Nella mia voce – David Penco
Non stupirti del fluire veloce
dei nostri istanti
ma assaporane la meraviglia.
[…]
Vorremmo essere un popolo di lettori
Ma noi, che popolo siamo? Di santi? Te prego. Di poeti? Con la Calandrone, tzè! Di navigatori, allora? Di mozzi al servizio dei negrieri, casomai.
Sarebbe ora di lasciar perdere i motti di un povero babbeo del secolo scorso, sentite ammè. Però, però… poeti… uhm… forse un po’? Di sicuro a noi italiani piace scrivere. E sicuramente i nostri padroni ci accuserebbero di andar dietro alla moda della “vanity press”, ma non credo sia del tutto vero. È che per noi, e nonostante tutti i tentativi di farci amare il contrario, la letteratura non è un “prodotto”. Il libro merita rispetto, l’abbiamo in enorme considerazione. Sono convinta che a molti faccia gola non tanto l’idea di vedere il proprio nome in classifica, bensì l’idea di vedere la propria opera in classifica. Ossia: gli italiani inseguono il sogno di creare qualcosa di bello, di profondo, di “spirituale”, qualcosa che si opponga al tempo e che contribuisca a definire l’uomo in quanto “più che animale”. E la poesia, be’, è il culmine del bello. Sì, sì, ha rotto le palle, fa schifo, non si sopporta… si dice così di quando in quando, ma poi… la poesia ha ancora il suo posto. Molti la vedono come una scorciatoia, una roba facile facile, minima spesa e tanta resa: “pochi facinorosi”, per i più è ancora un tesoro da ricercare.
Gli italiani non leggono? E soprattutto non leggono poesia? Sensazionalismi da giornalisti. Gli americani non leggono, o si vantano di leggere schifezze. Gli inglesi sono semianalfabeti. Noi italiani leggiamo, o meglio, vorremmo leggere. Vorremmo leggere libri belli, o almeno decenti. Le curve discendenti, più che delle nostre attitudini, parlano della nostra editoria, ci spiegano che la bella roba… meh, un’altra volta, ora è meglio pubblicare equivalenti cartacei dei Big Mac, eh? Con questa strategia imprenditoriale che la fa da padrona, il risultato è chiaro: niente bei libri sugli scaffali. Però la voglia rimane.
Non posso nemmeno lontanamente proporvi una genuina statistica, tuttavia posso proporvi un’esperienza personale. Ebbene, tra le recensioni più cercate sul vostro blog del cuore figurano Poesie del tempo stretto e Studi sull’amore. Oh sì, sono sorpresa quanto voi. È il nome famoso, dite? Ma dai, chi li conosce a quelli?! No, secondo me si cerca proprio la poesia, ed essendo le suddette due delle poche sillogi “appena sfornate” ad aver ricevuto un minimo di attenzione mediatica, ecco che la curiosità spinge a incontrarle. Poi, come si esce dall’incontro? Ehhhh, quelle non erano il massimo… non brutte brutte, no… ma non il massimo. Perciò, suppongo che dall’incontro si esca con ancora un certo languorino. Insomma, stringi, stringi… c’è qualche “rocher” poetico capace di saziare momentaneamente le esigenze fameliche dello spirito italico?
Pregiudizi? Mai!
M’è arrivata in mano una silloge piccola, piccola, piccola. Si intitola Nella mia voce. Il “mia” suppongo si riferisca all’autore, David Penco. Chi è? Che ne so, nessuno… qualcuno… uno che grida nel deserto? Sapete, trovo sia un bene che il nome non mi dica molto. Sempre perché siamo italiani, ancora ci piace che sulla copertina dei libri compaia enorme il titolo e piccolo il nome dell’autore. Non siamo a Niuiòcche, dove vale il contrario, dove in vendita è la faccia, l’idea è secondaria.
