Buonvino tra amore e morte – Walter Veltroni
Buonvino avrebbe voluto succhiare le dita di Veronica […].
Bioparco!, ci risiamo…
Il Maestro del giallo non va mai in vacanza! Guardatevi, voi, flaccidoni miserabili proletari, lì al mare spalmati con le chiappe al sole e un romanzo nel cuore: chi dovete ringraziare per il vostro relax, eh? Dite il nome, ditelo! Walter, Walter, Walter! Walter Veltroni! Sì, è lui, è lui che sfonda con un calcio la porta della cabina in cui vi state agghindando per la spiaggia; è lui che tira fuori il bazooka e spara nella vostra ridicola borsa mare il giallo che vi intripperà per tutte le ferie: Buonvino tra amore e morte! Dite grazie, dite grazie e venerate il Maestro, o andate all’inferno!
Oh, yeah!, non vedo l’ora di gustarmi questo quarto capitolo della seg… della saga di Villa Borghese. Lettori, avevamo lasciato il nostro bellissimo commissario Buonvino vittima di un agguato: o meglio, non lui, una persona a lui vicina, proprio la neosposa Veronica Viganò, e proprio prima che l’eroe potesse farsela in maniera pura e senza peccato (in maniera impura e con peccato se l’era già fatta un sacco di volte). Cliffhanger coi fiocchi in C’è un cadavere al Bioparco, quindi, capirete, le mie aspettative sono altissime per Buonvino tra amore e morte. Cioè, ma guardate già solo il titolo, guardatelo! Che tensione, che tostaggine, sento l’adrenalina di un James Bond con Pierce Brosnan, uao.
Dunque, “è stata morta” la Viganò. Uhm, no, non proprio, è solo in coma. Mentre la poveretta si trova in terapia intensiva, il killer è ancora a piede libero e inoltre, per via del coinvolgimento personale di Buonvino, il caso viene tolto al nostro commissario per essere affidato a un collega, tale Dianti. Uh, capite bene che è una situazione inacettabile. E, per l’appunto, Giovanni “Hugh Grant” Buonvino non se ne sta fermo e impotente, con grande coraggio lui… se ne sta fermo crogiolandosi nella disperazione, e ammazza il tempo riguardando sul suo Iphone alcuni video girati in compagnia di Veronica, poco prima del matrimonio. Eh? Che c’è? Ho detto che non se ne sta “fermo e impotente”: se ne sta fermo, sì, ma non è impotente, perché credo che con quei video ci faccia anche le cosacce, conoscendo il soggetto.
Va be’, volete sapere cosa? In effetti il cazzeggio del nostro uomo non è proprio una perdita di tempo, perché mentre si smanetta guardando i video, si accorge che spesso compare sullo sfondo… ah, ci risiamo… spesso compare un individuo, lo stesso individuo che è presente pure in un filmato del matrimonio. Accidenti, qualcosa non quadra, pare proprio che fosse alla cerimonia anche se non era stato invitato da nessuno. Ve lo dico lettori, quel tipo non mi convince.
Occhei, sì, insomma, la storia della Viganò è un bel problema, però secondo me è un problema più grosso la lieve apatia di Buonvino. Deve aver pensato lo stesso pure Veltroni, e infatti ecco che così, de botto, senza senso, compare un nuova sottotrama: una magagna fresca fresca su cui la squadra deve lavorare, magari coinvolgendo anche un po’ Buonvino, eh? Che ne dici, bel commissario? Ti va?
Meh, gli va un po’ e un po’, partecipa con poco entusiasmo. E sì che il caso sembra gustoso: a piazza Siena è stato ritrovato il cadavere di un barbone, il cui petto è stato crivellato con “geometrica precisione”. Unico indizio lasciato sul luogo del delitto è un disco di Enrico Caruso, abbandonato proprio accanto alla vittima. Ehi, nessun problema, grazie alle impronte digitali, gli sbirri riescono subito a scoprire l’identità della vittima, che è… non ci crederete, lui è… ta-dah: Giorgio Caruso. E chi cacchio è?! Per noi, nessuno, per la fantasia di Veltroni è il figlio di… no, macché di Enrico… di Pietro Caruso, questore di Roma nel 1944, fucilato anche lui proprio a piazza Siena. Com’è, come non è, alla fine la squadra di subumani di Villa Borghese riesce a ricomporre l’enigma e a capire cosa è successo al barbone. Pur non avendo combinato praticamente un cazzo, il caso era il diversivo che serviva a Buonvino per sbloccarsi, e toh!, anche lui riesce a risolvere il tentato omicidio di sua moglie. Eggià, il nostro eroe aveva solo bisogno di vedere i suoi uomini all’opera, per riuscire a far comparire nella sua questione personale quel deus ex machina necessario a sbrogliare la matassa.
E così, Buonvino può mettere altre due tacche sulla sua cintura, e mi sa che ne arriverà pure una terza, perché Veronica, alla fine… ops, zitta, zitta, niente spoiler!
Bene, questa è la trama. Vi piace, no? Ehi, piano, piano! D’accordo, d’accordo, forse è un tantino moscia, però dai, è il quarto romanzo, e dategli tregua al Maestro, su! Ad ogni modo, vi voglio rassicurare: non lasciatevi ingannare dall’apparente piattume della storia, anche in Buonvino tra amore e morte ci sono tutti i difetti classici dei precedenti capitoli. Anzi, tutti i difetti, con un tocco di merda in più. E adesso ci facciamo una bella full immersion, perciò… ehm… turatevi il naso. Ah, poco fa ho bloccato lo spoiler, però qui vi avverto: lungo la recensione ce ne saranno molti, anche riferiti ai romanzi precedenti della serie. Mi perdonerete, ma è davvero necessario per capire meglio e per gustarsi appieno tutte le… tutte le osservazioni che farò, ecco. Se non volete rovinarvi la sorpresa, interrompete qui la lettura, e magari tornate quando avrete terminato tutti i romanzi. Anzi, non “magari”: tornate e basta!
Pantegane di biblioteca
Bene, allora, allora. Siccome la trama si divide in due sottotrame, direi di seguirne una per volta. E nonostante il romanzo cominci con la storia della Viganò, io… io no. Voglio analizzare per prima la faccenda del barbone.
Ricordandoci che Veltroni è un… un Veltroni, quando si tratta di escogitare lo sviluppo di un’indagine, proviamo noi, come al solito, a fare i detective. L’ho riassunta proprio all’osso, ma pure con quel che ho detto sopra a proposito della sottotrama, ci accorgiamo subito che le informazioni più interessanti sono tre. Innanzitutto è interessante che il figlio di un ex uomo di regime sia un senzatetto: potremmo subito sospettare che la causa del suo essere finito sotto un ponte sia legata alla morte violenta. Questo Giorgio Caruso potrebbe essere stato un ludopatico senza più un soldo, e forse l’ha ucciso un creditore, proprio mentre il pover’uomo tentava di passare inosservato, barbone fra i barboni. O magari Caruso era pazzo, e a un certo punto la sua follia l’ha spinto a molestare casualmente qualcuno che non perdona.
In secondo luogo, mi fa riflettere che il petto di Giorgio sia stato colpito con “geometrica precisione”: ah, questo vuol dire che il colpevole non è uno sprovveduto, se ne intende di armi e sa sparare bene. Un sicario della mafia? Un cacciatore? O addirittura un poliziotto? Ehi, quest’ultima opzione non sarebbe nemmeno una novità, per Veltroni.
