Versi d’amore erotico per Natalie Zumab – Mario Esposito
[…]
Ma che deficiente
dimenticavo
che sempre
si può
parlare di tutto
senza tabù.
[…]
La signorina Qualcuno
Alla fine è successo. Cioè, insomma, era nell’aria già da un anno, e col continuo deteriorarsi della situazione non ci si poteva aspettare nulla di diverso. Sinceramente, mi fanno un po’ ridere quelli che scendono in piazza urlando slogan, schierandosi apertamente: come se loro potessero cambiare le cose. Non si rendono conto che c’è chi sta a un altro livello, non vedono che le decisioni sono prese altrove, lontano dalla gente qualunque, dalla società civile. E la decisione è arrivata, puntuale. Non vorremmo mai sentire notizie come questa, eppure dobbiamo fare i conti con la realtà: La signorina Nessuno è tra i centotrentacinque libri che potrebbero aggiudicarsi la vittoria del Premio Strega… Poesia.
Ah, ah, avete capito bene: Premio; Strega; Poesia. Poesia.
Ehi, lettori, ma che volete? Giustamente, nel nostro panorama culturale, “in cui la lingua è così impoverita” (parole di Mariangela Gualtieri, che introducono la presentazione del Premio), c’è bisogno di una bussola che ci permetta di riconoscere i “demmerda” anche rispetto alla categoria delle sillogi.
Spero dunque che il comitato… ehm… “scientifico” (il quale sembra per il momento non essersi accorto dell’inquietante presenza) non finisca per cacciare a pedate la nostra amatissima Nessuno. Seria, serissima: voglio vederla vincitrice, anzi, perché ciò mi confermerebbe che non sono ancora completamente rincretinita, e che i miei giudizi sono (almeno un minimo) affidabili. Sì, insomma… Fedeltà… Spatriati…eh? Ci siamo capiti.
Bene, ormai (e aggiungo un “purtroppo”, perché è veramente triste) grazie ai premi e alle classifiche sappiamo cosa NON leggere. Però, non leggere… uhm… non è un’attività. Che facciamo, per impiegare il nostro tempo? Passeggiata salutare? Nah. Qualche investimento per arricchirci? Tzè, ma va’. Facciamo nuove amicizie? Oh cielo, no, che diavolo! Eh, mi tocca cercare qualcosa da leggere. Già che abbiamo toccato l’argomento… poesia… dunque… vediamo: ho qualcosa per le mani? In effetti sì.
Toh!, una nuova silloge. Speriamo bene. Come si intitola? Versi d’amore erotico per Natalie Zumab. Ahhhh, no! “Amore”, di nuovo? “Amore erotico”? Oh cavolazzo, mi ricorda un titolo del (non tanto) buon Barbascura X, Saggio erotico sulla fine del mondo. La vedo nera, nerissima: Mario Esposito, l’ennesimo “nonsochi”, sbrodolerà a destra e a manca delle cringiate terrificanti su una supermodella o roba del genere, già me lo sento. Natalie Zumab: chi cacchio è?
Va be’, facciamoci coraggio e leggiamo questa raccolta. Oh, c’è una nota introduttiva:
Il Natalizumab […] è un anticorpo monoclonale, un farmaco per la cura della Sclerosi Multipla […].
Eh? Cosa? Frena, frena, lettori. Mi sa che ho sbagliato. Neanche il tempo di incontrare una poesia, e già trovo una finezza. Natalizumab: Natalie Zumab. Ma, ma… è un’ideona! Cioè, a prescindere dall’effettivo contenuto della silloge, dopo aver letto la noterella sfido chiunque a dubitare che Mario Esposito abbia l’animo del creativo. Dove noi vediamo soltanto uno di quei mostruosi nomi che gli scienziologi coniano per facilitarsi la vita, il nostro autore vede un’occasione per imbastire un’opera. Per noi, robaccia liquida in boccetta; per lui, un personaggio che ha già una storia. Bello, davvero. A questo punto, poi, è evidente che anche l’amore erotico del titolo nasconde delle sorprese. Credo di arrivarci da sola: il Natalizumab può essere un salvavita, e come si fa a non amare ciò che può salvarti la vita? Ecco, “erotico”… sì, su questo ho meno certezze, ma immagino che sia (anche) una specie di scudisciata a tutte quelle sedicenti opere “sexy” e “scandalose” che spuntano come funghi ultimamente. Sapete, non tanto le “sfumature” di questo o quel colore: no, quelle opere che si presentano struggenti, profonde, feroci… quelle scritte dalle signorine nessuno, appunto. Vedremo se sarà così, ma per il momento sono piacevolmente sorpresa.