Allora, prima di sentire la voce promessa dal titolo, c’è una presentazione dell’intera silloge, firmata da Alessandro Scarpellini, anche lui a me sconosciuto, confesso. E sono brutale: credo che… credo che sia la parte meno riuscita di Nella mia voce. Non che sia scritta male, tutt’altro, è solo che questa presentazione temo sortisca involontariamente gli effetti che si prefigge di prevenire. Più che anticiparci un poco quel che stiamo per leggere, aumentando la nostra curiosità, sembra quasi che le parole di Scarpellini mettano le mani avanti, cercando di rispondere a una serie di obiezioni. Quali obiezioni? Be’, le nostre, che… non abbiamo… ancora… pronunciato. Sono così netta nel mio giudizio (volutamente esagerato e provocatorio, sia chiaro) perché affermazioni come queste…
Ci si deve lasciar portare altrove, senza superficialmente giudicare e freddamente analizzare; d’altronde la poesia, sostiene J. L. Borges, ha radici magiche […]
Queste poesie, che sovente sono piccoli enigmi filosofici e metafisici, divengono, a un’attenta e nuova lettura, fonti e sorgenti di un’esperienza altra e nuova della vita […]
Ci sono in questa raccolta, spesso punteggiata e costellata da imprevedibili e sorprendenti antitesi, semenze e reminiscenze di una cultura classica […]
… sono dei garbati tentativi di difendere Nella mia voce dalle accuse di essere “amatoriale” e “banale”. A che pro tutto questo, dico io? Come vedremo, non c’è davvero motivo di storcere il naso davanti alla breve raccolta di Penco. Ho una mia teoria, lettori: Scarpellini sa bene che anni di autentiche schifezze pompate a destra e manca come “grande poesia” (ehi, Splendi come vita è stato candidato allo Strega…) hanno lasciato il segno, tanto che ormai il pubblico ha un pregiudizio radicato nei confronti delle sillogi. Già, è che il pubblico vorrebbe leggerne di belle, ma sospetta che al primo colpo ne troverà una brutta. E allora vale la pena di urlare “aspetta, fermati!” a questo pubblico disilluso. Però, dai, non vale davvero la pena: pur comprendendo la spontanea preoccupazione di Scarpellini, ribadisco che i punti chiave della sua presentazione rischiano di rinforzare il pregiudizio. Uhhh, questa roba è talmente penosa che già bisogna avvertire di leggere con calma, di rifletterci su? Pressappoco, ho paura che questo sia ciò che il pinco pallino qualunque sarà incline a pensare.
Penco l’esploratore
Ehi, noi non siamo dei pinchi pallini qualunque, noi riflettiamo già di nostro! Cogliamo dunque le buone intenzioni di Scarpellini e della sua presentazione, ringraziamolo e non lasciamoci mal disporre. Facciamo da noi. Ecco, andiamo al sodo ed esaminiamo con mente vergine le parole autografe di Penco; oh, in fin dei conti l’autore è lui, è lui che conta!
A colpo d’occhio, che c’è nelle prime pagine? Amore e versi liberi, pare. Uhm. E se inforchiamo gli occhiali? Be’, vediamo che l’amore non è quello annacquato, banale, adolescenziale. Non c’è nessuna Giorgia Soleri che fa sforzi per immaginare che diavolo è l’amore. Indubbiamente, Penco parte dalla propria sensibilità, dalla propria esperienza, cercando di scoprire i connotati universali e trascendenti del più classico tema poetico. Già, è un classico. Si può fare un appunto su questo? Non proprio. È vero che ho talvolta espresso il desiderio di incontrare una poesia capace di recuperare un “contatto col mondo”, cioè una poesia che sappia cimentarsi (ancora) con rane, fili d’erba, carne marcia, moti retrogradi dei pianeti… ma questo non implica che la tipica poesia amorosa sia da buttare! Anzi, e non è affatto vero che tutto è già stato detto: l’amore, in fin dei conti, è il doblone piantato nell’albero maestro del Pequod, e fa sempre piacere poter sbirciare nei pensieri dei marinai che si fermano a contemplarla.
