Premio (Mezza)Strega 2023
L’orrida cinquina
Nel panorama letterario italiano, c’è un premio assegnato con onestà da una giuria sincera e disinteressata. Un premio che riconosce le capacità di uno scrittore, facendo entrare a buon diritto la sua opera fra quelle meritevoli di uno studio attento nei tempi a venire. È un premio associato a un liquore, caldo e pieno di spirito.
Questo sigillo di garanzia è il Premio (Mezza)Strega. Sì, il premio che Il pesciolino d’argento è orgoglioso di conferire all’autore del libro più brutto, più raffazzonato, più puzzone e peggio scritto che sia stato recensito nel corso dell’anno. Come dite? Il liquore? Be’, lettori, è ovvio che sia associato al premio: dopo aver letto tutte le porcherie in lizza, serve per digerire (o per dimenticare) le varie brutture.
Ma bando alle ciance! Nella seguente, orrida cinquina troverete di tutto: oscenità, dialoghi atroci, personaggi irrealistici, trame assurde e tanta, tanta, tanta ignoranza. Tanta.
Perciò cari lettori, indossate il vostro smoking migliore e godetevi la classifica ufficiale, definitiva e distruttiva del premio più dissacrante e controcorrente, il Premio (Mezza)Strega!
5 – La tecnologia è religione, di Chiara Valerio
Quinto piazzamento per questa schifezza. Non fraintendetemi, so bene che il canovaccio de La tecnologia è religione è probabilmente il più diffuso in assoluto, quando si parla di scrittura: certo, ogni giorno è vergato da un ragazzino brufoloso sulle piastrelle del cesso scolastico, da una mamma stressata sulla lista della spesa, da uno strafattone sul tovagliolo che poco prima ha usato per pulirsi i residui del vomito chimico, da un giornalista sulla prima pagina del quotidiano nazionale…
Però, vedete, il fatto è che La tecnologia è religione ce lo vendono come “saggio”. Va be’, il saggio cazzata, no? Pure di questi ce ne sono un sacco. Ricordo di averne letto uno di Zecharia Sitchin, che voleva parlare dei Sumeri che erano tipo alieni, ma che poi finiva per chiacchierare di stupide interpretazioni della Bibbia, cose così. Divertente. E con un certo cult following: infatti, se non mi sbaglio, un decennio fa circa, compariva addirittura in alcuni servizi di Studio Aperto (dopo i due minuti obbligatori di cronaca e prima dei ventotto di gossip e tette). Con questo, capite, non mi scandalizzo per il fatto che permettiamo la pubblicazione di “cose serie che però sono idiote”, lo fanno tutti, per primi i nostri padroni; e nemmeno mi scandalizzo per il fatto che le suddette idiozie abbiano chi le prende per buone. Ehi, siamo tutti liberi di seguire quello che ci piace, no?
Solo, c’è una piccola differenza fra quel che accade qui e quel che accade là: altrove, i saggi cazzata creano delle comunità di esaltati, più o meno influenti, ma non sono tenuti in conto dalla cultura “alta”. Le istituzioni culturali non prendono seriamente gli antichi astronauti e cose del genere, non organizzano simposi per dibattere sui testi di Sitchin o di Von Daniken. Almeno, ce ne vuole prima che organizzino tali simposi, gli esaltati di cui sopra ne devono fare di pressioni…
In Italia, invece, accade il contrario: il grande pubblico, quello volgare e ignorante (come mi insegnano i discorsi “in difesa della democrazia” di certi nostri capoccia), se ne sbatte, mentre le istituzioni culturali appendono il fiocco marrone fuori dai loro uffici e annunciano immediatamente la nascita di un nuovo, piccolo miracolo letterario.
Va be’, siamo il Paese in cui, con il “bonus cultura” (soldi delle imposte, eh, se volete sapere che fine fanno), puoi acquistare “Cagati addosso”… no, aspè, non era così il titolo… uh… Scoreggiare meglio, mi pare, sì… di che mi stupisco?
Mi stupisco, perché può darsi che Scoreggiare meglio sia un libro in fondo simpatico, mentre La tecnologia è religione (anch’esso acquistabile col bonus cultura!) è indiscutibilmente una merda. Sul serio, c’è da essere contenti che Chiara Valerio sia continuamente intervistata con lo scopo di spiegare a noi cafoni che cosa sono la tecnologia e la religione, quando il meglio del suo “lavoro”, riguardante i due argomenti, si manifesta nella scoperta che ci sono “quattro Vangeli sinottici” e che Alexa è “l’assistente digitale Google”. Cazzo, niente male davvero, soprattutto perché né la Chiesa cattolica né Amazon hanno avuto da ridire!