Entriamo nel vivo, dunque. Prima poesia, brevissima. Si intitola Nascita di un amore licenzioso:
Il nostro amore è nato lì,
in una sala
d’ospedale.
Mia porno-Natalie.
Facciamo il nostro solito giochetto. Abbiamo un novenario atipico, con accenti secondari di seconda, di quarta e di sesta; un quinario; un quadrisillabo; un settenario. Credo che il nostro autore conosca la metrica, e non mi sento affatto di dire che va a capo casualmente. Non c’è lo spirito della Soleri, possiamo stare tranquilli; nondimeno, Esposito si prende una certa libertà. È la libertà del poeta, quella che ci piace, oppure è la libertà dell’arruffone?
Per rispondere, è sufficiente considerare la rima che unisce il primo e l’ultimo verso. Non soltanto è una rima ossitona e cara (“Natalie” non è un nome italiano), è una scelta stilistica che crea un bell’effetto, anche visivamente: mi dà la sensazione che il carme sia una specie di noce, con una scorza e con un cuore. Sorprendentemente, la scorza esterna è l’immagine più fantasiosa, quella in cui si concentra lo sforzo retorico. Ci sono l’amore e la donna angelicata: uhm, strano, ce li aspetteremmo nel cuore, no? Sono cose importanti. E invece no, al centro della poesia ci sono due versi asciutti, con un lessico comune; e l’immagine che riferiscono è un puro fotogramma, ahimè, della nostra quotidianità. Sarà mica che l’autore vuol comunicarci che è la fredda realtà ad essere davvero importante? Vuol forse dirci che sotto le nostre sovrastrutture archetipiche, artistiche, culturali, scorre sempre la linfa di una materialità insensibile (cioè che non prova sentimenti) e indifferente? Non so, ma il semplice fatto che la poesia mi suggerisca simili domande, be’… testimonia a favore di Esposito e delle sue capacità.
Come ultima osservazione in proposito, mi garba molto quella simmetria fra “amore” del primo verso e “porno” dell’ultimo. Assolutamente in linea con il tema della raccolta e, ancora una volta, un bell’esempio di cura formale da parte del nostro autore, il quale ci guida discretamente nell’elaborazione di connessioni concettuali e di possibili interpretazioni.
Ehi, mi piace, è una poesia sagace!
Continuiamo l’analisi occupandoci della seconda poesia, dal titolo La posizione più comoda:
È quella sulla poltrona
che più si confà
all’amore
Mia viziosa lettrice, vizioso
lettore.
È meglio di un sofà.
(e di un lettone).
È più sofisticata e si fa meglio
l’amore.
È lì
Natalie
che una
volta ogni mese
sorbisco l’infusione.
Questo componimento ha una nota al primo verso:
La somministrazione di Natalizumab avviene su una poltrona dotata di poggia-testa e poggia-gambe regolabili.
Sappiamo che le battute non vanno spiegate, e così non andrebbero spiegati nemmeno i riferimenti. Di norma, almeno. In questo caso, però, Esposito ha fatto bene a istruirci: il protocollo di cura per la sclerosi multipla non è esattamente cultura generale, e se non avessimo a portata di mano una sorta di “dizionarietto”, uhm, seguiremmo il nostro senso di spaesamento e finiremmo per abbandonare la silloge in quattro e quattr’otto.