Sicuro, molto spesso il tema amoroso, anche proposto come “trascendentale”, è soltanto un passaporto contraffatto con cui egomaniaci di ogni risma tentano di passare i valichi della letteratura. Eh sì, c’è proprio da essere comprensivi con l’introduzione di Scarpellini. Ma non è questo il caso! Appunto, l’ho anticipato, Penco sembra ben convinto di quel che fa; e poi, è assolutamente riduttivo qualificare Nella mia voce come “silloge d’amore”. Sì, è il tema dominante di molti carmi, specialmente nella prima metà del libro, tuttavia ci sono componimenti che sfuggono a una classificazione netta. Credo che si possa parlare di “metafisica”, almeno per alcuni esempi. Senza contare, poi, che nella seconda ideale metà di Nella mia voce troviamo in versi episodi di cronaca e di costume, accanto a temi politici e sociali. Dunque, ribadisco l’ottima impressione, l’autore non butta giù due schizzi, quattro parole in croce. No, il nostro autore esplora: e mi piace un tale atteggiamento, il poeta, quando non è un bluff, ha da essere (anche) un esploratore.
Sì, ma… Penco esplora bene, o si avviluppa nelle liane della giungla? So che vi sentite allarmati, e so che motivo del vostro stato d’animo sono quei versi liberi che ho anticipato. Fatemi chiarire. Ci sono versi di tredici, quattordici sillabe, vero. Ci sono anche molti endecasillabi e settenari. Alcuni canonici, altri no. Insomma, Penco non segue in maniera ferrea le regole secolari della metrica, assodato. Però non va a capo quando gli garba. Ancora, non abbiamo a che fare con la Soleri, c’è una consapevolezza da parte del nostro autore, e la rottura con gli schemi tradizionali, quando si manifesta, è voluta. Stavolta posso dunque parlare propriamente di versi liberi, dando ad essi la dignità che meritano: sì, io sono dichiaratamente una fan della metrica rigorosa, ma i versi liberi sono un caso limite perfettamente valido, sono poesia, punto e basta.
Nondimeno, resta sempre l’incognita del risultato finale, perché i versi liberi sono difficili da gestire. Sarà che sono un caso limite, boh. Se torniamo con la memoria ad Arminio, ci ricordiamo che i suoi carmi, pur non essendo nemmeno lontanamente soleriani, erano un tantino… meh. Nella mia voce che ci propone, lo stesso pastrocchio? No, per niente, devo ammetterlo. E lo ammetto con una certa stupita soddisfazione. Penco è in qualche modo riuscito a compensare gli effetti garantiti dalla metrica tradizionale e invariabilmente persi con l’adozione dei versi liberi. Come c’è riuscito, domandate? Oh lettori, è a quanto pare il momento giusto per esaminare direttamente il testo della silloge. Vi propongo subito la poesia che più mi ha incuriosita. Si incontra dopo poco, ma non subito, e si intitola Inaspettate metamorfosi. Eccola:
Ben salde alle loro radici
le tue betulle d’altura e le mie tamerici.
Pronunciato sembrava il destino.
Ma un rimpianto poetico
piazzato al punto giusto
lo convertì in moda morta
con le sembianze degli anni fuggiti.
Troppo il calore
dalla trasmittanza dei pori
che riuscimmo persino a vedere
una granseola arrampicarsi tra i castagni
e danzatori occitani sulla scogliera.
Non me ne voglia il nostro autore per averlo riportato integralmente, tagliarlo sarebbe stato davvero sciocco.