Ad ogni modo, già abbiamo discusso della pigrizia e delle stronzate scientifiche del saggio, ricapitolare non avrebbe senso (ma avrebbe comunque un po’ più di senso di quel che ha scritto la nostra autrice); quel che ha senso, invece, è una piccola carrellata di ulteriori cacchiate che si trovano fra le pagine de La tecnologia è religione. Per esempio… uh… queste specie di citazioni postmoderne:
Adoro anche quando gli assegni vengono incassati perché so di non essere una truffatrice né praticamente né moralmente. Il cielo stellato dentro di me e la legge morale fuori di me. Revenge Kant.
La forza è la causa, come sappiamo da Landau e Guerre stellari. Purtroppo, se non è sempre facile stabilire le cause, è semplicissimo fraintenderle. (Pochissimi Jedi).
In realtà, a essere filologici, Siri risponde come Pina a Ugo Fantozzi. (Pina, ma tu mi ami?, Ugo, io ti stimo moltissimo).
Bello, e… e boh. Cioè, lettori, “boh” è esattamente quel che ho scritto a margine dei suddetti brani, dopo averli riportati nei miei appunti. Durante la stesura della recensione li avevo scartati immediatamente, perché, sul serio, che si può dire a commento? Sono solo delle puttanatine così, tanto per, dei titoli e dei riferimenti buttati lì per far scena: se abbiamo tempo da perdere e vogliamo sfasciarci la testa per scoprire cosa significano quegli stralci, scopriamo che pressappoco essi valgono, rispettivamente, “credo di lavorare onestamente”, “cito Landau perché ci devo mettere un po’ di scienza, ma è ovvio che Guerre stellari è il top”, “ah, ah, ah, ah, sono nazionalpopolare”. Woooooow, mind blowing! Quanto mi sento arricchita dopo questa roba! Meno male che il citazionismo mi ha aiutata a capire , alleggerendo la profondità del contenuto e facendomi divertire!
Come? Dite che quelle sono in fondo delle semplici supercazzole? Be’, be’, io ci andrei piano. Ci andrei piano perché le supercazzole sono palesi, hanno una forma inequivocabile. Ne abbiamo viste, nella recensione, ma ho da proporvi delle chicche che avevo tagliato durante il montaggio finale:
Mi guardo parlare nello schermo e penso Non siamo in grado di misurare la verità o la plausibilità delle nostre parole senza il corpo. Si può fare, ma non siamo ancora in grado di farlo. Si può fare, ma non lo abbiamo ancora fatto. Le nostre verità hanno una prossemica. Sappiamo giudicare, abbastanza esattamente, se una persona mente o no, quando l’abbiamo davanti, col corpo.
Studiare scienze è il contrario di capire tutto, anzi è ricordarsi, a ogni passo, che tutto non si può capire e che alcune cose, volta per volta, epoca storica per epoca storica, non sono spiegabili, ma possiamo esercitarci a ipotizzare, immaginare, semplificare il mondo per comprenderlo e aiutare altri a farlo. Studiare significa non accontentarsi della nostra immagine logico-razionale del mondo. Studiare significa accettare di sbagliare, e accettare gli sbagli degli altri. Come passi di un ininterrotto processo conoscitivo.
Le briciole di Pollicino sono elementi di una serie divergente. Bisogna prestare attenzione a come si scompone la realtà e alla natura delle briciole. Non è detto che gli schermi che ci riquadrano costituiscano un intero.
La differenza tra scienza e tecnologia è semplice. Il verbo della scienza è provare, quello della tecnologia credere, nella misura in cui tutti siamo abituati all’esperienza di premere un tasto o toccare lo schermo di un dispositivo e vedere qualcosa accadere.
[…]
Se dunque, definito praticamente, il verbo della tecnologia coincide col telecomando o con spegni-e-riaccendi, ed è credere, e poiché la tecnologia, suo malgrado, è diventata antiscienza, non c’è da stupirsi che ci siano singoli e gruppi di persone che credono o no nei vaccini, credono o no nel 5G […].
Se fossi una tosta critica letteraria americana a questo punto commenterei: “what the fuck is she rambling about?!”, e mi beccherei un sacco di visualizzazioni e di commenti entusiastici dagli utenti. Invece non sono americana, pertanto mi tocca accontentarmi di usare l’espressione “marò, che cazzo dice?!”, aspettando di ricevere l’avviso di garanzia per… boh, diffamazione, razzismo… terrorismo. Sul serio, e di nuovo, che vi aspettate? Le dichiarazioni che ho riportato sono incommentabili, nel senso letterale del termine: non avendo nessuna possibilità di capire che diavolo intendono comunicare, un silenzio confuso e irritato è tutto ciò rimane.
