… ehi, d’altronde è una mia supposizione, la nostra autrice non ha detto da nessuna parte che la sua opera è, che ne so, vietata ai millennial come la serie di Buonvino.

A maggior ragione, quindi, mi sento di affermare che… insomma, la poesia d’ouverture della raccolta al massimo, al massimo!, mi fa venire in mente quella pubblicità con un Johnny Depp gonfio e amareggiato per le lenzuola sporche di cacca, che se ne va senza meta accompagnato da lupi… ehm… speranzosi. Che voi ribatterete: embè?, la pubblicità ha un grado di parentela con la poesia, dove sta il problema? Sì, solo che la pubblicità, proprio per la sua natura di “tentato lavaggio del cervello”, è decisamente stupida, ed è percepita, se mai la si percepisce come arte, come “arte bassa”; per non parlare poi degli spot over the top, quelli con animaloni machissimi che sottolineano, camminata da badass inclusa, la figaggine dell’acqua profumata, garantita al 100% di togliere l’odore di verro dai nostri mariti stanchi e confusi. E, non so voi, ma a me l’immagine del puma e del lupo che stanno a fianco di questa “lei” mi danno proprio l’aria di star per introdurre “Sausage – Dior”. Il che è un po’ ridicolo, o sbaglio? Eh, la mia idea, e l’ho già espressa molte volte, è che simili strampalate associazioni dovrebbero essere intuite e anticipate dagli autori (almeno dovrebbero fare il possibile per prevedere le reazioni del pubblico), magari… uh… correggendo il tiro di conseguenza?
Ah, non c’è bisogno di correggere il tiro, voi mi fate un’altra obiezione: ho poco da rompere con questi animali, il lupo, il puma… cioè, pure Dante aveva piazzato in Toscana la lupa, la lonza e il leone!

Allora… sì e no. Lupa e lonza sono animali che, presumibilmente, facevano su e giù per le colline frequentate da Dante, quindi nessun problema. E, in effetti, nessun problema per il lupo in Piemonte, che ci può stare, dopotutto. Il leone invece no, alle porte di Firenze… mmmh! Proprio come il nostro puma, giusto? Sbagliato, c’è una differenza. È ovvio a tutti che le fiere dantesche sono allegorie, e appunto il leone è lì perché simboleggia la superbia. Cioè: da che mondo e mondo simboleggia la superbia, è un’allegoria universale, immediatamente riconoscibile, e Dante se ne serve proprio per questo, con totale consapevolezza. Ecco, il puma… il puma?! Cosa dovrebbe simboleggiare? Forse può avere un senso evidente per i nativi precolombiani, ma per noi del Vecchio mondo? Che vuol rappresentare, forza?, violenza?, furbizia?, eleganza?, figa? Qualunque possa essere la risposta, bisogna ribattere che sicuramente si sarebbe potuto trovare un altro animale dalla funzione allegorica più perspicua, e magari anche più adatto, rispetto alle premesse/promesse fatte dalla quarta di copertina.
A questo proposito, ossia della varietà di scelta quando si tratta di animali simbolici, c’è un’ulteriore osservazione che ritengo per voi interessante. Se ci pensate, anche il pavone rappresenta spesso la superbia, e in fin dei conti è molto più credibile che passeggiando fuori Firenze si incontri un pavone, piuttosto che un leone. Dante è quindi da bacchettare, se bacchettiamo la Candiani: perché diavolo non ha usato un pavone? Lettori, la risposta è semplice: le fiere hanno anche una funzione pratica, non solo allegorica. Dante deve in qualche modo entrare nella selva oscura, ma siccome la selva è oscura e spaventosa, non lo farà mai di sua spontanea volontà. Ed ecco che entrano in gioco le belve: sono animali feroci, predatori, un pericolo per il nostro Dante, il quale deve scegliere se farsi sbranare o fuggire passando per la selva. Non c’è storia, mi pare, meglio il percorso speventoso e incerto, alla sicura morte sotto i denti degli animali. Ebbene, suppongo abbiate già capito dove voglio arrivare. Dante ha posto a sé stesso, per la composizione dell’opera, queste condizioni: inserire un animale che rappresenti la superbia e che sia feroce, un ostacolo. Certo, il pavone rappresenta la superbia, ma non è davvero un ostacolo, basta prenderlo a calci. Che rimane, dunque? Eh, rimane il leone: e sì, non ci sono leoni maremmani, però… però chi se ne frega, le condizioni sono rispettate, la scena è perfetta, e poi la Commedia non è un trattato scientifico.
Occhei, se ragioniamo allo stesso modo rispetto a Pane del bosco… allora… il puma è lì perché… non è un trattato, no… ehhh… boh, reasons, chi se ne fotte.