Ebbene, che cosa mi fa sbilanciare verso un giudizio molto positivo? Cominciamo con un novenario e con un verso di quattordici sillabe (quest’ultimo un ottonario unito a un settenario, forse?). Una scelta pericolosa, di certo non da manuale, eppure l’effetto è molto gradevole. La rima “radici/tamerici”, infatti, è azzeccatissima: raccorda bene i due versi sia dal punto di vista puramente formale, sia dal punto di vista semantico. La lunghezza del secondo verso è dunque superata, perché abbiamo un elemento testuale che aiuta a ritrovare la strada, per così dire. Non c’è affatto pericolo di perdersi, e non siamo tentati di riscrivere mentalmente le parole di Penco facendo di esse una specie di prosa “senza andare a capo”: intuiamo subito che quella è una poesia, che non c’è modo di ridurla a prosa senza cambiare qualcosa di più dei soli “a capo”. Quindi, già tale semplicissima rima ha evitato al nostro autore di far saltare in aria il suo componimento, evento che accade fin troppo spesso quando si maneggiano i versi liberi.
Curare il proprio campo semantico
Ovviamente, non c’è soltanto la rima. Consideriamo anche le allitterazioni (almeno, mi pare siano allitterazioni), presenti in entrambi i versi (“salde alle loro”, “betulle d’altura”): felice è la scelta di concentrarsi sulla lettera “l”, che dà una naturale sensazione di fluidità, di nuovo annullando una possibile cacofonia data dalla posizione insolita degli accenti e dalla gran quantità di sillabe. La seconda allitterazione, in cui compare anche la sillaba “tu”, suggerisce inoltre una “visualizzazione” uditiva del tema significato dal verso. Il suono della “tu”, infatti, si propone come un picco che si erge nella calma data dalle sillabe circostanti. Risultato? Immaginiamo senza alcuno sforzo lo stagliarsi delle betulle e delle colline di cui parla il componimento.
Lettori, non so se sono riuscita a darvi un’idea precisa di ciò che voglio intendere, so bene di non essere né un’esperta di poesia né di fonetica né di… quant’altro. Ma se pure vi siete fatti un’idea vaga, suppongo concordiate con me: Penco ha una sensibilità poetica nient’affatto scontata. Se il nostro autore s’è messo d’impegno a mo’ di ingegnere, o se ha sfruttato inconsapevolmente una “percezione innata”, è un quesito cui non posso rispondere; e non ha nemmeno importanza rispondere, perché in ogni caso Penco ha fatto centro, e in due soli versi è riuscito a definire in maniera chiara la sua poetica.
Non ci fermiamo, con la nostra analisi. I versi introdotti dall’avversativa hanno una sfumatura negativa, forse pessimistica. Uhm, a me pare sia così. E se ho ragione, ancora un bravo all’autore: aver optato per suoni vibranti, fricativi, per termini duri e per quel passato remoto, fa sì che il blocco di versi si correli a quelli introduttivi attraverso una contrapposizione decisa. Di nuovo, un uso intelligente della semantica e della fonetica, tutto l’opposto delle sbrodolate casuali di una “totally amateur” come la Soleri. Molto interessante anche quel “moda morta”, non vi pare? Un’assonanza che costruisce un ossimoro davvero efficace, e il passaggio dall’occlusiva “d” alla vibrante “r” ancora una volta suggerisce foneticamente il decadimento, la decomposizione di cui si sta in effetti parlando.
Uhm, so che avete buttato l’occhio su quella “trasmittanza dei pori”, e siete un po’ in dubbio: un passo falso di Penco? Vi ricordate degli altri miti della poesia contemporanea, del buon Carofiglio (Frank), di Arminio, aridaje della Soleri. Le croste con la forma del Molise, il lavarsi i denti, il ricambio cellulare… eh? Sì, un che di paura viene anche a me se ci ripenso. Ma! Ma Nella mia voce non fa lo stesso effetto, e meno male! Perché la “trasmittanza dei pori” non sembra una cringiata da svalvolati? Secondo me, tutto sta nel contesto in cui si colloca il verso e nelle scelte retoriche del nostro autore. “[T]rasmittanza” mi sembra essere una sineddoche, “la misura per la cosa misurata”, e appunto si parla del “calore” appena sopra; inoltre, i versi successivi hanno molto di onirico, quasi come si manifestasse d’improvviso un’opera di Dalì. Evidentemente, dobbiamo sforzarci per concepire la “trasmittanza dei pori” con il significato scientifico che le è proprio, mentre ci è facile indirizzarci su una strada interpretativa che prevede traslati, stranezze, bizzarrie, deformazioni. Mi pare anche un implicito invito a riflettere sull’assenza di una separazione invalicabile fra puri fenomeni naturali, meccanici, e le esperienze spirituali che di norma giudichiamo “sublimi” o “altro dal mondo”.