Oddio, a essere sincera forse ho due parole da dire. A proposito del primo brano, che mi sembra riguardi… boh… tipo le microespressioni di quando si sta mentendo?… auguro buona fortuna alla nostra autrice, qualora si imbattesse in uno psicopatico o in un tipo assolutamente convinto delle proprie idee: sono sicura che, con un po’ di culo, riuscirà a scoprire se le stanno rifilando delle balle. Mi raccomando, delle “balle”, ossia delle menzogne, non delle falsità in generale: perché se le menzogne sono falsità, non tutte le falsità sono menzogne. Una scienziologa come la nostra autrice dovrebbe saperlo, e dovrebbe sapere pure che i no vax e gli anti5G non è che “non credono nei vaccini e nel 5G, rispettivamente”, cioè non credono che… esistono… più concretamente ritengono che i vaccini siano dannosi e che dannoso sia il 5G. Ehi, è una sottigliezza importante, in un saggio non bisogna essere faciloni e un tanto al chilo, no?
Ma sticazzi, “in un saggio”… ’ndo sta il problema? Oggigiorno un saggio lo può scrivere chiunque, che scherziamo? Non ci sono più requisiti minimi, il mercato della saggistica è stato liberalizzato completamente, tant’è che non è richiesta nemmeno una basilare comprensione delle inferenze logiche:
Se esiste una alterità, una differenza di sostanza, tra l’umano e il divino, allora la medesima differenza di sostanza, la stessa alterità, vige tra animali umani e resto. Senza considerare minerali e rocce e funghi e macchine calcolatrici e dispositivi vari. Più vita e meno vita. Vite che valgono più o meno della nostra. La nostra vita che vale più o meno di altre.
Stronza io che mi sbatto! Capito, lettori? Se abbiamo come premessa che “la sostanza divina è diversa dalla sostanza umana”, allora segue immediatamente che “la sostanza umana è diversa dalla sostanza di rocce, funghi e macchine”. Sì, certo, a me sembra proprio una sequenza P╞ Q, che NON è una sequenza valida, però… eh… che ci posso fare? Io ho studi(cchi)ato logica solo per conto mio, evidentemente mi manca quel quid che la Valerio invece ha acquisito dopo un’intenso training presso un Pai Mei booleano. D’altronde, a me nemmeno sarebbe venuto in mente che se tiri in ballo la “sostanza” allora è come se stessi parlando di “vita”, e che “sostanze differenti” è equivalente, o implica, “vite dal diverso valore”.
E va bene così, basta con ’sta roba della scienza, ché tanto, l’abbiamo visto nella recensione, il cuore de La tecnologia è religione riguarda i pensierini della Valerio. Pensieri di questo tenore:
Non avevo ancora letto Il Capitale, ma la monaca di Monza e il suo ricciolo sfuggito alla cuffia avevano già fatto capolino e io avevo acuito lo sguardo, il convento non era più quel luogo al sicuro dai sentimenti di competizione che tanto mi annichilivano.
(Segnale del telecomando che rimbalza sul muro, bambina a cui piacciono le bambine ma non si può dire).
Poi penso che avrei voluto sposare Lady Oscar (cartone animato giapponese), fare l’amore con la contessa Olenska (protagonista de L’età dell’innocenza di Edith Wharton), correre tra lampi di blu con Jeeg robot d’acciaio (altro cartone animato giapponese), raggiungere il cielo del Loto con Scimmiotto e mi dico, ma sono i sentimenti e i desideri la realtà o il tatto?
Oh Bio Parco, ti piace la ciccia baffa, va bene, abbiamo capito, chi se ne frega?! Il libro è intitolato “La tecnologia è religione”, non “Cosa vorrebbe per colazione Chiara Valerio”!
Ma sì, dite voi, non c’è nulla di male a parlare di sé, delle proprie inclinazioni sessuali, dei propri desideri: concordo totalmente, non ho da recriminare sulla vita della nostra autrice, né in generale sulla sua voglia di parlarne, ci mancherebbe altro.
Poi, però, continuate: dopotutto, i diari sono interessanti, specie quando non si trattengono e vuotano il sacco, perché sono un’opportunità unica di conoscere l’intimità di uomini famosi. Sì, lettori, è vero. È vero quando si parla di Churchill, di Ciano… ma… ma Chiara Valerio è famosa principalmente per aver scritto questi cacchio di diari mascherati da saggi! Cioè, che cazzo, cosa c’è di interessante per noi nello scoprire finalmente le inclinazioni erotiche della donna già famosissima per aver rivelato le sue inclinazioni erotiche?!