Officina celeste cerca personale

Lo so, lo so, ho fatto tutta questa manfrina per due versi… che supponenza, che supponenza. Continuiamo con il resto della poesia? Prosegue così:

[…]
la accompagnano al passo, vigili, muti.
Viene da un luogo pericoloso.
Nel bosco puma e lupo
vanno annusando di pietra in pietra
rammendando i tronchi d’albero, l’erba alta, il ruscello.
Sono custodi, senza minaccia,
lanciano segnali di officina celeste.
«Caro bosco
vengo a te in cerca della ferita che ci precede,
i sensi, servitori gentili, invitano all’aperto
le mani sbucciate, vuote.
Avverto il silenzio che specchia il mondo
e dice: ti riconosco
frammento di polvere e ti do il nome
ti chiamerò così,
nel cuore delle ossa,
nell’ora senza casa».
Lupo e puma
proteggono la parola
scintillata nel bosco.
Lei si inoltra
a liberare i custodi del nome,
dimenticherà i padroni delle parole,
sarà belva
che mangia quieta la sua furia.
È tempo di disarmo,
instabile come una scia,
lei sa dire: «Fammi luce».

Uh, un bel po’ di bla bla! Allora… sinceramente non è che abbia capito granché del contenuto. Credo che racconti l’addentrarsi di questa tipa (sarà l’io lirico dell’autrice?) nella vita bucolica lasciandosi alle spalle la civiltà, e in effetti è quel che abbiamo trovato nella presentazione, però… boh. Forse c’è dell’altro, solo che io non riesco a coglierlo. Vabbè, anche se fosse giusta proprio la mia interpretazione terra terra, niente di male in ciò. Non è chissà che tema interessante, è pure decisamente abusato, tuttavia ha un suo perché. Ritorniamo alla poesia dei sentimenti, con tutto quel che essa comporta, eppure va bene, è una libera espressione artistica, e, anche se (molto) minore, può far piacere incontrarla.
Quel che fa meno piacere è l’esecuzione di tale espressione artistica. Ribadisco, nonostante sia totalmente superfluo, i pochi versi regolari e canonici sono, senza timore di ingannarmi, sprazzi totalmente casuali. Dominano i versi liberi, che purtroppo è un modo gentile di dire “va a capo quando cazzo le pare”. Ah, sì, sì, è vero: non sono poi così ferrata a proposito di poesia, specialmente ho molte lacune in Storia della poesia, pertanto può darsi che mi stia perdendo dei riferimenti dotti. Che ne so, magari gli ultimi tre versi sono un diretto omaggio al famoso vate Roberto Caprasecca, o un rimaneggiamento delle immortali parole di Richard B. Kidding. Anche se fosse, non è che la mia prospettiva limitata da “conto le sillabe e controllo gli accenti” sia una cacchiolata eh! Un senso c’è in tale metodo, soprattutto se ricordiamo che la poesia ha basi biologiche. I versi regolari, la struttura di canzoni e sonetti, la presenza di artifici retorici generali non sono mai stati capricci arbitrari, ma consapevoli adattamenti dell’arte alle risposte, anche fisiche, del pubblico. Sarebbe bene adoperarsi nello studio e nell’uso di settenari ed endecasillabi non perché in tal modo possiamo darci una patina dantesca o petrarchesca, ma perché… eh… settenari ed endecasillabi piacciono. Sono belli da leggere, da udire. Sono musicali. Il nostro corpo reagisce così, e reagirà sempre così. Mentre le sperimentazioni (che in ogni caso, andrebbero tentate con un solido bagaglio “tradizionale” sulle spalle), tra cinquemila anni, saranno in “forse”, non c’è da temere che i sonetti in endecasillabi canonici, pure quelli più modesti, risulteranno gradevoli alle orecchie dei nostri pro-pro-pro… pronipoti.