Per dirla in maniera diversa, Penco sa quel che fa, e il campo semantico stesso delle espressioni che usa diviene un modo per comunicare con noi. A ulteriore sostegno di quel che affermo, vi propongo un paio di versi, tratti da una poesia precedente a quella che fin qui abbiamo esaminato, intitolata Di noi amo la distanza:
[…]
Ma solo per distinguere la tua figura
stagliata contro il cielo.
[…]
Vi ricordate senz’altro che commentando Arminio mi ero lamentata della sua scelta di usare il termine “universo”, in esaltazione della donna angelicata. Ecco, con questo in mente capite subito dove voglio andare a parare. Penco, nel caso in esame, opta per un classico, immediato e generico “cielo”: scelta corretta, non siamo distratti da un campo semantico tecnico, specifico, che ci incoraggia a “giocare” con l’autore, provando a rispondere alla domanda “che cosa vuole davvero dirci”?; no, andiamo subito sul sicuro, il cielo non è quello considerato dalla scienza, che in fin dei conti usa poco la parola “cielo”, è la casa del divino, è il limite dell’esperienza umana, è il luogo indicato dalle preghiere. È una soluzione forse banale? Be’, bisogna stare attenti a non confondere la banalità con l’adeguatezza: il nuovo, lo stravagante, non è qualcosa di valido per sé, deve essere commisurato al tema principale del testo. Di certo sarebbe innovativo lodare la donna angelo facendo riferimento, che so, alla “pressione di radiazione” delle stelle, ma bisogna tenere in conto che alla pressione di radiazione non associamo particolari idee di grandiosità e di magnificenza. E, di conseguenza, rispetto alla pressione di radiazione non proviamo nessun sentimento del bello, nessun sentimento del sublime, nessun sentimento del mistico (non saprei definire tutto ciò, ma so che intendete ciò di cui parlo).
Un poeta capace deve tenere conto di tali effetti, perché in qualche modo deve essere un domatore dell’anima, dell’anima di ciascun lettore. Ebbene, tener conto di tali effetti comporta, alcune volte, il ricorso a formule sicure e collaudate. Il “cielo” degli antichi, di cui si parla fin dai tempi dei sumeri? Perché no?, se la situazione lo richiede. Ecco allora che Di noi amo la distanza risulta gradevole, è una piccola prova superata; al contrario, “l’universo” arminiano continua a lasciarci una fastidiosa sensazione di “fuori posto”.
Ma postmodernismo è… a posto
Confrontandoci con le immagini “collaudate” di Nella mia voce, ci viene facile giustificare e accettare pienamente gli effettivi momenti di sperimentazione, appunto come quello della “trasmittanza”, o altri che non ho citato, decisamente audaci (la “peristalsi di un amore”, un modo effettivamente poetico, perché diametralmente opposto alla forma ormai comune, di dire “farfalle nello stomaco”). Oh, certo, e della “granseola”, su cui non mi sono soffermata quanto dovuto. Lettori, vi confesso che mi piace molto quell’immagine: è totalmente assurda (la granseola non è il birgo ladro, eh!), e l’assurdità è accentuata pure dal contrapporsi delle associazioni che facciamo (le gambe lunghe della granseola… un ragno… uh, spavento… però il tondeggiare del carapace… granseola, il “granchio cipolla”… qualcosa di buffo allora… una divertente inquietudine?), con l’effetto di provare una sorta di confusione allucinata, ossia la scena che la poesia stessa pare disegnare. Confusione d’amore, proprio dell’atto d’amore, forse? Mah!