Pensateci, pensateci, io non ho fretta, e se mai arriverete a una risposta, vi prego, comunicatemela, così potrò alleviare un po’ il mio disappunto nei confronti del saggio, non avendo trovato per esso una minima ragione di esistere. No, perché, ora come ora, l’unica cosa buona che ho trovato è questa:
Divisione e proporzione sono azioni matematiche.
Pur con tutta la buona volontà, mi sembra troppo poco per poter salvare La tecnologia è religione. Anche se… uhm… mentre scrivo è il periodo delle Feste… lo spirito natalizio… dai, forse posso anche sbilanciarmi un po’ e…
I gesti magici sono operazioni matematiche. […] [E], come tutte le questioni matematiche, sono validi in un certo ambito e inesistenti in un altro.
Vaffanculo, libro.
4 – Le regole dello Shangai, di Erri De Luca
Erri De Luca conquista la quarta posizione. Brusio, lettori? “Dirty” Erri meritava di più, secondo voi? Vi capisco. Nella recensione abbiamo arrostito di tutto: personaggi cretini, vicende assurde, buchi di trama colossali, stile sciatto, addirittura doppi sensi mai escogitati prima da intelletto umano. Credetemi, Erri non poteva ambire al podio: ma non per suo demerito, no, no, è che, incredibile a dirsi, ho trovato dei libri ancor più scemi. Quindi, (dis)onore a questi ultimi, e comunque un grande e sentito applauso alla sbravura che De Luca ha messo in opera nel suo romanzone di circa un centinaio di pagine.
Ho ricordato che la recensione era bella corposa. E che Le regole dello Shangai è breve. Eh. Cosa ci resta, dunque, per riderci su? In verità, lettori, voglio ritornare sui dialoghi. Ne ho discusso abbastanza, vero, ma secondo me, se riflettiamo ancora un po’, riusciamo a cavarci ancora del succo.
Il principale motivo per cui m’ero lamentata era l’assenza di beat nelle battute che si scambiano il vecchio e la zingara. Sì, il principale, mica l’unico. Parliamoci chiaro: i dialoghi non soltanto sono mosci, sono pure irrealistici! Ve lo giuro, a un certo punto della lettura ho chiuso gli occhi e mi sono inventata delle scene dal nulla, così, tanto per provare almeno per un attimo l’emozione di vedere due personaggi che interagiscono. Poi, purtroppo, m’è toccato ritornare alla realtà de Le regole dello Shangai, e la realtà è che il vecchio dice una cosa e la zingara reagisce come se si trovasse in un’altra situazione (o il contrario, la zingara parla e il vecchio flippa per conto suo). Considerate un po’ il seguente esempio:
– Che ci fa una donna in giro d’inverno in mezzo ai monti?
– Che donna? Ho quindici anni.
– Dalla voce non si direbbe.
– La voce mi serve a scoraggiare gli uomini.
– Sono già scoraggiati, la generazione maschile più scoraggiata della storia umana.
– Che ne sai tu degli uomini? Lo posso sapere io di che specie sono, siete.
– Per ora sono della specie che ti ospita.
Occhei, tranquillo vecchio, contrariamente a quel che si crede non è illegale strizzare l’occhio a una quindicenne, non devi mettere le mani avanti e spiegarci che lei sembra più vecchia. Va be’, a parte questo… eh… e che cacchio, vi pare che una ragazzina che praticamente ha ancora tutte le sue uova, rimproveri a un sessantenne che lui non conosce gli uomini e lei invece sì?! Oh, è una zingara, capirai… eh, pensate così? Bravi, lettori, siete dei bei razzisti, ma comunque… anche se fosse che la ragazzina è “navigata”… perché cazzo il vecchio risponde come se nulla fosse?! Non dovrebbe forse essere che il vecchio le risponda male? Non dovrebbe far notare che, per età e perché appartenente alla categoria, lui ne sa sicuramente più di lei? E, a quel punto, la zingarella dovrebbe provare a difendere la sua posizione, magari dicendo che nei suoi quindici anni ha visto cose che nemmeno un sessantenne può aver visto, oppure che solo una donna può davvero conoscere gli uomini, perché è con le femmine che i maschi danno il peggio di loro… bla, bla, bla.