Terzo e ultimo dettaglio (ed è ultimo non a caso): è da tenere in conto che Giorgio è stato ucciso nello stesso luogo in cui morì suo padre nel 1944. Ora, il luogo dell’omicidio, così come il disco di Caruso, potrebbe non essere una coincidenza, anzi potrebbe essere un messaggio di qualche genere, quindi ha un senso rifletterci su mettendo sul tavolo le ipotesi più verosimili. Su questo non ci piove, ma attenzione: la parola chiave è “verosimili”. Oh, noi a questo proposito sappiamo già che Veltroni è in fissa con le storie di serial killer stile Zodiac che lasciano rebus sui luoghi del delitto, tuttavia… ehi, per i nostri valorosi di Villa Borghese sarebbe alquanto da coglioni (anzi, da Veltroni, proprio) credere ogni volta che dietro le stranezze e le curiosità si nasconda un serial killer, no? Va bene sbattersi un po’ e farsi domande, purché non ci si perda dietro ipotesi esotiche trascurando gli elementi più semplici e più concreti.
Pertanto, il modo corretto di procedere dovrebbe essere questo: seguire prima la pista di un regolamento di conti, e poi, eventualmente, cercare chi poteva avercela ancora con il vecchio questore, o chi potrebbe aver iniziato una carriera da assassino seriale: prima immaginando un serial killer di barboni, poi un serial killer di fascisti (o dei loro famigliari).
Voi che ne pensate, siete d’accordo? Se lo siete vi ringrazio, tanto al Maestro, come previsto, non fotte niente di quello che credete voi. Subito, e intendo subito!, l’unico elemento su cui si concentrano tutte le energie fisiche e mentali della squadra di Buonvino è il fatto che Giorgio Caruso sia figlio di Pietro Caruso. Basta, tutto qui. Il pattern dei colpi, la vita di strada… niente, quella è roba assolutamente inutile, chi cacchio potrebbe mai cavarci una pista da indizi così sfumati?
E appunto Buonvino non ci perde tempo nemmeno per un secondo. Dopo aver smesso un momento di cazzeggiare con lo smartphone (perché continua imperterrito a cercare di colmare l’assenza della Viganò, ve l’ho detto), il nostro eroe è folgorato dalla convinzione che solo studiando la vita di Pietro Caruso si possa risolvere il caso. E così, costringe i suoi fenomeni da baraccone a informarsi su tutto quello che ha combinato l’ex questore. Costringe i babbei della squadra, sì, però costringe anche noi a seguire delle mostruose pillole di storia recente: non scherzo, in Buonvino tra amore e morte ci becchiamo pagine ancor più raccapriccianti di quelle di Assassinio a Villa Borghese, in cui trovavamo un bambino seviziato e squartato. C’è una sfilza di pallosissimi capitoli, in cui gli agenti trascorrono tutto il loro tempo a leggere libri (libri veri, eh: Il processo Caruso, di Zara Algardi, Il caso Calvino e Vita e morte di Alberto Coppola, di Antonio Areddu) e… e come se non bastasse gli uomini del bellissimo ripetono fra loro tutto quel che leggono, come un gruppo di verginelli secchioni:
«Senti questo che aveva combinato…» Olivieri aprì il libro della Algardi a pagina 131. Lo aveva trovato su eBay, meravigliosa dispensa del passato, di ogni passato. […] Olivieri leggeva a voce alta.
«… Senti quali erano i capi d’accusa che il presidente del tribunale di Roma lesse a Caruso. Per loro era da mandare a morte perché aveva agito “primo, consegnando il 24 marzo 1944 al comando militare tedesco numero cinquanta detenuti politici e comuni affinché fossero, come furono, sottoposti a esecuzione sommaria dal comando stesso quale atto di rappresaglia indiscriminata conseguente all’atto di via Rasella. Secondo, attuando reiterate razzie e arresti arbitrari di liberi cittadini poi consegnati ai tedeschi per il servizio del lavoro. Terzo […].»
«Dal 1919 aderì al movimento futurista e all’Associazione popolare antibolscevica; fu poi addetto alla segreteria politica del II Ispettorato federale di Roma (1924-1926), fondatore e presidente dell’Istituto nazionale per l’incremento della cultura professionale (1926-1927), collaboratore dell’International Year Book (1922), redattore di Roma fascista (1924-1926); è attualmente redattore capo di Critica nuova, e collaboratore di vari periodici per la politica estera. Opere: Esegesi della dottrina fascista, Roma, 1925; Il diritto di sindacato, ibidem 1925; […].»
Buonvino stava sulla porta, senza farsi vedere. Era appena arrivato in ufficio […] e aveva sorpreso tutti i colleghi raccolti attorno al suo agente, impegnato a leggere a voce alta quel testo.
Parco Bio, ti credo, chissenefrega! Le conosciamo le porcate dei fascisti, e conosciamo il loro essere dei patetici vigliacchi cagoni, casomai se vogliamo rinfrescarci la memoria appicciamo il televisore e ci guardiamo Rai Storia! Stiamo leggendo un giallo, anzi un thriller, vogliamo metterci dentro qualche ingrediente del thriller sì o no? A chi cazzo gli può importare che Caruso abbia collaborato con International Year Book?!
E non dimentichiamo i quarantacinque centesimi!
Va be’, a un certo punto (e intendo ben oltre la seconda metà del romanzo), Veltroni sembra sospettare che un giallo in cui i detective non fanno altro che leggere e ripetere sia… sia too much. Forse ci vuole un po’ d’azione, uhm. Perciò, il nostro Maestro, che gli store online non chiamano così senza un motivo, decide che è tempo per la squadra di chiudere i libri, alzare il culo dalla sedia e parlare con un uomo in carne ed ossa. Ah-ah, un sospettato! Un testimone! Un malavitoso spifferone che può dare informazioni! Oh, lettori, per avere delle informazioni, questo tizio ne ha molte, solo che… ma porca puttana, l’uomo è Antonio Areddu, l’autore di uno dei saggi che i Buonvinos stavano leggendo! E per di più lo Hugh Grant denoartri e i suoi non imbastiscono nemmeno un interrogatorio, lasciano parlare il professore a ruota libera: e il povero Areddu (che, ricordo, esiste davvero) si ritrova così tratteggiato come un loquace personaggio semirimbambito che non si trattiene dal raccontare la storia di Pietro Caruso e di un venditore di merce alla borsa nera…
«Come le stavo dicendo, commissario, il 16 settembre del 1926 l’iscrizione al Partito fascista di Alberto Coppola [il truffatore] viene revocata da una commissione delle Federazione dell’urbe. A marzo del 1927 Alberto Coppola è sottoposto “a vigilanza di polizia perché elemento sospetto e segnalato come emerito imbroglione”. […] Sì, commissario, capisco. Vengo al dunque. Per Coppola tutto precipita il 13 maggio del 1944. Diciotto giorni dopo lo fucileranno. Quel sabato un’operazione di polizia in varie zone di Roma – via della Pigna, via Ristori, via Claudia, piazza della Rotonda – sequestra ingenti quantità di zucchero in bar e magazzini. Alle nove di sera il maresciallo Luigi Civita e il commissario capo Arturo Musco arrestano Alberto Coppola, ritenuto “responsabile di vendita clandestina, a prezzi di speculazione, di trentadue quintali di zucchero raffinato e greggio sottratto alla fabbricazione di prodotti medicinali.»
«Nell’appartamento della sua amante friulana trovano 373.400 lire in un armadio, e a casa di Coppola sequestrano 113,45 lire nascoste nella camera da letto. Ma non basta. La polizia trova 18 quintali di zucchero, 6 damigiane, 268 chili d’olio, 79 chili di sale da cucina, 300 litri di alcol puro, 43,500 chili di sugna benzoinata, 49,100 chili di caffè, 120 litri di benzina, 25 lampadine elettriche e persino 4 caciotte e 3 salamini. Vuole vedere i verbali degli interrogatori, commissario? […] Eccoci, commissario. Perché quel pover’uomo, un truffatore e un millantatore, che per l’accusa si era sporcato le mani solo con la borsa nera, viene mandato a morte con tanta incredibile fretta, a quattro giorni dalla liberazione di Roma da parte degli Alleati? E addirittura con Caruso, questore di Roma, a presenziare l’esecuzione? E poi perché a Villa Borghese?»