Voglio inoltre farvi notare che la nota a pie’ di pagina non è semplicemente un collegamento diretto con la realtà, una fune di sicurezza. È ancora una chiave, in quest’ottica del tutto interna alla poesia, che ci consente di aprire le nostre possibilità interpretative. Ponetevi questa domanda: va bene che si assume il Natalizumab seduti, e quindi c’entra una poltrona… ma è proprio necessario specificare che ha un poggiatesta e un poggiagambe? Regolabili? Se è solo per avere un quadro realistico, no, non serve. Però, se ci pensiamo… se abbiamo una mente un po’ “trasgry”… tali dettagli ci fanno venire in mente… non so… quelle suppellettili che aiutano a infiammare la vita di coppia, come l’altalena dell’amore (per noi borghesucci) o la “sedia dell’amore di Edoardo VII” (per i re). E quella che abbiamo tra le mani è una raccolta di versi d’amore “erotico”, giusto?
D’accordo, a dirla tutta non so quanto l’autore abbia tenuto conto della mia associazione: in altre parole, non posso essere certa che la menzione del poggiatesta e del poggiagambe abbia uno scopo “metainformativo”. Nondimeno… chi se ne frega! Ma sì, che l’autore l’abbia voluto oppure no, funziona lo stesso e non si tratta di una macchia che istintivamente notiamo e senz’appello giudichiamo fuori luogo.
Basta, passiamo alla poesia vera e propria, eh? I versi sono… be’, sono sostanzialmente come quelli che abbiamo già discusso. La libertà dalle costrizioni dei tradizionali schemi metrici non viene meno, e va bene così. La tecnica si deve imparare, o almeno deve essere nota nei suoi elementi generali; tuttavia è possibile, anzi è spesso necessario, “aggiustarla” perché si adatti al progetto che abbiamo in mente, alle nostre “mani”, e… be’, alle nostre mani che provano a realizzare il progetto. Esposito, suppongo, ha trovato la variazione giusta della tecnica: pertanto, credo non sia fuori dal mondo parlare di “poetica” della silloge, e non soltanto delle “poesie” della stessa. Insomma, per dirla tutta, se il nostro autore ha ancora della strada da percorrere, uhm, immagino non sia troppo lunga, prima che possa giungere a una compiuta identità artistica.
Sicuramente, nella poetica di Esposito hanno un peso notevole rime e assonanze. “[C]onfà/sofà”, “amore/lettore/lettone”, “lettone/amore/infusione”, “sofà/sofisticata/si fa”. Sono accostamenti abbastanza originali; occhei, “originali” è un parolone, ma d’altro canto è praticamente impossibile tirare fuori dal cilindro una rima che mai sia stata tentata in quasi un millennio di letteratura italiana. Nah, comunque il criterio dell’originalità lascia il tempo che trova, è meglio valutare se le rime funzionano, cioè se sono bene integrate nella struttura del componimento, se lo arricchiscono dal punto di vista sia formale sia semantico. Scontato: sì, il nostro autore conferma di sapere il fatto suo. Le parti tematiche della poesia sono ben legate dalle rime e dalle assonanze, le quali però si mantengono distanti da una prevedibile sequenza ordinata: abbiamo una rima alternata con “amore/lettore”, ma per trovare il compagno di “confà” dobbiamo passare per tre versi. Tale rottura della regolarità non può proprio dirsi un difetto del carme, perché il tono generale è ironico, allusivo e scherzoso, di per sé poco indicato all’inquadramento marziale o alla solennità mistica che suggeriscono schemi di rime più classici.