Insomma, poiché il vecchio e la zingara SONO DIVERSI e hanno opinioni diverse, ci aspettiamo che si crei una discussione. Magari una discussione in qualche modo “amichevole”, ma in ogni caso una discussione. Invece no, ciccia!, la zingara conosce i maschi meglio di un maschio perché sì, factos; e il vecchio è perfettamente contento della cosa, si rassegna subito e in sostanza se la cava con un “ok, dude”. Apperò, tipica merda che succede ogni giorno, non trovate?
Grazie al cielo il dialogo prosegue. Prosegue, ovviamente, aggiungendo stranezze su stranezze, tanto da farci sentire il bisogno di chiamare il medico per sincerarci di non avere un’intossicazione alimentare:
– Non hai paura di darmi le spalle?
– Prima ti ho chiesto chi sei. Era per sentire la voce, non per sapere.
Non importa chi sei. Se sei la morte accomodati, morte mezza morta di freddo.
– Sono di gente Sinti, in italiano si dice gitana, meglio di zingara. Scappo dalla famiglia per via di un matrimonio combinato con un vecchio di cinquant’anni.
– A che età cominciano i vecchi, dalle tue parti?
– Da trenta.
– Allora sono vecchio già da più di trent’anni.
– Mio nonno è morto meno vecchio di te.
– Mi dispiace per lui.
– Sono scappata due sere fa, dopo la festa di fidanzamento.
[…]
Tutto a posto raga, niente di che, c’è solo una sposa bambina in fuga, che volete che sia. Porca puttana, Erri, ti sembra il caso?! C’è un tizio qualunque che se ne sta per i cacchi suoi, e gli piomba addosso una sconosciuta, che dice di stare scappando: non è che magari si potrebbe allarmare un pochino, eh? Cioè, fossi nel vecchio, chiederei qualche spiegazione, così, ma giusto per: sapete, tanto per farmi un’idea delle grane cui sto andando incontro.
Ah, be’, ma è ovvio, parlo io che sono una persona normale, il vecchio non è una persona normale. No, lettori, non nel senso che è anormale… che poi, forse… ehm, no, è per quella storia dello spionaggio, vi ricordate che il vecchio è uno 007, sì? Ecco, allora se già l’omo qualunque sarebbe (giustamente) sospettoso, immaginate che per una spia… a maggior ragione per una spia! Per un doppiogiochista di professione lo stato di allerta dovrebbe essere quello di default, no? Insomma… ma come cazzo fa il vecchio a sapere che la zingara non è una spia nemica o direttamente un’assassina su commissione?! Dà per scontato che non lo sia, cazzo gli frega a lui, meglio chiacchierare del più e del meno. Complimentoni vecchio, proprio un bel lavoro, hanno fatto bene a intitolare col tuo nome la scuola di spionaggio (anche se il nome non contava una mazza, diceva Erri nell’introduzione) in Russia. Grande.
Non fraintendete, non se la cava meglio la zingara! All’inizio si è chiaramente mostrata diffidente ed elusiva nei confronti del vecchio, palesando un forte disagio a parlare dei cazzi suoi con un tizio trovato in mezzo alle Alpi. Perciò, dovrebbe essere sollevata quando emerge la noia del suo interlocutore, il quale non la costringe a sbottonarsi (almeno, in senso figurato… sui dettagli della sua vita privata). Eccallà: anziché essere sollevata e rinchiudersi in un riservato mutismo… la zingara decide che è arrivato il momento di vuotare il sacco, come abbiamo appunto visto nell’ultimo brano riportato. Inteso? Il vecchio sentenzia che non gli interessa sapere niente, e lei fa quello che tutti fanno quando capita una situazione del genere: se ne sbatte e prende a raccontargli tutto lo stesso, LOL.
Ciliegina sulla torta, è strepitosa la domanda che il vecchio pone, dopo che la zingara ha spiegato perché è in fuga. Oh, ma cazzo, ti sta raccontando che la sua famiglia dà in sposa (questo non si può fare in Italia, ricordo: legalmente puoi fare zicchezacche, ma non puoi convolare a nozze) una quindicenne a un cinquantenne, e il tuo primo pensiero è cercare di capire quanto lei ti vede vecchio? Amico, tranquillo: capisco che dopo aver notato la trasformazione in Enrico Papi di Gabriel Garko e di Zak Bagans, una certa strizza te vie’, a pensare di star invecchiando, però ci sono dei rimedi, calma! Ma no, via, puntualizzate voi, sempre seriosi: la domanda del vecchio lascia intendere semplicemente che lui non è interessato a quanto gli sta raccontando la zingara. Ehm, occhei, che bella manifestazione di empatia… e… e allora perché non la interrompe e basta, invece di tirar fuori interrogativi cretini?!