Lettori, voi dovete sapere, voi dovete sapere! Dovete sapere e dovete ringraziarmi: sì, perché io ho tagliato, ma quei puntini di sospensione vi proteggono da pagine e pagine… e pagine e pagine… e pagine e pagine e pagine… in cui Areddu (cioè, il finto Areddu veltroniano) ci travolge con una valanga di informazioni sul conto di… no, non di Pietro Caruso… di ’sto cavolo di Coppola!
Uff, è tutto terribilmente sbagliato. Se Veltroni non poteva davvero fare a meno di questo spiegone (spoiler: ehhh… poteva farne a meno), avrebbe dovuto impostarlo in maniera un tantino diversa. Un tantino proprio. Anche perché il Maestro avrebbe dovuto tenere a mente che noi ne abbiamo abbastanza della scuola: non ci va di star seduti a farci frullare i maroni da una figura con poteri soporiferi che ci scaglia addosso dettagli, dettagli e ancora dettagli. Inutili.
Per rendere uno spiegone accattivante, ammesso che ciò sia possibile, è necessario costruirlo su una struttura essenziale, dotarlo di storytelling, e condire il contesto in cui si svolge con po’ di sano dinamismo. Prendete uno degli spiegoni meglio riusciti della cinematografia, talmente ben riuscito da divenire una delle scene più iconiche del film al quale appartiene: Il codice da Vinci. Che? Esempio caccoso, dite? No, perché? Solo perché in generale il film è un po’ stupido non vuol dire che ogni sua parte sia fatta male. Va be’, insomma: nella scena in cui è spiegato il significato dell’Ultima Cena di Leonardo da Vinci, Sir Leigh Teabing racconta una storia, la storia della Maddalena. Ebbene, notiamo che il racconto è parecchio essenziale, e soprattutto è privo di date e di fonti: no, questo non è solo perché esso è in sostanza una teoria del complotto del tutto campata in aria, il motivo principale è che delle date e delle fonti… non… frega… un… cazzo… a… nessuno. Non importa neppure a chi con le fonti ci campa, ossia gli accademici, i professori universitari, i saggisti alla Fusaro: dico, avete notato che la bibliografia è sempre relegata nel culo del libro… eh, eh, eh… ?
Continuando la nostra analisi, constatiamo inoltre che la scena de Il codice da Vinci non è monopolizzata da chi spiega, come invece accade in Buonvino tra amore e morte. Teabing prima si rivolge alla protagonista con tono carezzevole, poi invita Langdon a prendere parte alla conversazione, poi torna sulla ragazza e si adira con lei perché quest’ultima definisce Maria Maddalena “una prostituta”. Capite cosa intendo, no? È appunto una scena dinamica, sia perché tutti i personaggi si contendono la parola, sia perché il tono non è monocorde e varia continuamente, manifestando i diversi stati d’animo.
Se volete un esempio diverso, più culturale (anche se, a causa delle sue posizioni sulla Guerra in Ucraina, il soggetto in questione si sta beccando delle accuse di non essere affatto acculturato), sappiate che qualcosa di simile accade con le lezioni del professor Barbero. Il segreto alla base del suo successo mediatico sta nella sua capacità di coinvolgere il pubblico con uno storytelling ben congegnato: non di rado, infatti, Barbero presta la voce ai personaggi di cui racconta, e modula il tono del discorso a seconda del contenuto, enfatizzando con pause le storie di stragi e gli eventi epocali.
Ecco, l’Antonio Areddu di Veltroni, come avete capito, è nient’altro che la bottiglia di Tafazzi, e noi siamo Tafazzi: parla solo lui, non mostra nessuna emozione, addirittura conta i centesimi di una mazzetta sequestrata a Coppola. Pelle d’oca, senz’altro, starei ad ascoltarlo per ore, se fossi anch’io un personaggio del Maestro e se fossi descritta che sto ascoltando Areddu per ore.
Almeno abbiamo toccato il fondo della sottotrama. Eh, eh, eh, no. Vedete, ci dobbiamo sorbire quintali e quintali di parole inutili per giungere poi al dunque, e questo dunque è… proprio niente! Coppola non serve a un cazzo, scoprire quanti centesimi aveva in tasca non aiuta in nessun modo le indagini. Eggià, Buonvino e i suoi brancolano nello stesso buio in cui brancolavano prima di incontrare Areddu. E se possiamo capire il commissario, troppo preso con la faccenda Viganò, rimaniamo sicuramente sconcertati dal fatto che nemmeno l’ipovedente, il tappo, il narcolettico, il neromulatto e la donna (le categorie dei minorati, secondo Veltroni) siano riusciti a trarre un utile spunto dalla lezione universitaria. Cioè, Walter, ma se i tuoi stessi personaggi ne escono confusi e smarriti, ti pare che sia una buona idea riportare tutto (tutto!) ciò che Areddu sa a proposito di Caruso e di Coppola? No, domando perché, essendo tu il Maestro, forse a me sfugge qualcosa di grosso.
Il barbone spiegone
Che ci possiamo fare, lettori, Buonvino tra amore e morte si rivela una distesa di sabbie mobili, e piantati a mo’ di pali lì in mezzo non ci sono soltanto i personaggi, ci siamo anche noi, appunto. Però, ehi, non disperate, il romanzo riesce a tirarci tutti fuori dai guai. No, non con un raffinato stratagemma letterario, non con una trovata incredibile che ci permette di far leva e di uscire dalle sabbie mobili. Macché, scherziamo? Semplicemente, le sabbie mobili spariscono di colpo, puff! E i Buonvinos (e noi con loro) si ritrovano di punto in bianco su un sicuro e solido piano. Tutto è filato liscio.
Vi sembra sicuramente una magia, e in effetti lo è: il Maestro è il Maestro anche grazie alla sua capacità di fare magie, eh, eh. Volete però sapere il trucco, io vi conosco, curiosoni! E va bene, vi spiego la magia. Praticamente a qualche pagina dalla fine del libro, i babbalacchi di Villa Borghese intuiscono che forse è il caso di fare un sopralluogo sul Lungotevere. Il motivo di questa intuizione? Ovviamente un deus ex machina, no? La donna dei freak show, l’agente Robotti, ha saputo che vicino al giaciglio della vittima è stata ritrovata… una copia del libro di Areddu! E adesso state bene attenti. Oh, mannaggia, vorrei che steste attenti, vorrei che foste preparati a quanto sto per dire, ma la verità è che non è possibile, non potete essere preparati.
Dunque, mentre sono in macchina diretti al Lungotevere, Buonvino ha di nuovo un’improvvisa rivelazione:
Durante il viaggio, Buonvino era stato pensieroso, cupo, persino più del solito. Rimuginava qualcosa il cui succo fu estratto dalle sue labbra mentre scendeva i gradini: «Questo omicidio è un suicidio, altroché.»
Allora, Buonvino fa questa sparata, punto e basta. But, dude… why?! Insomma, c’è un barbone crivellato da colpi maniacalmente precisi: ehi, cazzo!, è ovvio, un barbone affetto da disturbo ossessivo compulsivo che possiede un mitra o un fucile si è suicidato sparandosi secondo un preciso disegno geometrico. Sapete, tipica merda che succede in un caso di suicidio. Poi mi sembra evidente che Buonvino se ne esca con un “secondo me si è ammazzato da solo” proprio come fosse un “secondo me oggi piove”: cioè, ai commissari, a quelli bravi e belli come Hugh Grant, capita proprio di avere quel genere di folgorazione mentre sono sovrappensiero.
Walter, scusami eh, a mio avviso, come minimo Buonvino dovrebbe avere per le mani degli indizi un tantinello eloquenti, e dovrebbe anche discuterne un po’ con i suoi colleghi, non ti pare? E sarebbe apprezzabile che questi ultimi si rivelino alquanto sorpresi dall’opinione di Buonvino, considerando che le indagini non si sono subito indirizzate verso il suicidio, no?
Ehi: no! Dopo aver udito la lapidaria intuizione, nessuno degli altri svalvolati sembra dare peso a quanto detto dal commissario, e va benissimo così, perché tanto Buonvino non spiega nulla di nulla:
«Questo omicidio è un suicidio, altroché.»