Anche il tipo di rima merita una riflessione. Ancora “confà/sofà”: è una coppia “dilatata”, come abbiamo notato, però la distanza non allunga affatto la percezione che abbiamo del carme. Il motivo? Be’, è di nuovo una rima ossitona, e all’orecchio dà pressappoco l’idea di un picchiettare: “tà, tà, tà, tà”, qualcosa del genere. È facile dunque passare a suggestioni che riguardano la rapidità, la… uh… frizzantezza… il battito accelerato del cuore. Insomma, ci ritroviamo spontaneamente nel campo semantico dell’aspettativa smaniosa, perfino dell’impazienza direi. Perché no? Ci sta molto bene, si parla di fare l’amore in posizioni strane, goduriose, e… eh, parallelamente, si parla in effetti di ricevere una dose del caro farmaco salvavita. Non solo “confà/sofà”: abbiamo un intero verso, “[è] lì”, che rinforza la sensazione di trepidante impazienza. Trisillabo minimale, tronco e con due accenti in conflitto: una rarità impazzita che non vorrei vedere altrove, ma che in questo caso è adattissima. Apre un’ideale seconda parte del componimento, quella in cui l’attesa evapora perché sopraggiunge l’effettiva esperienza. Si ripresenta la rima cara “lì/Natalie” (stavolta pure baciata), il culmine ideale della smania… uhm, direi dell’eccitazione addirittura, considerando il contesto… e poi i versi si fanno piani, le sillabe sono ampie, abbondano le “o” e le “u”, che smorzano definitivamente l’iperattività dell’io poetico.
Un coglione che si lava i denti, o forse no
Questo a proposito della fonetica e degli artifici retorici. In tutta onestà, non ritengo necessario sostenere il mio commento con ulteriori esempi tratti dalla raccolta: il metodo di composizione seguito da Esposito si mantiene coerente dall’inizio alla fine della silloge, e l’attenzione del nostro autore per le figure di dizione, di elocuzione e costruzione resta sempre alta. Direi perciò di chiacchierare un po’ a proposito del lessico di Versi d’amore erotico per Natalie Zumab.
Ci sono le parolacce. “[C]oglione”, “mignotta”… “sesso”, “porno”, che per qualcuno sono delle brutte parole… ci siamo capiti, ecco. Non va bene? Non so, voi che dite, “merda” e “culo” dovrebbero essere censurati, tolti dalle future edizioni della Commedia?
Immagino abbiate intuito la mia opinione. Ripeto per l’ennesima volta: la silloge di Esposito è (anche) pop e ironica, pertanto un registro perlopiù basso, e in certi casi apertamente volgare, è non solo accettabile, bensì è auspicabile. Trovare occorrenze di “mignotta” e amici fa capire che il poeta sceglie con cognizione di causa da un vocabolario personale, tutt’altro che povero. Non è che Esposito parla come mangia perché ha sempre avuto la bocca piena e non ha mai imparato la lingua degli uomini: parla come mangia, talvolta, perché in quel punto ci vuole, eccheccazzo! Ad esempio, recitate mentalmente questi versi:
[…]
Sono un coglione a cui è capitata una sventura
che è stata l’inizio di una grande avventura.
[…]
Siate sinceri, potremmo noi pensare di “correggerli” sostituendo a “coglione” qualcosa come “stupido”, o “idiota”? O addirittura “deficiente”, che pure compare altrove? No, nella poesia da cui ho tratto il brano, “coglione” è il termine più adatto, perché il nostro poeta sta mettendo in versi l’esperienza della malattia, il fatto di essere “finito in ospedale”. Non sta facendo una descrizione scientifica, e neppure si tratta di un’autovalutazione, del tipo “toh, che scemo che sono” (tema di un’altra poesia, appunto quella in cui viene usato “deficiente”, e da cui ho preso in prestito la citazione iniziale). No, Esposito sta considerando il punto di vista esterno, del mondo, sulla sclerosi: e il mondo non è tenero con i malati, no? Non ha pietà, sono tutti spazzatura biologica, sono dei… dei “coglioni”, appunto. Oltretutto, apprezzo l’amaro contrasto con l’innocenza fanciullesca de Il signor Bonaventura, che mi pare si possa facilmente richiamare alla mente aiutati dalla rima baciata “sventura/avventura”.