Mi sto incacchiando per niente, tanto la zingara continua a sbrodolare la sua storia, nonostante le prove che il vecchio se ne sta sbattendo la ciolla…
Va bene, dai, voglio concludere spiegandovi che c’era un modo per correggere il dialogo e renderlo decente. Lo faccio perché voi siete acculturati ed intellettualmente esigenti, e poi a me serve di allungare un tantino il brodo, eh, eh.
Allora, per farvi capire, voglio che mandiate la vostra memoria al classico episodio La gentilezza di Jigen (ep. 129), della serie Le nuove avventure di Lupin III. Jigen sta badando agli affari suoi, mentre si trova in una specie di Cuba o di Angola fasulle: ebbene, a un certo punto, nella sua camera d’albergo fa irruzione, dalla finestra, una donna di nome Sandra. È evidente che Sandra è nei guai, e infatti è inseguita dalla polizia. Subito, Jigen la nasconde per evitare che venga arrestata, e una volta superata la perquisizione degli agenti, ecco che è il momento di chiedere spiegazioni…
J: «Mi tolga una curiosità, lei chi è? E perché è inseguita dalla polizia?»
S: «Finché non se ne saranno andati, starò qui.»
J: «Va bene, ma almeno mi dica che cosa ha fatto. Non ho alcuna intenzione di finire dentro per colpa sua.»
S: «Be’… sono entrata nel palazzo del presidente.»
J: «Ah, si può sapere che cosa diavolo ci è andata a fare?»
S: «Questi non sono affari che la riguardano.»
J: «Ahah! È entrata qui dalla finestra, la polizia ha perquisito la mia camera per cercarla, indossa i miei vestiti e nonostante tutto dice che la cosa non mi riguarda! Be’, allora se ne vada.»
[Sandra esita]
J: «Insomma, se neanche vuole andarsene, mi dica almeno come si chiama, no?»
S: «Mi chiamo Sandra.»
Che lezione ci dà questo scambio di battute? Più d’una, in effetti.
Prima di tutto, Jigen ha una reazione perfettamente normale. È un personaggio molto positivo (forse più di quanto lo sia Lupin stesso), e perciò si risolve immediatamente ad aiutare Sandra, senza fare storie. Jigen è un buono, d’accordo, ma non è fesso: perciò, una volta passato il pericolo, diventa sospettoso e alza la guardia, pretendendo di sapere in che cosa si sta invischiando.
Altro elemento da notare: Sandra è elusiva, non vuole sbottonarsi, e, coerentemente con la sua riservatezza iniziale, per tutta la durata del dialogo fa resistenza alle domande incalzanti di Jigen, ora cercando di cambiare discorso ( “«Finché non se ne saranno andati, starò qui.»”), ora rispondendo in maniera molto vaga (“«Be’… sono entrata nel palazzo del presidente.»”), ora respingendo con decisione le richieste di spiegazioni (“«Questi non sono affari che la riguardano.»”). Insomma, non la vediamo di punto in bianco lasciarsi andare alle confidenze.
Ultima osservazione, non meno importante: Jigen è interessato a quello che dice Sandra, non parla con lei solo perché non c’è nessun altro. A riprova di ciò, quando Sandra racconta di essere stata nel palazzo del presidente, Jigen non le fa domande che non c’entrano niente, non le domanda se il palazzo è arredato con gusto o se il presidente dorme con la papalina: rimane bensì in tema, e sprona la donna con un interrogatorio mirato.
In breve, non ci è difficile credere che Jigen stia effettivamente interagendo con Sandra, vero?
E chi se ne fotte! Questo, almeno, è l’insegnamento che ricaviamo dalla lettura e dallo studio di un grande quale è il nostro Erri De Luca. Sapete che c’è? È inutile imparare cose nuove, se poi non si mettono in pratica. Pertanto, dopo questa io passo e chiudo, e d’ora in avanti comincerò seriamente a fottermene de Le regole dello Shangai. Anche perché devo ancora parlarvi dei pesi massimi che vi ho promesso. Oh, cacchi amari…
3 – Quello che ti nascondevo, di Marina Di Guardo
Ecco il podio, ecco Dite! Lettori, qui si fa sul serio. Qui, ah-ah!, bisogna capire che si sta per incontrare gli dei del trash, avoja! Ebbene, con questo terzo posto di tutto rispetto, Marina Di Guardo ha avuto una piccola rivincita: sì, perché Dress code rosso sangue, a posteriori (oh già, proprio in quel senso), meritava di essere incluso tra i finalisti della seconda edizione del Premio (Mezza)Strega. Pazienza, appunto quest’anno Marina c’è, e appena entrata la troviamo già sul podio. E poi, dai, Quello che ti nascondevo è praticamente una mutazione di Dress code rosso sangue, quindi la nostra autrice può star sicura che la sua prosa gronda trashume a iosa.