Erano tutti e tre in borghese, ma alla loro vista, come guidati da un sesto senso, i «dannati della terra» [espressione con cui Veltroni dona la dignità™ ai senzatetto] […] che vivevano là sotto raccolsero le loro povere cose e cercarono in fretta e furia di andarsene.
Oddio, il romanzo ci ha masticato i testicoli con date e fonti per un’infinità di capitoli, e adesso fa l’ermetico sul modo in cui Buonvino ha risolto il caso, cioè fa l’ermetico… sull’aspetto più importante di un giallo!
E l’assurdo non si limita a questo: arrivati sul posto, i nostri iniziano a interrogare i senzatetto del Lungotevere. Toh!, ne trovano uno con cui Giorgio Caruso aveva stretto una sorta di amicizia. Ah-ah, lettori, questo non è mica un barbone qualunque, è un barbone spiegone! E quindi… e quindi niente, tutto si sistema da solo:
«Lui era un uomo alla deriva, non diversamente da me. […] Nel tempo mi sono accorto che qualcosa di invisibile rodeva quell’uomo, e lo aveva portato a tagliare i ponti con la società e con tutti quelli che lo conoscevano. Solo a me disse il suo cognome, del quale si vergognava. Per quanto cercasse legittimamente giustificazioni al comportamento del padre, non riusciva a trovarne neanche una, se non la natura orrenda e morbosa di quei tempi infami, di odio e di guerra tra italiani. Ma non gli era bastata neppure questa quando, acquistato in una bancarella di libri usati qui sul Lungotevere, il volume di Areddu era finito tra le sue mani. […] In quel libro aveva letto la storia di un borsaro nero fucilato alla presenza del padre, Pietro Caruso; me lo raccontò con le lacrime di un uomo ormai destrutturato […]. “Ho deciso” mi disse, “voglio farla finita. Ma non in questo modo banale, non lasciandomi cadere in questo fiume. Sarebbe troppo facile. Si deve sapere che non è il gesto di un ‘barbone’ che ha deciso di salutare una vita ingrata. No, il mio addio deve far rumore […]. […][P]er farlo ho chiesto aiuto a un mio conoscente […].»
“[U]n uomo ormai destrutturato”: è lo slang del barbone tipo, lettori, niente per cui valga la pena allarmarsi. Eh… allora… a parte il fatto che il caso si chiude di nuovo grazie a un testimone occasionale e dalla memoria di ferro, proprio come in C’è un cadavere al Bioparco (e questo dimostra che il Maestro del giallo non sa scrivere un giallo deduttivo), stavolta la soluzione è davvero qualcosa di aberrante, oltremondano. Infatti, se Buonvino e la sua squadra avessero mosso subito il culo e fossero andati a ispezionare il Lungotevere fin dall’inizio (come sarebbe stato ragionevole fare!) avrebbero trovato immediatamente il barbone spiegone e la copia di Vita e morte di Alberto Coppola, senza dover trascorrere i pomeriggi su eBay in cerca di un libro che parlasse di Pietro Caruso e senza doversi poi abbeverare direttamente alla fonte senile di Areddu!
Alla luce di tutto questo, come vi aspettate che commenti il romanzo? Ma lettori, andiamo, non fosse Buonvino un completo idiota, il caso sarebbe stato risolto nella stessa pagina della sua presentazione!
Pallemosce di lardo
Che poi vabbè, “risolto” si fa per dire, in realtà la spiegazione data da Veltroni non ha un minimo di senso.
Ho sostenuto all’inizio che la morte di Caruso deve essere probabilmente opera di un professionista, perché l’arma da fuoco è stata usata con abilità chirurgica. Invece no!, sul finale si scopre che l’amico a cui Giorgio chiede il favore di essere ucciso è nient’altro che un tontolone (tra l’altro conosciuto col soprannome di “Pallemosce“), a cui la nostra vittima ha spiegato cinque minuti (cinque minuti!) prima che cosa fare e come farlo… servendosi di un disegnino:
Il giovanotto bofonchiò che si era prestato a quella messa in scena per aiutare il signor Caruso – si erano conosciuti anni prima, quando faceva l’autotrasportatore –, e che questi gli aveva non solo fornito tutte le istruzioni su come doveva ucciderlo, sul luogo in cui avrebbe dovuto portare il corpo e sul disco da lasciare sopra il cadavere, ma gli aveva persino fatto un disegno – Pallemosce lo mostrò a Buonvino – per spiegare come avrebbero dovuto essere disposti sul petto, in linea retta, i colpi di fucile, che dovevano essere sparati da vicino, in sequenza.
Uao, Pallemosce è il soldato Palla di lardo del romanzo, buono a nulla, però con un’innata e infallibile mira. Ma porca puttana, se Veltroni avesse voluto fare dell’esecutore uno sprovveduto, allora Pallemosce avrebbe dovuto toppare: essendo un dilettante, avrebbe dovuto mancare il bersaglio, colpire Giorgio in volto e agli arti, e magari, preso dal panico, avrebbe poi sentito l’istinto di fuggire. Abbandonando l’amico agonizzante.
E questo per ciò che riguarda Pallemosce. Lo stesso Caruso, nondimeno, è un personaggio senza logica: cioè, Giorgio legge un libro che parla male del padre e per questo si ammazza? Si vergogna delle malefatte fasciste del padre e si ammazza? In Italia? Proprio l’Italia in cui la seconda carica dello Stato, il cui figlio è indagato per stupro, dà i bacini ai busti di Mussolini? Sì, quell’Italia lì? Ma mi faccia il piacere, porco cazzo!
Oltretutto, quando si scoprono denigrati i propri genitori, la prima reazione è di rifiuto, perché non siamo disposti a mettere in discussione coloro che sono stati i punti di riferimento per buona parte della nostra vita. E non li mettiamo in discussione nemmeno se nel profondo sentiamo che magari, effettivamente, qualcosa non va in loro. Se Giorgio rifiuta il padre con naturalezza, vuol dire che già da tempo il nostro è venuto a patti con l’idea che il genitore era uno stronzo. E questo ci pone un’interrogativo: avendo stabilito da un bel po’ che Pietro Caruso merita disprezzo, perché Giorgio scapoccia dopo aver appreso l’ennesimo peccato del padre? Quel cazzo di Coppola non è nemmeno un tipo che conosceva, è un perfetto ignoto qualunque per lui!
Ah, lettori, lasciamo perdere, non tormentiamoci più del dovuto, per carità. È chiaro, il Maestro è così: genio e sregolatezza. Finora abbiamo incontrato solo la sregolatezza, ma, ehi, prima o poi arriverà anche il genio, me lo sento. Lasciamo perdere, dunque, anche perché quella fin qui analizzata era una sottotrama: vi ricordo che c’è anche l’altra. Che Bio ci aiuti…
Ha stata la ‘ndrangheta camorrista
Naturalmente, quella riguardante la Viganò è la sottotrama principale di Buonvino tra amore e morte. Pertanto, voi vi domandate: ma non bastava questa traccia, c’era proprio bisogno del caso Caruso? Eh…
Vabbè, nel mio riassunto vi ho detto che Buonvino, cazzeggiando con l’Iphone come un boomer qualunque, scopre un tipo strano che compare nelle foto del matrimonio. Tutti ci aspettiamo che il commissario provi a identificarlo, e… ed è proprio quello che fa. Certo, converrete con me che l’impresa non è facile: dopotutto, si tratta di un uomo che viene ripreso di sfuggita con uno smartphone, con ogni probabilità nei video e nelle foto in cui compare non è nemmeno messo a fuoco. Ci vuole un aiutino dalla scientifica, sapete, uno di quei software alla C.S.I. che ricostruiscono i volti sulla base dei pixel disponibili, e che cercano nel database delle facce note.
Nah.
Come “nah”? Eh, “nah”: è quel che Veltroni risponde alle nostre aspettative. Macché scientifica, chi ne frega, chi ne ha bisogno?