Ebbene, vi è chiaro: è la forza espressiva di un insulto volgare e apertamente violento come “coglione” che serve al nostro autore. Il carme è profondo, emotivo, e idealmente dovrebbe suscitare in chi lo legge uno slancio empatico misto a quella sorta di amarezza che si accompagna a pensieri fatalistici… uhm, fatalistici… anche solo realistici, eh! Quando la poesia si presenta più arguta, direi un tantino cervellotica, allora è benvenuto un registro (semi)alto, più raffinato: “sofà”, “confà”, “vizioso” (i volgarotti dicono “porcello”, “zozzo”, vero?), che abbiamo già incontrato, tra l’altro racchiusi in una spigliata apostrofe. L’effetto, ovviamente, è ancora comico, però associato a un certo amaro ottimismo. Alternanza fra durezza dei fatti e forza d’animo che riesce a resistere con ironia, dunque? Detto, fatto, ci costruiamo una silloge: se si ha studiato un minimo, come evidentemente è il caso di Esposito, si intuisce al volo quando ci vuole un “coglione” e quando ci vuole un “confà”. Se invece la teoria non s’è mai vista nemmeno col binocolo… eh, a quanto pare si può finire a concorrere per la vittoria di premi letterari.
Sempre a proposito dello stile di Esposito, c’è ancora una poesia che riporto integralmente, perché mi dà lo spunto per approfondire un’opinione che ho espresso ormai tanto tempo fa. Il titolo è Notte Nanà:
Potrei lavarmi i denti
e andarmene a dormire
e invece resto qui con in bocca il sapore
di un sacco di cose da dire
cose da dire adesso e qui
prima che finisca il lunedì
cose che non si possono dire
e che a fatica sto cercando di dire
ma d’altronde è così
pensate ai versi affaticati e penosi di chi fa l’amore.
Buon lunedì, Natalie.
Ahhh, numi!, la vedete, vero? Eccola lì quella fottuta igiene orale! Ma com’è che ha colonizzato l’arte poetica italica?
Uhm, calma. Con Arminio mi ero prima spaventata e poi spazientita, ma ora… uhm… uhm, uhm, uhm. Sapete che c’è? Quel “[p]otrei lavarmi i denti” non mi sembra così fuori luogo. Anzi. No, direi che va bene, tutto sommato. Ehm, per quale motivo? Cioè, là no e qui sì? Due pesi e due misure?
La soluzione sta nel contesto. In Studi sull’amore, a lavarsi i denti era la donna angelicata, ed ecco il guaio. La donna angelicata è una figura tradizionale, in sé ben definita: ha caratteristiche sovrumane, in special modo sono le qualità morali e comportamentali ad essere presentate in grado elevatissimo, senza macchia. In conformità, neanche a dirlo, lo stile da adottare è aulico, ricercato. Ora, il poeta può immediatamente seguire le regole e costruire la propria donna angelicata: nessun problema, tutto va liscio. Può però anche optare per una rottura con la tradizione, ossia può rifiutare la figura tipica, polemizzando sulla sua definizione, sulla sua funzione, sulla sua attualità, o che so io. Tuttavia, se il poeta si decide per questa seconda via, deve considerare che ha sostanzialmente solo due modi per incamminarsi in sicurezza: o mantiene lo stile e rovescia le caratteristiche della donna, oppure mantiene le eccelse qualità della donna e utilizza uno stile basso, comico. Comprendete da soli il motivo: è comunque necessario riferirsi alla tradizione che pure si vuol scardinare, perciò deve esserci un punto di contatto immediatamente riconoscibile. Insomma, se voglio parodiare Topolino, non posso inventarmi una storiella su un comodino depresso che ha la erre moscia, perché un tale soggetto non ha nulla di immediatamente riconducibile a Topolino.
Ora, va da sé, la donna arminiana che si lava i denti è… è una donna che si lava i denti! Vero è che si tratta di un “abbassamento”, non è una Beatrice che conduce al Paradiso, ma se tale “downgrade” è coerentemente accompagnato da uno stile comune, dov’è il nesso con la teoria tradizionale? Arminio avrebbe fatto meglio o a usare paroloni, descrivendo però un atto di igiene orale, oppure avrebbe dovuto scrivere esattamente come ha scritto, con un lessico quotidiano, cantando però di… boh, di una grazia mistica della sua donna, qualcosa del genere.