Ribadiscono l’allucinazione quei “danzatori occitani” sulla scogliera, che non so voi, ma a me ricordano un po’ le “zingare del deserto” e, ovviamente, i “danzatori bulgari” di Battiato. No, non dico che proprio gli occitani di Penco siano una citazione dotta, dico solo che, ancora una volta, i versi del nostro poeta interagiscono con la memoria e con la sensibilità di chi li legge. A proposito di citazioni, però, ce ne sono davvero nella silloge, alcune direi vaghe, altre più dirette. Di queste ultime, mi sento di riportare qualche caso:
[…]
Ma dominava il nucleo l’eterogenesi dei fini
tramutando noi amanti in prestatori d’istanza
[…]
(Il passo del sogno)
[…]
ma alimentò sottobosco
la linfa del tuo rizoma
[…]
(Le parole mai dette)
Come potete notare, si tratta di riferimenti perlopiù filosofici, abbiamo Wundt e Deleuze (“rizoma” è troppo deleuziano perché sia percepito con l’unica sfumatura botanica). Troviamo però anche un titolo come È stato morto un politico, inequivocabile richiamo a un caso di cronaca nera del 2007, l’omicidio di Gabriele Sandri (la frase effettivamente pronunciata da un collega dell’agente della stradale che uccise Sandri fu “è stato morto un ragazzo”).
Postmodernismo, no? Esatto, e se pensate che ciò sia la prima nota di biasimo per la silloge… vi trattengo. Non sono di certo amica del postmodernismo, ma a parte le mie personali inclinazioni, devo riconoscere che si tratta di un fenomeno culturale perfettamente degno e legittimo. Più di altri si presta ad abusi, perché molti autori wannabe vogliono costruirsi con esso un alibi che li scagioni dall’accusa di essere delle pigre teste d’osso. Cito, cito, cito: di mio non c’è un cacchio, però ehi, sono un postmodernista, mi devi rispettare! Già, va così molte volte. Non sempre, però. E Penco è uno che sta nel “non sempre”. Il suo citazionismo è come teoricamente dovrebbe essere, pacato, sottile, integrato nel contesto. Le espressioni filosofiche, ad esempio, non se ne stanno lì appese, a sbatterci in faccia quanto è colto il nostro autore; no, hanno un significato imprescindibile che concorre a costruire i versi in cui esse si trovano e, ovviamente, il resto della poesia. Poi, poi!, sono anche citazioni: e il fatto che siano citazioni pure ha un senso, esse ancorano i componimenti alla realtà, ci spiegano indirettamente che il nostro autore non scrive (solo) cercando di cogliere “l’eternità”, scrive (anche) nel suo presente, del suo presente e per il suo presente. Pertanto, senza farla troppo lunga, ripeto: nemmeno gli sprazzi postmoderni della raccolta ci fanno pentire di averla sfogliata.
Qualche fastidiosa suggestione
Oh, oh, Nella mia voce è proprio senza macchia, allora! Momento, momento, non esageriamo. Qualcosina che un po’ mi ha fatto storcere il naso c’è. Ad esempio questi versi (ehi, vedo settenari, novenari… yum!), che chiudono Fastidiosa suggestione:
[…]
ma generato un senso
di fastidiosa suggestione
come annusare l’aria
dintorno al vano dei rifiuti
quando, gettato il sacco
e lasciato il pedale,
si chiude la ribalta.