Vi insegna il Maestro come si fa. Buonvino se ne va da un fotografo: si fa ingrandire le immagini e poi se le fa stampare. Occhei? Ecco. E poi? Be’, e poi. Basta, fine. Cioè, Buonvino ha delle foto ingrandite su carta, è tutto. È sufficiente. Eh, sì, il nostro Hugh Grant, con questo semplice life hack, riesce a rendere apprezzabili le caratteristiche fisiognomiche dell’uomo misterioso. Queste diventano talmente apprezzabili, che il commissario riesce perfino a individuare la presenza di una cicatrice sotto l’orecchio sinistro del soggetto. Una cicatrice. Sotto. L’orecchio. Sotto!
Ma caaaazzo, è già difficile notare dal vivo una cicatrice nascosta sotto l’orecchio, figuriamoci in una foto, oltretutto scattata per caso! Se l’uomo misterioso avesse avuto un angioma come Gorbaciov avrei anche accettato l’escamotage, ma una cicatrice sotto l’orecchio?! Perché, perchééé?!
Sentite, non mi va di farla troppo lunga, tanto ormai non cambia nulla. Insomma, Buonvino scopre che il tipo ha una cicatrice e… e anche stavolta è tutto! Sì, lettori, Il volto dell’uomo non viene riconosciuto da nessuno. Buonvino si gratta la testa, guarda per un po’ le immagini e poi niente, fa spallucce perché non sa chi sia quel tizio! Uff, come si risolve la faccenda? Eddai, che domande: si risolve da sola, al pari di ogni faccenda veltroniana. Ebbene, a un certo punto, nel bel mezzo del romanzo, Veltroni infila l’ennesimo capitolo spiegone, capitolo in cui il questore di Ravenna racconta al già citato Dianti le circostanze della morte di Roberto, il precedente marito della Viganò (anche se in Buonvino tra amore e morte viene definito “fidanzato” e “compagno”, e non è mai stato sposato con la donna… boh!), concentrandosi soprattutto sulle condizioni in cui è stato ritrovato il corpo, dopo essere stato investito da un camion:
«[…] Non ho bisogno di dirti che neanche la borsa, o i suoi resti carbonizzati, abbiamo ritrovato. La verità è che quella notte era inverno e faceva freddo […]. Non passava nessuno e poi era tardi, molto tardi. Non sappiamo quanto tempo sia trascorso – parlo di minuti, non di ore – dall’impatto col tir alla segnalazione, che ci è arrivata d un’abitazione vicina, dell’incendio divampato per strada […]»
Ah certo, un incendio, un corpo carbonizzato dopo essere stato maciullato da un mezzo pesante. Cose che succedono sempre, no? Cioè, tu guidi ubriaco per i fatti tuoi, investi un pedone che si mette da solo in pericolo camminando sul marciapiedi, e puff!, niente da fare, non puoi nemmeno soccorrerlo perché ha già preso fuoco. Eh, che volete, il Maestro si è formato sul grande cinema d’azione anni Ottanta e Novanta, e addirittura ha fatto fare un salto evolutivo ai topoi classici: se in un Commando o in un Cobra a incendiarsi erano i veicoli che urtavano col bagagliaio un paletto, in Buonvino tra amore e morte sono direttamente gli esseri umani a prendere fuoco, se urtati.
Be’, lettori, stante il brano che avete letto, è quasi superfluo confermare che sì, avete proprio ragione a pensare quel che state pensando. Uno spiegone sconnesso dal resto della trama… su un personaggio che finora non è mai comparso… davvero, cade come un fulmine a ciel sereno la scoperta che, nel finale del romanzo, spunta proprio Roberto! Con una cicatrice sotto l’orecchio! Facendo il simp con un mazzolino di fiori che offre a Veronica, per congratularsi dell’avvenuta guarigione!
Ma quindi, chi cacchio ha sparato alla sexy Viganò? Calma, lettori, ci vuole un altro spiegone, no? Praticamente, d’accordo con i vertici della polizia, Roberto ha inscenato la propria morte, dopodiché ha cambiato i connotati e i documenti identità. E tutto questo perché…
«Roberto stava indagando sulle infiltrazioni della Camorra nella vita economica della città [Ravenna] e della regione […].»
Ehi, aspetta un momento! What the fuck?! Walter, cacchio… la camorra?! Ma in C’è un cadavere al Bioparco avevi detto che Roberto indagava sulla ’ndrangheta! Oh, parole tue:
[…] Veronica non aveva mai più abbracciato un uomo dal giorno in cui suo marito […] era stato ucciso dalla ’ndrangheta sulla quale stava indagando.
(C’è un cadavere al Bioparco, cap.3)
Che cazzo, la camorra e la ’ndrangheta non sono la stessa cosa, sono organizzazioni completamente diverse, non sono intercambiabili! Capisco che, dopo aver chiamato il personaggio “Roberto”, la camorra può accompagnare solo, però… eddai! Tra l’altro, dal brano constatate che Roberto è appunto il “marito” della Viganò, non il “fidanzato”. Porca vacca, lettori, da una volta all’altra il Maestro si dimentica di quello che scrive; e neppure gli viene lo scrupolo di controllare! Ah, lo dico sempre, ecco perché lui è il Maestro e io no.
Teniamoci la fronte, siam pronti alla morte…
Lasciamo perdere, anche perché la ’ndrangheta che si trasforma per magia nella camorra non è nemmeno il punto più basso del libro. Vedete, dopo essersi dotato di una nuova identità, Roberto si infiltra nella… camorra… e fa lo spione. A un certo punto viene a sapere che un capoclan vuole fare delle brutte cose a Buonvino. Ah, siete perplessi: perché a Buonvino? Il nostro si è sempre occupato di mezzi pedofili, ladri di bambini, animali assassini. Che gliene frega alla camorra di lui?
Che poca fantasia avete.
Lo Hugh Grant della capitale è nel mirino perché ha osato sbattere ar gabbio Morrone, il capo di una setta che era “in realtà una costola di massoneria deviata che […] aiutava [i camorristi] a ottenere informazioni all’interno della polizia e della magistratura”. Però, e chi l’avrebbe mai detto? Nessuno, anche perché questo Morrone è uno di quei cacchio di gemelli serial killer di Assassinio a Villa Borghese! Esatto, quegli stessi gemelli “che si tenevano la fronte l’uno con l’altro, mentre vomitavano”. Walter, non so quali massoni e camorristi conosci, ma secondo me né un venerabile né un boss sarebbero troppo contenti di avere dei pervertiti sessuali mine vaganti fra i loro uomini: soprattutto, credo che un boss non affiderebbe ai suddetti pervertiti un compito difficile come quello di spiare la pula! E poi, porca troia, nel primo romanzo Buonvino era sostanzialmente un idiota pacioccone, un ispettore Clouseau: già era strano che dovesse vedersela con due serial killer, ma ora scopriamo pure che almeno uno era un serial killer massone camorrista col compito di sorvegliare la polizia del commissariato ozioso e da poco istituito di Villa Borghese, per conto di un boss che sta a Ravenna?!
E se tutto questo non vi sembra abbastanza cretino, lettori, allora considerate anche nel primo romanzo non si parla mai, mai, mai e ancora mai né di massoneria né di crimine organizzato. Anzi, no, in effetti di mafia si parla:
[…] quelli [i mafiosi] non fanno tutte queste manfrine, non perdono tempo con depistaggi o riferimenti storico-culturali [al contrario dei gemelli assassini].
[…]
Non è roba di mafia, questa.
(Assassinio a Villa Borghese, cap.8)
Non ce la faccio, è… è inarrivabile, punto e basta.