Quindi, citazionismo o no, per me il carme della Candiani è un… meeeeh… dal punto di vista puramente strutturale, dal punto di vista della semplice musicalità. Naturalmente non sono soltanto i versi sballati a far cadere le pa… parecchie aspettative che avevamo. La mancanza di orecchio e di sensibilità della nostra autrice sembra manifestarsi anche nelle scelte lessicali, talvolta a dir poco discutibili. Ad esempio, abbiamo un rovellianoannusando”: e d’accordo che gli animali quello fanno, però questa è poesia, cazzo! Usare termini così bassi, in un contesto che evidentemente vorrebbe essere solenne, stona tanto, ma tanto, ma tanto. Stona quanto quel “puzza” che Dante (sì, ancora lui, proprio lui) mette in bocca a san Pietro, nel Paradiso. Forse mi ero già espressa allo stesso modo altrove, nondimeno chissene, mi ripeto: non è che se il tema è basso, allora necessariamente il lessico deve concordare. Questa è la regola generale, e va bene, ma non quando il tema basso vuole essere nobilitato, elevato. In tal caso, l’esaltazione si ottiene proprio grazie a un attento uso delle parole, le quali, possibilmente, si fonderanno su suoni ricercati e soavi, pur mantenendo (ovviamente) intatto, il loro significato “povero”. In concreto, non si userà “merda”, qualora si voglia veicolare l’idea che andar di corpo sia tutto sommato una bella cosa, si opterà magari per una perifrasi come “il soffice frutto dell’interiorità nostra, di fragranza decisa”. LOL, che stupidaggine, lo so…
Fatto sta che, niente, Pane del bosco si gira verso di noi e ci fa l’occhiolino, sussurrandoci… “annusando”… grrr, baby!

E, poi, troviamo un “mangia”, senza troppe menate. Be’, almeno si può constatare che la nostra autrice è fedele alla linea. Quel “mangia”… ah… avete visto anche voi, è inserito in un verso che presenta un tosto ossimoro, “quieta/furia”. Dai, questa è una finezza, è un artificio retorico! Roba buona finalmente! Eh…
Il problema è che, sì, la forma va curata, tuttavia senza mai dimenticarsi del significato e, in generale, della funzione di un certo artificio rispetto all’economia del componimento. Un ossimoro, una metafora, un… un qualunque trucchetto può anche avere un suono meraviglioso e una struttura sorprendente, ma non farà mai effetto, se non si riuscirà a cogliere il suo perché. Il perché si trova lì, dico.
Ecco, nel nostro caso… che significa quel verso? La tipa del carme è una nevrotica, e una volta nel bosco “mangerà quieta la sua furia”, cioè ingoierà non si sa quale rospo standosene zitta a consumarsi di rabbia? Oppure imparerà a dominare la rabbia, diventando tranquilla? Oppure assorbe dentro di sé la furia, che quindi la fa diventare calma, e… e cacchio questa roba non ha senso?! Vedete, lettori, se non leggiamo distrattamente (e se lo facessimo sarebbe indicativo del livello dell’opera), sorgono spontanee simili domande. Ma allora vuol dire che la nostra autrice non ha fatto un gran lavoro, e cresce senza sosta il sospetto che l’ossimoro sia lì tanto per. D’altronde, ci sono altre stranezze, a rinforzo delle nostre sgradevoli sensazioni, ad esempio questi versi: “rammendando i tronchi d’albero, l’erba alta, il ruscello./ Sono custodi, senza minaccia,/ lanciano segnali di officina celeste”. Ancora, che vogliono comunicare? Se l’idea è che il puma e il lupo, i quali già sono allegorie di ardua interpretazione, vanno in giro a curare la foresta… occhei… perché? Quindi? E poi, “segnali di officina celeste”, really? Di nuovo, “segnali” come è da intendersi, cosa vuol dire? E “officina”, benché a rigore possa starci se pensiamo al precedente “rammendando”, tradisce ancora una volta la scarsa capacità della nostra autrice quando si tratta di anticipare le reazioni del pubblico. Va bene che la poesia richiede uno sforzo, però è meglio quando lo sforzo è per comprendere termini o espressioni per cui ci troviamo a brancolare nel buio: se ci viene in mente subito un’interpretazione, e magari è pure da burini, comica, eh, non è il massimo. Nel nostro caso, alzi la mano chi di voi lettori non si è immaginato il puma e il lupo che, dopo aver cucito col moccio del naso, si mettono con le quattro frecce per richiamare l’attenzione del carro attrezzi di Babbo Natale. Eddai, su!