Nella recensione, avete sicuramente notato da voi molti punti di contatto fra i due romanzi, ma mi va di essere ancora più esplicita. Ad esempio, entrambi i protagonisti sono traditi dai loro rispettivi partner frigidi, ed entrambi intrattengono una relazione con un serial killer. Eh, eh, eh. Eh. Che strano, non trovate? Mari’, tutto bbbene, sì?
Vabbè. Poi c’è che gli eroi puntualmente discutono dei loro progressi nelle indagini in vari localini trendy di Milano.
Infine, compare un passaggio segreto che risolve la situazione. Occhei.
Fin qui, tutto regolare, almeno per lo stile “giallo chic (e un po’ psicotico)” che la Di Guardo può ben fregiarsi d’aver inventato. C’è però un ulteriore topos che la nostra autrice riutilizza in Quello che ti nascondevo, e di questo topos non ho fatto menzione, a suo tempo. Rimedio: si tratta dell’identità segreta.
Oh, ricordate? In Dress code rosso sangue, la spalla gay, Fabio, doveva aiutare la protagonista a intrufolarsi in un esclusivo cruising bar: come ci riusciva? Esibendo una carta d’identità fasulla con tanto di foto sfocata (che volete, nessuno avrà da ridire se il documento che serve per identificarsi non consente di identificarsi!), fatta “per gioco in un mercato turistico in Thailandia”. Eccerto, perché ovviamente farsi una carta d’identità falsa è la prima attività ludica che ti viene in mente, quando ti trovi all’estero, no? Be’, sì, se ti trovi in Thilandia. A fare. Certe. Cose. Lasciamo perdere…
Ebbene, anche Domenico, lo zarro fedifrago di Quello che ti nascondevo, camuffa la sua identità… con un documento falso… e di nuovo con le foto sfocate… ah, crap!
Appunto, per rimorchiare in tutta pace su Tinder, Domenico usa il nickname “Egidio 40”, e una serie di foto in stile “avvistamento del bigfoot”:
Egidio 40, imprenditore, anni quaranta [LOL, ma non mi dire!]. Le foto che aveva inserito erano un po’ sfocate, poco chiare, probabilmente anche un po’ datate […] dagli scatti non si capiva chi fosse realmente.
Famola breve, va’, tre cose bisogna notare.
Primo: intanto, Domenico sarà anche uno zarro, ma è soprattutto un imprenditore, a capo di una “fiorente azienda dolciaria” (uè… ma che niente niente è la Balocco?!) e dotato di Mercedes. Perché cazzo prova a rimorchiare su Tinder al pari di un incel qualunque?! Marina, mi fa strano doverlo spiegare proprio a te, che di sicuro conosci più ricconi di quanti ne conosca io, ma gente come Domenico tromba ai festini esclusivi, tromba sul ponte della barca a vela, tromba nella sauna del circolo sportivo, tromba nell’ufficio personale con la segretaria gnocca assunta solo a quello scopo! Domenico è un uomo ricco sfondato, è un imprenditore, Marina, è uno che può permettersi di frequentare ambienti pieni di figa di qualità, non ha bisogno di procacciarsi la gnagna su app per poveri che non hanno idea di cosa sia un bot! Fra l’altro, lo zarro è tanto attento alla riservatezza e alla privacy, al punto da utilizzare addirittura una carta d’identità falsa per il check-in… e poi si mette in esposizione su un’app di incontri, magari senza neppure cancellare la cronologia? Ma che dico “magari”, di sicuro. Ah, che c’è da preoccuparsi? Usa le foto sfocate, eh!
Le foto sfocate, già, ecco la seconda osservazione che mi sento di fare. Pensateci, lettori: come è possibile che Domenico non sia riconoscibile dalle foto?! Anche se una foto non è perfettamente nitida, siamo comunque in grado di riconoscere la persona ritratta, se è un nostro conoscente. Mia ipotesi personale? Oh, no, il bello è che ce ne dà conferma il romanzo stesso, perché si premura di raccontarci che Giacomo riconosce, proprio su Tinder, alcuni suoi amici sposati, e nonostante questi deficienti pure abbiano pubblicato foto “poco chiare”:
Era stato facile scovare gli account dei suoi amici, forse convinti di essere protetti da nomi e foto poco chiare.