Insomma, dopo aver scoperto il complotto, Roberto probabilmente avrebbe anche lasciato correre, se non fosse che, ricordandosi che sua moglie ora fa sesso orale a Buonvino, s’è sentito preoccupato per l’incolumità della stessa, e ha perciò pensato bene di starle addosso come guardia del corpo segreta. Badabing badabang, dopo che Roberto NON ha centrato il suo obiettivo personale, almeno il suo incarico ufficiale si esaurisce, perché la camorra massonica ’ndranghetista di Ravenna viene sgominata. Potendo quindi ritornare a una vita normale, senza più la sua faccia, senza più i documenti e senza più la moglie, che cosa fa il nostro personaggio? Appunto, come ho riportato prima, va in ospedale e fa il simp, vuotando pure il sacco su tutta la vicenda: sapete, in circostanze del genere, fare uno spiegone è quasi un’esigenza fisiologica.
Neanche a dirlo, lo spiegone è del solito tipo, ossia non spiega un tubo.
Tanto per cominciare, il proposito di pedinare Veronica per proteggerla è un bel rischio. Come è riuscito Roberto a non bruciarsi (LOL) la copertura? Possibile che nessun camorrista, gente coi nervi a fior di pelle e attenta ogni minimo dettaglio sospetto, abbia notato che Roberto si trovava spesso negli stessi luoghi bazzicati da Buonvino? Nessuno l’ha visto presenziare, addirittura!, al matrimonio della Viganò? E sì che l’attentato s’è svolto proprio in tale circostanza…
Inoltre, volendo Roberto proteggere Veronica, forse avrebbe dovuto escogitare un piano astuto e audace, non trovate? Avrebbe magari dovuto proporsi al boss come esecutore dell’assassinio, e poi mettersi d’accordo con la Viganò per inscenare una finta sparatoria. Una volta eliminata la camorra ravennate, Veronica avrebbe potuto presentarsi a Buonvino con un finale molto ad effetto e spiegare l’accaduto. Niente che non sia stato già fatto da bravi sceneggiatori, tra l’altro: in The Mentalist, Patrick Jane tenta di scoprire l’identità di John il Rosso fingendosi suo amico, e l’amicizia richiede… una prova di lealtà: la testa di Teresa Lisbon, capo di Jane e suo interesse romantico. I due naturalmente si accordano, lui finge di spararle, lei si finge morta, ci sono complicazioni e poi c’è il lieto fine.
Ora, se anche Veltroni avesse seguito tale canovaccio, si sarebbe preparato il terreno per un interessante spunto narrativo: anziché indagare sul caso di Giorgio Caruso, che non è nemmeno un caso, Buonvino tra amore e morte avrebbe potuto ruotare interamente intorno al tentativo del commissario di rintracciare e uccidere Roberto. Infatti nel suo spiegone Roberto dice che, per rendere credibile la nuova identità, la polizia ha fatto sì che venissero pubblicati “articoli civetta” sui giornali:
Ho dovuto giustificare questa cicatrice con un conflitto a fuoco di cui abbiamo prodotto false evidenze grazie ad articoli civetta che sui giornali hanno fatto riemergere un cold case in cui un rapinatore era stato colpito al volto durante l’assalto a un’armeria. Tutto falso. Tutto inventato, perché sembrasse vero.
Buonvino, dunque, avrebbe potuto indagare seguendo le prove false, per poi arrivare negli ultimi capitoli a uno scontro diretto con Roberto. Uno scontro magari anche fisico, provvidenzialmente interrotto da lei, da Veronica…
Già, sarebbe stato proprio bello, e avrebbe dato un senso al titolo del romanzo, che non è “Buonvino tra la rottura di palle di una moglie in coma e la rottura di palle del caso di un barbone sconosciuto”, è Buonvino tra amore e morte. Ah, lasciamo perdere, lasciamo perdere…
Storia della divagazione infame
Lasciamo perdere la trama in sé, tuttavia non abbandoniamo l’analisi del libro. Spiace dirlo, però il Maestro stavolta era evidentemente senza idee. Intendo, molto più senza idee del solito. Ad ogni modo, è riuscito a riempire le sue belle duecento pagine da consegnare alle stampe. Come? Eh, be’…
Un classico allungabrodo veltroniano: le divagazioni. Si tratta di sezioni che non servono assolutamente a nulla: non contribuiscono allo sviluppo della trama, non creano suspense, non rendono più intrigante la caratterizzazione dei vari personaggi. Oltre a insozzare la carte, al massimo le divagazioni soddisfano il bisogno che ha il Maestro di istruire la plebe sui fatti della vita e, specialmente, sui fatti della politica. Riflettete, ad esempio, su questo brano, che riporta l’assolutamente sconosciuta e trascurata storia della “colonna infame”, con l’apparente unico scopo di proporre delle spicciole riflessioni sulla capacità di giudizio del popolo:
Il commissario Buonvino definiva questo elenco «la colonna infame», in omaggio a due poveri cristi, un commissario di sanità e un barbiere, che nella Milano della peste – correva l’anno 1630 e la città era dominata dagli spagnoli – furono giustiziati perché accusati, sulla base della falsa testimonianza rilasciata da una donna, di essere degli «untori». […] Il popolo, quando si tratta di valutare un fatto o una persona, non dispone – non può disporre – di tutti gli strumenti necessari per la conoscenza, e quindi è spinto in primo luogo dall’emotività […].
Walter, ti prego, di’ qualcosa di sinistra! Che ne è della sovranità che appartiene al popolo, il quale la esercita in un certo modo ed entro certi limiti? Che, c’è forse bisogno di qualcuno che tenga a bada la plebaglia e la sua coscienza collettiva, c’è bisogno di una specie di duce? È questo che vuoi dire? Da dove arriva questo contemptus mundi, Walter? Non chiuderti in te stesso, non fondare una comune in Guyana, non fare scorte di Kool-Aid! Che poi, cogitiamo noi, ma se il popolo non è capace di “valutare una persona”, allora quando è stato eletto sindaco di Roma un certo…
Ehm, le tristi divagazioni sulla necessità di abbattere la democrazia non sono le uniche in Buonvino tra amore e morte. Seguendo una tradizione consolidata almeno a partire da… dal primo romanzo della serie, il Maestro continua a divagare cucendo insieme varie osservazioni a proposito della volgarità, soprattutto di quella insita nel linguaggio comune:
E l’ignoranza, per Buonvino, nasceva in primo luogo da un maldestro uso delle parole, la più importante delle doti umane, quelle che ci distingue dagli animali: se parli male fai del male […].
Posso almeno far notare al Maestro che queste boiate sull’uso delle parole sono un marchio di fabbrica del più grande Carofiglio mai esistito? È un po’ un’appropriazione culturale, mi consenta.
Che poi, dico, davvero Veltroni si mette a bacchettare qualcuno sul “maldestro uso delle parole”? Lui, sì? Lui che in questo romanzo fa riferimento a un’incomprensibile “gelatina del caos”, manco fosse quella che s’è trovato nelle mutande il cattivo di C’è un cadavere al Bioparco? Lui, che definisce la luce “severa e rassicurante”, usando un’endiadi ossimorica totalmente inedita (perché nessun altro autore ha mai pensato che valesse la pena pubblicarla)? Lui, che, ottenebrato dai soliti pensieri a luci rosse, descrive il povero agente nanetto Olivieri “eccitato come Marlon Brando”? Lui, che crede sia accettabile chiamare “mulatto” un uomo di origine africana, perché il termine ha un po’ di bianco in sé, e quindi è meno offensivo di “nero”?
Sì, lui.
E comunque la forma delle divagazioni è solo uno dei tanti difetti delle stesse. Le riflessioni non sono soltanto insensate e fuori luogo, sono anche… uh, fuori tempo. Per qualche motivo, improvvisamente Buonvino si lagna delle abbreviazioni:
Aveva iniziato citando Nanni Moretti: «Chi parla male, pensa male e vive male», dopodiché si era scagliato contro quei barbari che, sui social, usano la «x» per scrivere «per» o la «k» in luogo del «che».