Danza a ritmo animale, sono il Capitan Cinghiale! (non Salvini, NdR)

Vabbuò, voglio tralasciare quelle “ossa”, perché mi fanno venire brividi soleriani lungo la schiena, e direi pertanto di passare a un’altra poesia di questa sezione iniziale, chiamata “Estate” (sì, ci sono anche “Autunno”, “Inverno” e “Primavera”). In accordo con le vibes estive, abbiamo un carme che parla… mmmh… del COVID… pare:

C’erano i numeri ogni sera numeri
di morti di contagiati di respirati
e le sirene e i silenzi
urli di silenzio numerato in casa.
Ma nel bosco gli animali facevano festa
di vita liberata nel pericolo
svanito il danno.
Il mondo senza di noi
è bellissimo.
I morti sono partiti
da soli
in camion.

Pfffffh… ah, ah, ah, ah! Oh, scusatemi lettori, non voglio essere irrispettosa nei confronti di chi, poverino, ci ha lasciato le penne, però… cioè, leggete, leggete! Abbiamo finalmente un endecasillabo canonico (e spero che ci sia davvero la sinalefe tra “numeri” e “ogni”), e a seguire… bum, headshot!
Cosa… diavolo… sono… i… “respirati”?! Insomma, io capisco la plasticità della lingua, e il fatto che il poeta può (forse dovrebbe) essere la fucina in cui si forgiano nuove parole a partire dal ferro delle vecchie, nondimeno… è opportuno avere una certa continenza! “[R]espirati” ha già un senso, e inevitabilmente penseremo a quello: “le cose respirate”, “entrate nel nostro naso e giù fino in gola”. Oh, e magari è proprio il senso che intendeva la Candiani, e il riferimento è al virus stesso, ma allora… perché cavolo è associato a “morti” e a “contagiati”, che si riferiscono entrambi a esseri umani? Così si è naturalmente portati a supporre che pure i “respirati” siano esseri umani! E poi, chi mai ha dato “ogni sera” i “numeri” delle particelle virali inalate? Nessuno: quindi non è così semplice intuire che (forse, e sottolineo forse) la nostra autrice qualifica come “respirati” i virioni (eggià, perché con “particelle virali” non c’è concordanza di genere… ma tutti si ricordano dei virioni, sicuro).

Segue un altro fantastico ossimoro, che a questo punto credo sia il marchio di officina (eh, eh, eh) di Pane del bosco, e poi… ahhh… abbiamo la boomerata!
Qui trascuro ogni altra osservazione stilistica, perché, davvero, davanti a un contenuto del genere ci si può solo inchinare… per poi rotolarsi dal ridere. Insomma, “[…] gli animali facevano festa”: io capisco il pensiero anim(al)ista, la connessione con la natura, però sul serio non c’è altro modo di manifestare tutto ciò, senza servirsi (in maniera non autorizzata) di immagini Disney?
Lettori, anche se talvolta interpreto la Vulcaniana materialista, io sono straconvinta che la spiritualità e, se vogliamo, la metafisica in generale siano tutt’altro che sciocchezze infantili, residui di un’umanità immatura. Tuttavia, ritengo pure che, così come accaduto per la scienza e per la tecnica, sarebbe interessante se anche la spiritualità e la metafisica evolvessero. In questo caso, ormai sappiamo bene che l’animalità è diversa dall’umanità, e che l’antr… antrom… ant… antropomorfizzazione è inopportuna: perché non provare a vedere della bellezza in tutto ciò, perché non provare a meditarci (intendo in senso proprio) su? Oltre che banale, è ridicolo figurarci per l’ennesima volta degli animali dotati di sentimenti umani; è anche offensivo, secondo me, come se la loro vera natura, indifferente, piatta, o addirittura aliena per noi, non fosse “giusta” o “abbastanza”.
E vabbè, ma di che mi lamento… Striscia la Notizia e Paperissima Sprint sono sempre i campioni del preserale, vero? Via, allora, il rave party delle marmotte e dei caprioli. O anche dei formichieri e dei koala: siamo in Piemonte, non dimentichiamocelo.
Fermi lì: “Amilcareeee? Sììììì?”&Co. sono un siparietto gustoso, però poi ci vuole il momento serietà. Detto, fatto: “[i]l mondo senza di noi/ è bellissimo”. Ritengo che un “ué, casomai parla per te” sia il commento più adatto, di fronte a cotanta profondità filosofica ed empatica.