Sono decisamente crudi, terra terra. Il lessico è basso, si nota l’assenza di iperbati, di forme brachilogiche, di eufemismi e di arcaismi, artifici retorici altrimenti attestati nella silloge. Non lo nego, a me ha lasciato un non so che di straniamento, e il dubbio fulmineo che in quel preciso momento il nostro poeta si sia dimenticato… eh, di essere un poeta. Tuttavia, notate che ho precisato: “a me”. Eh sì, perché in sostanza questo appunto è l’espressione di un mio gusto personale e istintivo; più in là non posso andare. Non posso appoggiarmi ai versi suddetti per imbastire un momento di critica scientifica negativa, nei riguardi di Nella mia voce: prima di tutto, perché c’è un adeguamento della forma al contenuto del carme (si canta di un “fastidio”, pertanto…), e poi perché mi viene facilmente da riferirmi a un precedente simile talmente illustre che più non si più.
Be’, be’, forse oso troppo con questo paragone, però voglio ricordarvi che Dante in persona fa dire a san Pietro queste parole…
[…]
fatt’ha del cimitero mio cloaca
del sangue e de la puzza; onde ’l perverso
che cadde di qua su, là giù si placa
[…]
(Commedia, Paradiso, canto XXVII)
… e manca il cassonetto colmo di rifiuti per il solo motivo che ai tempi non li avevano ancora inventati. Quindi, non diamo addosso a Penco per aver “annusato l’aria” fetida, non paragoniamolo nemmeno all’inarrivabile Rovelli. Del pari, non considerate il mio gusto compromesso, ché in effetti pure la terzina dantesca ha da sempre sollevato qualche domanda: insomma, va bene l’invettiva, ma era proprio proprio il caso di introdurre una “cloaca” e una “puzza” in Paradiso? Ecco, allo stesso modo, d’accordo il “fastidio”, però il sacco nero, il pedale, la ribalta… ehm, eh… la mia sensazione permane.
Essi vivono
Va bene, con queste parole, io passo e chiudo. Come, di già? Be’, lettori, non crediate che abbia tagliato corto per noia o per frustrazione. È che Nella mia voce è una piccola silloge, vi avevo avvertiti: trenta poesie, niente di più. Per certo, garanzia di qualità: per esperienza posso dirvi che nel mio settore meno c’è e meglio è. D’altronde, ricordatevi delle centosettanta e passa… “poesie”… della Soleri. E ho detto tutto.
Ebbene, la chiudo qui perché immagino vi siate fatti un’idea della pasta poetica di Penco, e non è bene rovinarvi il piacere di tratteggiare il vostro percorso fra i versi della silloge, qualora vogliate leggerla. Ma dunque vale proprio proprio la pena di leggerla, è imprescindibile? Be’, non è il gioiello della corona, non è il Koh-i-Noor della nostra letteratura, e non lo sarà mai. Affermare il contrario sarebbe mentire, e in effetti rendere un cattivo servizio al nostro autore. Non è il gioiello della corona, tuttavia Nella mia voce è un gioiello: un ninnolo di quelli che compongono i piccoli tesori delle nostre famiglie, di valore in effetti modesto, quando paragonato a ben altri pezzi unici, ma carico di ricchezza per gli occhi giusti, che sanno vedere in esso la fatica spesa per guadagnarlo, e la cura impiegata per poterlo trasmettere agli eredi. Se preferite un’altra metafora, Nella mia voce non farà la storia della letteratura, però è di certo una storia nella letteratura, e come tale merita un’attenzione benevola, se non altro per rincuorare noi stessi con la consapevolezza che la nostra cultura non è ridotta a un cancro informe. I poeti vivono, e sono gli anticorpi che fermeranno la mitosi incontrollabile delle signorine nessuno.
Ah, sicuro, gli anticorpi vanno supportati con un corretto stile di vita. E qui tocca a voi, lettori, dovete tenere uno stile di vita sano, costringendo il vostro cervello a fare attività fisica. Sul vostro blog preferito, potete trovare svariati esercizi spirituali assolutamente adatti allo scopo, e Nella mia voce è soltanto l’ultimo che si aggiunge alla lista. Che ne dite, ci fate un pensierino? Se la risposta è affermativa, nient’altro devo aggiungere, vi basta il mio immancabile e sincero augurio di buona lettura!
Uhm, quasi quasi lo compro…