Walter, ohi, ti do una notizia sconvolgente: i primi anni Duemila sono finiti da più di un decennio. Per favore, puoi renderti conto che la roba delle “x” e delle “k” è di eoni fa? E simili abbreviazioni si usavano non perché “i ccciovani beshtemmianoh”, ma perché allora gli sms li pagavi in base alla quantità di caratteri: adesso che ci sono Facebook, Whatsapp e compagnia bella, con il motore integrato di autocompletamento lessicale, nessuno abbrevia più niente. Di che cos’altro ti lamenterai, prossimamente, di quegli invasati che non fanno sacrifici di montoni e recitano il Padre nostro?
Cliffangry
Occhei, fin qui i vari sermoni educativi allungabrodo, tutto regolare. A tali divagazioni, però, Buonvino tra amore e morte introduce una novità (sempre per allungare il brodo eh, non fatevi illusioni): i cliffhanger. Cioè, sì, d’accordo, l’introduzione vera e propria l’abbiamo avuta con C’è un cadavere al Bioparco, come ho in precedenza ricordato, tuttavia, in questo quarto capitolo della saga, il Maestro dimostra di aver appreso pienamente la sacra tecnica segreta, e… e ne abusa a più non posso! E tutto col solo scopo di creare suspense intorno a Roberto e alla sua cicatrice:
Avevano sentito le sue [di Veronica] amiche e compulsato l’elenco degli invitati. A ogni nome erano riusciti a dare un volto.
A quell’uomo, no.
[Buonvino] Passò le dita sul volto di sua moglie, racchiuso nello schermo dell’iPhone.
Fu allora che i suoi occhi spostarono il fuoco dal primo piano di lei alla folla dei contradaioli vestiti a festa.
Buonvino si irrigidì.
Non poteva credere a quello che stava vedendo.
Quell’uomo con la maglietta verde e il fazzoletto dell’Oca che, restando defilato, fissava Veronica era proprio lui.
Lo stesso che aveva visto nell’immagine del ricevimento.
Lo stesso che guardava lontano, mentre Veronica era stata appena colpita.
Lui.
In ognuna di esse, sulla faccia di quel tipo, un adulto caucasico di robusta corporatura, compariva un segno.
Sempre lo stesso.
Una cicatrice sotto l’orecchio sinistro.
Ora, è vero che anche Viola Ardone, brava autrice, spargeva abbondantemente qua e là i cliffhanger, tuttavia c’è una differenza non da poco, rispetto a Veltroni. È che Viola Ardone non li usava tutti per la stessa situazione, ecco. Cazzo, appunto il Maestro usa il cliffhanger sempre e solo per riferirsi a Roberto! Sì, va bene, abbiamo capito che è un tipo misterioso, però possiamo andare avanti con la tramaaa?
E limitare il cliffangher nel modo appena visto non è l’unico scivolone. A proposito dell’artificio letterario, infatti, c’è un dettaglio da non trascurare. Il cliffhanger serve a enfatizzare il momento che precede un colpo di scena, ovviamente con lo scopo di rendere quest’ultimo godibile al massimo. È un po’ come il bicchierino d’acqua che al bar si beve prima dell’espresso: prepara le papille gustative all’esperienza della fragrante miscela del caffè. Ah, ma che volete, queste sono le vecchie regole, e su! Il Maestro ha elaborato un nuovo rituale: quando ordiniamo un espresso, lui ci serve un bicchiere con l’acqua del wa(l)ter. Poi, dopo qualche mese, bussa alla nostra porta e lascia in terra la tazzina con il caffè. E il caffè è quello americano.
Fuor di metafora, abbiamo in precedenza visto che Roberto si rivela soltanto alla fine del romanzo, ovvero… molto, molto, molto dopo i vari cliffhanger. Arrivati a quel punto, ormai ci siamo quasi dimenticati di quel che in proposito abbiamo letto un sacco di pagine addietro (complici anche le noiosissime lezioni di Areddu), pertanto abbiamo perso l’adrenalina causataci dai cliffhanger, sostituita dalla melatonina. Risultato? Quando incontriamo Roberto siamo un po’ assonnati, e se non fosse per il suo provvidenziale spiegone non sapremmo nemmeno chi è lui, e che diavolo sta succedendo. Sfortunatamente, lo spiegone stesso, per sua natura, è soporifero, perciò non possiamo sottrarci alla chiamata di Morfeo.
Conclusione, a proposito dei cliffhanger veltroniani? Eh, è sempre la stessa: sono dei gadget letterari che permettono al Maestro di allungare il brodo. Né più né meno.
Sì, buana!
Almeno, se proprio vogliamo trovare un aspetto positivo dello stile di Veltroni, possiamo notare che il nostro ha più d’un trucco per tirare la storia per le lunghe. Un altro, che abbiamo già avuto modo di (non) apprezzare per tutta la recensione, è questo: per arrivare a duecento e passa pagine, basta accoppiare ai precedenti artifici una serie interminabile di citazioni tratte da altre opere. Tzè, capirai, pensate voi, questo lo fanno tutti. E no, e no! Voi non rispettate il Maestro! È vero che un Fusaro qualunque può prendere e citare, e così completare un “saggio”, ma Veltroni è diverso. Lui non cita e basta, lui quelle citazioni le mette in bocca in maniera coatta ai suoi personaggi. Ad esempio, mentre quel gran pezzo della Viganò è in coma, Buonvino ha la brillante idea di leggerci un articolo su Keith Jarrett…
«[…] Ti voglio raccontare una storia, anzi te la voglio leggere. Aspetta che la trovo. La pubblicò Repubblica, tempo fa. […]. Ecco, trovato, parla proprio del giorno del concerto. Siamo nel 1975, tu eri appena nata: “A Colonia, Jarrett arrivò da Zurigo nel pomeriggio di un gelido giorno di pioggia che sembrava fatto apposta per mandare tutti al diavolo: non dormiva da due giorni, aveva un mal di schiena furioso, e quando nel pomeriggio salì sul palco per le prove, invece del pianoforte che aveva chiesto (un Bösendorfer Grand Imperial), ne trovò uno più piccolo […].»
Provo sentimenti contrastanti. Non so se invidiare Veronica, perché è in coma e non può sperimentare l’incredibile pallosaggine di suo marito, o se commiserarla, perché è comunque costretta a rimanere immobile con a fianco di Buonvino.
Dopo quel che abbiamo appena letto, mi sento di fare un appunto più ampio ai dialoghi. Eddai, sono assolutamente innaturali, e nove volte su dieci sono, ancora, soltanto degli spiegoni, malamente camuffati. Riflettiamo, ad esempio, su un ulteriore brano in cui si parla delle avventure fasciste di Pietro Caruso:
Gozzi scosse la testa: «Non doveva proprio essere un bel tipo, questo Caruso. La cosa che mi fa più tristezza è che durante il processo – l’abbiamo letto prima, ricordi? – si difese dall’accusa sulle Fosse Ardeatine dicendo che Kappler premeva per avere l’elenco, e che lui andò in albergo dal sottosegretario al ministero dell’Interno Buffarini Guidi, che dormiva, per ottenere il suo consenso a fornire la lista ai nazisti. E quello gli rispose, in pigiama: “Che cosa posso fare? Bisogna che tu gliela dia, se no chissà che cosa succede. Sì sì, dagliela.”»
Secondo il Maestro, questo è un dialogo da manuale. E sospetto che abbia una così alta opinione, per via di quel “ricordi?”. Ah, un inciso che dovrebbe rievocare uno scambio informale di battute fra amici. Sì, peccato che… ciò che segue non ha niente dello scambio informale! È una diarrea esplosiva di informazioni superflue e inutilmente dettagliate. In un vero dialogo, l’inciso “ti ricordi?” prelude a una breve (breve!) rievocazione dell’evento, a cui si associa un commento allo stesso. Qualcosa del genere:
Oh, ma ti ricordi quando abbiamo lanciato un gavettone alla professoressa di storia? Ci ha sospeso per una settimana, ma quanto ci siamo divertiti!