Sarà pure pensosa, ma non è profonda

Pertanto, chiudo l’analisi del suddetto carme, salutando i morti che sono “partiti/ da soli/ in camion”, nonostante mi pare fossero stati accatastati gli uni sugli altri, e… e passo a un’altra poesia a caso, da una sezione a caso di Pane del bosco. La fortuna mi ha fatto scegliere questa, inclusa in “Inverno”:

È poca cosa la nostra indecifrabilità nel bosco ermetico,
la schiera dei morti solitari mi segue in fila
lungo lo stretto sentiero, soldati in pigiama,
poi si seminano nei pascoli tra le acacie
e le zolle rovesciate dai cinghiali.
Qui tutto celebra il limite e non si spiega ad altro.
Non ci sono i nostri libri a separare e confortare
la separatezza, non c’è scienza tranne quella
del transito e della libera caduta. La gravità terrestre
è profonda ma non è pensosa.

Ah, ci sono ancora i morti. Mmmh…
Però sono “soldati”, adesso, perciò può essere che l’io lirico si sia perso e sia finito nelle foreste della Zone Rou… naaah, sono soldati “in pigiama”. Oh crap!, ma chi me l’ha fatto fare?! Non se la cavano meglio i versi “mistici”, immancabili: ma se evidentemente c’è la “separatezza” in sé, non serviranno mica i “nostri libri”, per “separare” qualcosa che, mi par di capire, è di suo l’essenza della separazione! Sul fatto poi che questa “separatezza”, a intuito un universale astratto, sia almeno talvolta confortata in qualche modo, non so proprio come commentare: ancora un’antropomorfismo francamente evitabile.
Spendo però due parole positive a proposito di quel “è profonda ma non è pensosa”: chiudendo tutti e due gli occhi è una trovata simpatica, che da sola ci fa meglio disposti nei confronti della silloge. Certo, poi gli occhi li riapriamo e le nostre buone intenzioni vengono lavate via dalle scariche di cazzotti con cui versi liberi e rime (talmente assenti che l’autrice deve essersi impegnata per evitarle) ci colpiscono. Ehi, almeno stavolta l’animale totem è il cinghiale: siamo sicuramente in un alpeggio del Piemonte. O in un bar di Centocelle.

Dai, adesso ci facciamo l’ultimo shottino commentando insieme un altro componimento a caso, poi basta, però, altrimenti ne usciamo brilli e con il QI che s’è perso per strada diversi punti. Siamo in “Primavera”, e ve lo dico io, altrimenti, come prima, non è facile capire la sezione soltanto dal contenuto dei carmi. In questo, infatti, troviamo delle suggestioni matematiche… ehm… in qualche modo marzoline? Guardate

C’è il dolore aritmetico
di quando uno più uno fa tanti
quando ci si incontra come le mosche
con complesse geometrie
per evitare il punto azzerando
acrobaticamente il centro.
Noi sprovvisti della stessa grazia
parliamo attorno senza seminagione.
Ci sono momenti in cui il congedo
fa tornare più pieno
il rumore della vita viva.