Va bene, torniamo a Esposito. Che fa il nostro autore? Natalie Zumab è la donna angelicata, sappiamo: e in tutta la silloge viene rappresentata come tale, le si attribuiscono direttamente o implicitamente qualità fenomenali, ha un carisma irresistibile che l’io poetico non può respingere, è sempre associata all’amore (ideale e carnale: nessuna contraddizione, entrambi sono comunque positivi, “desiderabili”). La deformazione rispetto alle regole accettate sta nel fatto che Natalie è un oggetto freddo e insensibile: l’antropomorfizzazione è in effetti il mezzo principale con cui si manifesta il rifiuto della tradizione, il ripensamento, la parodia. Non solo, sia chiaro, ci sono altresì momenti in cui il rovesciamento è tutto sulle spalle dello stile: in un carme, ad esempio, Natalie è apostrofata con “bottanazza” “zozza e bonazza” “vaccazza”. Bene, ma ciò vien dopo che la stessa è protagonista di una lode sulle sue doti salvifiche, lode in cui è chiamata “Amore”. Quindi, Natalie Zumab resta in effetti di per sé concepita come altissima, ottima e venerabile. L’obiettivo è centrato, dunque.
Il “lavarsi i denti”, che ci poteva scandalizzare, è a questo punto perfettamente accettabile, perché, come possiamo notare, è riferito soltanto all’io poetico, che non ha affatto una definizione rigida e codificata, al contrario della donna-angelo. L’io poetico è in fin dei conti la sensibilità del poeta e la sua esperienza; e il poeta è figlio del suo tempo, ovviamente. Petrarca non si lavava i denti (almeno, non come facciamo noi), pertanto non ci aspettiamo di trovare un simile riferimento nel Canzoniere; ma Esposito i denti li lava, al pari nostro, e quindi non ci stupisce affatto che un tale microscopico pezzo di esperienza possa far parte di un componimento.
Non so se le mie parole sono sufficientemente chiare, né ho la certezza che la mia analisi sia davvero corretta; nondimeno credo vi siate fatti un’idea, concordando con me almeno a grandi linee. Se non altro, immagino che anche voi giudichiate gradevole la poesia di Esposito. Anche per quella semplice epifora costruita su “dire”. Difficile supporre che il nostro autore abbia smarrito il dizionario dei sinonimi: no, è ancora una volta una precisa scelta retorica, molto efficace nel trasmettere le “parole che non vengono” (è in effetti il tema cantato), una specie di balbettio. Accoppiato alle rime tronche, evidentemente amatissime da Esposito, crea un bell’effetto, molto sul pezzo.
Approfittando di queste ultime osservazioni, mi va di concludere il discorso sulla forma di Versi d’amore erotico per Natalie Zumab facendovi notare che la raccolta sfrutta pure lo spazio fisico, per riuscire a comunicare un significato, o una suggestione. Si tratta di espedienti semplicissimi, riguardanti soprattutto la disposizione tipografica di singoli versi o di intere poesie. Ad esempio, nell’ultima sezione, intitolata La vita dopo di te, i componimenti si fanno brevissimi e… quasi appoggiati al margine inferiore delle pagine. Un’ottima idea, che realizza appieno il titolo (anch’esso spostato verso il limite inferiore del foglio), suggerendoci una dilatazione potenzialmente infinita della storia raccontata dalla silloge. Tappe sempre più lontane, sempre più piccole, là sull’orizzonte; oppure, dei puntini di sospensione che, effettivamente, racchiudono in sé parole, parole e parole.
La poesia aiuta a fare amicizia?
Be’, lettori, detta così è poca cosa, è meglio leggere la silloge e toccare con mano, lo ammetto.