Il motivo per cui la linea di dialogo di Buonvino fra amore e morte non funziona, è che “ricordi?” serve a introdurre un’esperienza che entrambi i dialoganti hanno concretamente vissuto, e che pertanto non ha bisogno di essere raccontata nei minimi particolari! E, sopra ogni cosa, lo scopo di chi parla è esprimere il proprio giudizio personale, e magari ponderato, su un fatto ormai appartenente al passato, di solito un passato remoto: ma Gozzi non commenta proprio nulla, e oltretutto il fatto cui si riferisce è successo poco prima! Intuizione lapalissiana, per noi, il personaggio non sta parlando con un altro, il personaggio non ha proprio peso, è solo un’appendice dello spiegone, il vero protagonista di questa sezione del romanzo: e, indovinate? Noi nemmeno li vogliamo questi stramaledetti spiegoni!
A onor del vero, Veltroni affida ai dialoghi anche un altro ruolo, oltre a quello di veicolare informazioni noiose. Come quale? Be’, ma il ruolo di essere frasi comprese tra virgolette, no? Esatto: il nostro Maestro non ha idea che che le parti narrate richiedono un certo stile, e le parti dialogate ne richiedono un altro. Per lui, il segreto della differenza è racchiuso nelle virgolette. Risultato? I personaggi, che dovrebbero manifestarsi a noi come esseri umani completi, ci sembrano o dei robot stile Enciclopedia Omnia2000, oppure dei robot stile Chiara Valerio, che è anche più cringe. Insomma, queste sono le parole che il medico curante della Viganò rivolge a Buonvino:
«[…] Lei è un uomo forte, abituato a conoscere il dolore e la paura, posso quindi fare a meno di ricorrere alle accortezze – un eufemismo per coprire il giusto termine, che sarebbe “ipocrisie” – che usiamo con i parenti di malati che si trovano in situazioni analoghe. La vita di sua moglie è appesa a un filo invisibile, persino a noi. Lei è credente, commissario?»
Ah, sicuro, come no? Quando tua moglie è in bilico tra la vita e la morte, mi viene proprio di parlarti con tutti quegli incisi, quelle rettifiche, quelle precisazioni semantiche. Maestro, mi perdoni, posso farle presente che questo medico si esprime esattamente come il narratore onnisciente? In particolar modo… uh… anche lui usa un’infinità di incisi per comunicare un concetto semplicissimo!
Eddai, lettori, che senso ha da parte del medico usare un eufemismo, per poi interrompere il discorso per precisare che si tratta di un eufemismo, facendo così un’autocritica, che prelude a… ? Eh? Lo ripeto, il discorso riguarda la moglie di Buonvino che potrebbe m-o-r-i-r-e! Sticazzi degli eufemismi, no?!
Ciliegina sulla torta, guardate (dico: guardate!) come parla Giorgio Caruso! Abbiamo già notato di sfuggita che il suo amico barbone spiegone usa uno strano “destrutturato”, ma vi assicuro che il modo in cui il nostro clochard depresso confida che vuole suicidarsi è qualcosa di ancor più incredibile:
Dev’essere un gesto, non un atto. Deve aprire un sipario, non chiuderlo. Lo sto preparando meticolosamente, e per farlo ho chiesto aiuto a un mio amico conoscente – non potrei certo chiamarlo in altro modo –, al quale pagherò il disturbo, indennizzandolo per le eventuali spiacevoli conseguenze della sua collaborazione.
Ah, ah, ah, ah! Cioè, Caruso è un uomo disperato, che ha perso tutto e che prova una colpa invincibile per i crimini del padre, e… e parla come un direttore di sezione dell’INPS? Maestro, ma questo è un burocrate che vuole risarcire un suo collega burocrate per una faccenda di burocrati, dov’è il pathos del conflitto interiore, dov’è la paura, dov’è la sconfitta emotiva? Siamo tornati alle “pratiche del godimento”, anzi non ci siamo mai mossi da lì! Ah, ah, ah, ah!
Va bene, dai, ultimissima cosa e poi giuro che chiudo la recensione. Ebbene, cazzate, pallosità, incongruenze, dialoghi assurdi: sì, però ci sono anche le situazioni… uhm, non saprei come qualificarle… le situazioni “WTF”. E l’esempio migliore per illustrare questa fantastica categoria è il seguente:
Olivieri e Gozzi si voltarono verso Cecconi, il quale, a gesti, fece capire che non aveva potuto avvertire il commissario in quanto la sera precedente si trovava già in clinica, e lui non aveva ritenuto opportuno disturbarlo per una cosa che non era urgentissima e che, soprattutto, richiedeva molte spiegazioni.
Oh, il neg… il ner… il mul… il quasi bianco onorario, finalmente! Eh, eh, sentivo la sua mancanza! Ed eccolo qui che, usando i suoi poteri di esponente di una minoranza che è una minoranza però perfettamente normale, cioè è normale al contrario (vi ricordo, a mo’ di disclaimer: io non prendo in giro Cecconi, prendo in giro i buffi tentativi di Veltroni di non sembrare un razzista), riesce a fare… no, un momento, cos’è che fa? Occhei, forse capisco il senso: il Maestro intendeva dire che Cecconi spiega senza proferir verbo che non ha potuto avvertire Buonvino, e poi voleva precisare il motivo per cui Cecconi non ha potuto. Solo che, meh, infilando tutte le informazioni così, nella stessa scena e nello stesso periodo, sembra che Cecconi comunichi a gesti un concetto estremamente complicato! E dunque, non so voi, ma non riesco a togliermi dalla testa che Cecconi divenga il negro (sì, proprio così) per eccellenza, il “sì buana” scimmiesco che non può imparare la lingua degli uomini e che comunica tutto, ma proprio tutto!, a gesti. Maestro, idolo, ti prego insegnaci la via: insegnaci a non essere razzisti essendo razzisti, insegnaci ad abolire gli stereotipi usando stereotipi al cubo!
Multi(per)verso Buonvino
Basta, vi libero. Walter Veltroni è una garanzia, lettori, ogni volta, devo confessare, ho un po’ paura che il romanzo mi deluderà, invece niente, è sempre una soddisfazione. Anche questa volta, in cui il Maestro mi è parso sottotono, come ho già detto di sfuggita. Sicuramente qualcosa non è andato dritto, secondo me il nostro non si è molto divertito: nessun bambino sfilettato, nessuna famiglia morbosa, nessuna perversione sessuale, nessun cadavere masticato, sputato, decapitato, violentato, rimasticato e risputato. Non è da Veltroni, no, Buonvino tra amore e morte deve essere stato davvero un parto, se in esso c’è tutta questa assenza di gore.
Ma ehi, voglio che il Maestro sappia che il romanzo è riuscito comunque un capolavoro: è perfetto in tutto e per tutto, non sfigura assolutamente accanto ai libri che l’hanno preceduto. Inoltre, quest’ultimo capitolo della serie non avrà il gore degli altri, però vi dico che a mio parere ha addirittura qualcosa in più. Dopo aver riflettuto a lungo, ritengo che tutte quelle contraddizioni (il marito fidanzato, la ’ndrangheta camorra…) non sono affatto delle contraddizioni: sono la prova che il multiverso Buonvino esiste. Noi in realtà non abbiamo analizzato il seguito di C’è un cadavere al Bioparco, abbiamo esaminato una diramazione spaziotemporale, un “what if” a partire dagli eventi canonici che ben conosciamo. Abbiamo scoperto un mondo alternativo in cui la Viganò non è mai stata sposata prima delle nozze con Buonvino, e abbiamo visto che cosa sarebbe successo se lei fosse sopravvissuta all’agguato.
Ma allora… allora… la domanda è una sola: che cosa è canonicamente successo alla Viganò? Mio Bio, il multiverso è un concetto di cui sappiamo spaventosamente poco!
E in attesa di colmare questa nostra lacuna, lettori, io vi invito caldamente a recuperare tutta la saga di Villa Borghese. Se non altro, per le grasse risate causate dalla prosa veltroniana, sono sicura che farete una buona lettura!