Versi liberi, inesistente armonia, implacabile mancanza di iperbati, di sinchisi, di anacoluti, di rime, addirittura di assonanze. Tutto regolare, quindi. Per il resto… aaaah… sì, trovo molto bella l’immagine della mosca, sapete quelle tenere e sudicie mosche pigmee che si mettono a ronzare in vortici sotto i lampadari: parlando di “complesse geometrie”, il loro volo tutto sbandamenti da autotrasportatori tedeschi alcolizzati è l’immagine migliore. Tenera, e certamente primaverile.
Da notare è anche quel “seminagione”, un bel termine ricercato che non stona affatto in un campo stracolmo del loglio di termini ed espressioni talmente comuni che è stato concesso loro un CAP.
Infine, lettori, vogliate bearvi di quel “vita viva”. È fuori da ogni dubbio, l’ultimo verso presenta un fil rouge con la poetica di un’altra grandissima, l’indimenticabile… eh… ah sì, Maria Grazia Calandrone. Il parallelo “vita viva” e “splende la vita, splende come vita” è automatico. Tuttavia, non posso esimermi dal ricordare che un altro poeta di notevole caratura, il sublime Sandro Bondi, fu metaforicamente inchiappettato a sangue da giornali, critici e trasmissioni televisive, quando nell’ode A Silvio [Berlusconi, ovviamente] osò proporre l’allora inedito quinario “vita vitale”. Come cambiano i tempi… e mi sembrava doveroso rendere omaggio a un pioniere, perché se oggi è possibile prendere seriamente “vita viva”, tanto magari da farci su una tesi cazzuta, forse lo dobbiamo anche all’audacia di Sandro Bondi e di altri ignoti coraggiosi. Senza nulla togliere all’importanza intrinseca di Pane del bosco, ci mancherebbe.
Uff, meglio saltare alle conclusioni, altrimenti potreste chiedermi di cosa parla la poesia, e a quel punto non saprei davvero che inventarmi.

Dunque… eh, eh… un bel casotto, vero? In tutta onestà mi sono lasciata andare più del dovuto, la mia ironia e le mie battutacce volgarissime sono in effetti sproporzionate, rispetto alla qualità della silloge. La colpa è mia, non mi sono proprio trattenuta, istigata dalle cavolate delle particolari poesie che ho esaminato con voi.
Intendiamoci, quelle non sono le uniche sciancate, sono anzi molto rappresentative di ciò che si trova in Pane del bosco, nondimeno sarebbe ingiusto distruggere completamente la carriera poetica della Candiani, beffeggiando ogni suo tentativo senza pietà. Vero, nella silloge ci sono carmi che non vanno a parare da nessuna parte, immagini cringe, continue ripetizioni di concetti e di metafore (ad esempio, ce l’ha coi camion, con le “parole”, e insiste con le specie esotiche), pianto e stridor di denti (così mi sento di riassumere la “musicalità” della nostra autrice). Non è però La signorina Nessuno. Cioè, la sensazione che la Candiani “ci creda veramente” è forte, e se questo non basta per elevare Pane del bosco al rango di opera letteraria di prim’ordine, almeno non ci fa sentire essere stati presi per i fondelli, dopo aver chiuso l’ultima sua pagina.
In definitiva: è una dignitosa raccolta Tumblr vecchio stampo, non ci piove. Per chi ha grandi aspettative culturali, è probabile che la silloge non valga la cellulosa (o i bit) di cui è composta. Ma se le aspettative sono basse, se ci si accontenta di un prontuario buono da saccheggiare per farci dei post su Facebook, se ci si accontenta di qualcosa di livello universitario, o semplicemente se ci si accontenta di sorridere un po’, allora direi che Pane del bosco è azzeccato.
Ci sono, confesso, pure delle poesie che potrebbero risultare molto carucce, a una sensibilità diversa dalla mia. E siccome so bene che la mia è soltanto una delle possibili sensibilità, non la migliore né la pietra di paragone, devo proprio concludere augurando sinceramente, a tutti coloro che vorranno soffermarsi sui componimenti di Chandra Candiani, una buona lettura!

Sara

Ciao! Sono la fondatrice del blog letterario "Il pesciolino d'argento", amo profondamente i libri, l'arte e la cultura in generale.

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Una risposta

  1. Sergio Bertoni ha detto:

    Cosa ne penso? Puah. Certo, di solito non adoro (adoro?) come si esprimono oggi gli aspiranti poeti… mah… è poesia questa?