D’accordo, commentiamo adesso la poetica in senso più ampio, vi va? A dire il vero non è che abbia poi tanto da discutere, su questo argomento. Dovrebbe essere chiaro, ma in ogni caso specifico: Mario Esposito ha la sclerosi multipla. E… e basta. Potremmo aprire un simposio e ragionare per un sacco di tempo, cercando di capire se una seria malattia sia una marcia in più, in materia di arte. Non so. Però credo che in effetti la sclerosi non sia come i classici raggi gamma che danno i superpoteri: secondo me, Mario Esposito è nato con una forma congenita di sensibilità poetica, sensibilità quasi certamente affinata con studi sistematici. La sclerosi, meh, diciamo che è stata un’occasione, ecco. Magari il nostro autore ne avrebbe fatto volentieri a meno, nondimeno è stata quel colpo di (s)fortuna che ha consentito alla personalità artistica di mettersi alla prova. La vedo come una specie di marmo che le mani invisibili, intellettive, di Esposito hanno smussato e trasformato in una forma per noi da apprezzare.
Una bella cosa, tutto sommato, non vi pare? Ecco, pure sotto questo aspetto direi che abbiamo una gran bella prova di poesia. Sempre a proposito de La signorina Nessuno, che ormai in materia è il mio zero Kelvin di riferimento, ricordate la mia più grande lamentela: non c’era un singolo componimento che trasmettesse un’autentica passione, tutto era robotico, superficiale. Un’accozzaglia senz’anima. Anche a prescindere dalla forma. Versi d’amore erotico per Natalie Zumab è tutta un’altra storia. Riusciamo effettivamente a simpatizzare per il nostro poeta, e appunto non solo perché guidati dai suoni che ha scaltramente scelto. Sentiamo vive le emozioni di Esposito: qua un momento di paura, là ce n’è uno di rabbia, ecco lo sconforto, ecco l’impazienza. E la speranzosa contentezza, la serena accettazione, la forza di volontà, un umanissimo “chi se ne frega, dopotutto”. In ciò si concreta l’universalità che dovrebbe avere un messaggio poetico: la singolare emotività del nostro autore è efficacemente comunicata e, comunicandosi, si trascende, si “adatta” a ciascuno di noi. Non ci è difficile terminare una sequela di versi e sentire che Esposito, be’, ha provato quel genere di cose; ehi!, è poi immediato ricordarsi che anche noi, magari in quell’altra circostanza, con quelle altre persone, ci siamo sentiti proprio in quel modo.
È una sorta di viaggio interiore che la poesia, quando è buona poesia, riesce sempre a mettere in moto nella nostra anima. Ma è anche un “fare amicizia”, se me lo concedete. Sì, perché lo slancio empatico è inevitabile, leggendo la silloge, nondimeno è inevitabile pure chiudere le sue pagine riflettendo sul fatto di non essere mai stati soli. Senza che vi sia alcuna manifestazione di narcisismo né di prepotenza, la personalità di Esposito (almeno, una parte di essa, che però non ritengo una parte trascurabile) emerge gradualmente, mantenendosi ben delineata e distinta. Quasi senza accorgercene, ci troviamo accanto un compagno di lettura, la cui presenza è ben accetta e per nulla posticcia.
Ah, ma può darsi vi sia venuto il dubbio che il Mario Esposito “percepibile” attraverso la raccolta sia inevitabilmente plasmato dalla sclerosi, e definito rispetto a essa… nah, state tranquilli. Già soltanto i riferimenti, sia alti sia pop, sparsi qua e là nei vari carmi (da Eraclito a Salomé di Bryant, passando per Gainsbourg) ci permettono di costruire nella nostra mente l’immagine di un uomo completo e autonomo, colto e giocoso, niente affatto un inerme sostrato per la malattia o, peggio ancora, un piagnone ossessivo. Macché! Casomai, dedicando un po’ di riflessioni alla figura (meta)poetica del nostro autore, riusciamo in maniera naturale a inquadrare la sclerosi (l’ho anticipato) come un semplice accidente, un tassello di una storia; un tassello importante, magari, ma un tassello solo, non la storia tutta. È anche, in un certo senso, un messaggio di speranza, non trovate? Non poi troppo evidente, dopotutto: e proprio per questo, mi sa, ancor più incisivo e profondo.
Ebbene, la poesia è uno strumento con cui cerchiamo di cambiare il mondo, lasciando al contempo una traccia del nostro passaggio, dicono alcuni? Allora converrete con me che Versi d’amore erotico per Natalie Zumab merita senza subbio la qualifica di “poesia”. Ah, sicuro, domani ci sarà ancora la guerra e la malattia, e il mondo sarà quello che lasceremo coricandoci stanotte; però, solo perché il nostro punto di vista è eccessivamente ampio. Leggiamo la silloge, e prendiamo una lente d’ingrandimento: ehi, siamo noi, quelli! Dei puntini minuscoli, ma pur sempre parte del mondo: e la lettura ci ha soddisfatti. Ci sentiamo… sì, dai, ci sentiamo meglio. Qualcosina del mondo, quindi, è cambiata davvero.
Però, da assaporare in solitudine
Io termino qui la recensione. Sapete, siamo alle solite, quando un libro è bello (e non mi viene un altro aggettivo, scusate) non c’è molto che si possa ricamare attorno ad esso, senza che sopraggiunga la sgradevole sensazione di star “rovinando la composizione”. In altre parole, i libri belli parlano per sé, sono quelli orrendi che richiedono parole su parole su parole (è un tentativo di far fronte alla loro bruttezza, in fin dei conti). E poi, chiaro, Versi d’amore erotico per Natalie Zumab è pur sempre una silloge, di suo breve: mica volete che riporti tutti i carmi, no? A parte che Esposito non sarebbe contento, qualcosa mi suggerisce che nemmeno voi sareste contenti: le poesie vanno assaporate in solitudine, di sicuro senza una voce guida che pasticci con i sentimenti che dovreste provare. Li proverete per conto vostro, nessun dubbio.
Be’, ora concedetemi di tornare per un attimo al punto di partenza, devo aggiungere un paio di cosette alla mia crudele introduzione. Questa silloge non vincerà il Premio Strega Poesia, ottobre prossimo venturo non affannatevi a cercarla nella graduatoria finale. Tuttavia, così dicendo sono probabilmente un po’ disonesta: è vero che non c’è, ma secondo il regolamento non avrebbe potuto esserci, perché, da quel che ho capito, è stata pubblicata dopo i termini utili per l’eventuale candidatura. Mi preme inoltre di farvi notare che l’editore è comunque presente tra i papabili (uhm, effettivamente tutti gli editori italiani con qualche poesia in tasca hanno potuto… dovuto?… partecipare) con un’altra opera, Amuleti, di Lorenzo Pataro; ehi, se è buona quanto questa (niente saccio, non l’ho letta, non chiedete), faccio i miei in bocca al lupo, immaginando che, in barba ai miei borbottii da blogger disillusa, possa essere una soddisfazione veder ripagato il proprio lavoro con un riconoscimento prestigioso. Infine, si sa mai, può darsi che il Premio Strega Poesia vada oltre la prima edizione, e in tal caso, per il 2024, chissà, Natalie Zumab potrebbe… potrebbe…
Ah, ma andiamo, tutto ciò che importa, del resto? Io rimango inguaribilmente disillusa, e perciò lo ribadisco senza riserve: non sono i premi a dirci che cosa merita, anzi è già tanto se oggigiorno riescono a farci capire che cosa non merita. Voi, lettori, fregatevene, e datemi retta, cercate da soli le gemme da custodire nella vostra cassaforte del pensiero. Al limite, quando volete una mano a setacciare, io ci sono. Se poi vi fidate (come avete sempre fatto, smack!, vi voglio bene!), allora sappiate che Versi d’amore erotico per Natalie Zumab non è uno zircone, è un caratino… ino… ino… di puro diamante. Sentite a me, senza indugi indossatelo; che poi vale “leggetelo”. Lo farete? Ma sì! E dunque sono obbligata ad augurarvi una buona lettura!