Ma ciucciati il calzino, Marina, e che cazzo! Giacomo riconosce i suoi amici, e riconosce perfino Domenico, che ha visto un paio di volte in tutta la sua vita, in un paio di foto (nitide) buone per un articolo di Gente, ma… ma Domenico non è mai stato riconosciuto da nessuno dei suoi amici, colleghi o parenti, e s’è degustato in santa pace per anni la migliore selezione di passera etichettata Tinder?!
E con questo arriviamo al terzo punto cretino di questa storia cretina. Cioè… eddai… ma come è possibile che grazie alle foto sfocate Domenico riesca davvero a rimorchiare? Un qualunque utente col ciondolino fatica a ricevere risposte anche usando foto scattate da professionisti, con luci e scenografia, figuriamoci proporsi con quelle scattate da un Nokia 3310 (lo so che non aveva la fotocamera, that’s the joke) all’Area 51… verrebbe “swippato” subito, no?
No! Infatti, leggiamo che una certa Sofia, una bella topa con “i lineamenti decisi, il fisico slanciato, il seno prosperoso”, che è solita attirare tutte le attenzioni maschili ovunque vada, rimane sessualmente suggestionata all’istante, appena posa lo sguardo sul profilo di Domenico:
Lei sbuffò, rimase zitta per qualche secondo, poi si decise a parlare.
«L’ho conosciuto su Tinder, mi aveva colpito subito. […]»
Ma cosa la colpisce, l’alone bianco al posto della faccia?
Uffa, basta, molliamo Domenico e le sue foto sfocate. Ma non molliamo Quello che ti nascondevo, eh, eh!
Sentite questa: senza una ragione, la Di Guardo a volte tratteggia l’eroe Giacomo in maniera veramente, veramente inquietante.
Ad esempio, di punto in bianco Giacomo è ossessionato dal mettere incinta Elena, e ciò benché la stia frequentando praticamente da un paio di minuti:
[…] pensò che sarebbe stato bello metterla incinta proprio in quella sera di luna piena, di luce, di promesse nuove.
Rimase a guardarla mentre mangiava con avidità una brioche alla crema e già la immaginava col pancione a viziarla.
Pensò ancora all’idea di avere un bambino con lei […].
Quando raggiunse l’orgasmo non si preoccupò di ritrarsi. Si cullò all’idea che il suo sperma scorresse dentro di lei, per poi ancorarsi e germogliare in un frutto nuovo.
Le toccò la pancia. Quel gesto gli parve di buon auspicio, come una predizione di quello che sarebbe potuto succedere da lì a poco.
Marina, ma… ripeto… tutto bene, sì? Che cazzo è ’sta roba?, Giacomo è un maniaco morboso, è peggio di un imprenditore giapponese! E poi c’è bisogno di essere così pittoreschi? Chi diavolo si “culla” pensando allo “sperma che [scorre] dentro” il canale vaginale di una tipa semisconosciuta?! Accidenti, lettori, è tutto talmente strano e inquietante, che a un certo punto ho perfino avuto il dubbio che fosse stato Giacomo a uccidere la moglie, la quale non desiderava avere figli…
Ehi, non è finita qui! Giacomo è un maniaco delle pancione, ed è pure un mandrillo. Ah, la recensione vi aveva fatto credere che fosse un tenero amante? Eh, sbagliato. Cioè, sì, in teoria il suo personaggio dovrebbe contrapporsi a quello di Domenico, definito con disprezzo un “puttaniere seriale”, ma… ma lo stesso Giacomo è un instancabile fertilizzante.
Prima fa le zozzerie in macchina con Sofia, l’amica della moglie:
Lei spalancò le cosce, gli prese la mano e la avvicinò al suo sesso, sospirando piano mentre accarezzava il suo pene. Erano circondati da un traffico più convulso del solito, due ragazzi a fianco li sbirciarono con gli occhi spalancati, increduli di assistere a una scena così esplicita in pieno centro cittadino.
Poi, abbiamo visto, cerca di ingravidare Elena, e durante la frequentazione con lei, forse perché un tantino annoiato, fa pure qualche pensierino su Nadia, che lavora per lui! Guardate:
Certo, Nadia provava affetto nei suoi confronti, era evidente. Chissà, magari avrebbe potuto anche nascere una storia tra loro due, ma con quali esiti?
Salutò Nadia, pochi minuti dopo avrebbe avuto un importante call di lavoro. La vide andare via, il sorriso aperto, il passo sicuro di chi crede di avere il mondo in mano.
Se fossi più giovane… non poté fare a meno di pensare.
È evidente che Nadia si colleghi a Tinder regolarmente, altroché…
In un lampo la immaginò uscire e parlare, seducente come mai, con degli sconosciuti. Un sottile malumore si impadronì di lui, ma dissimulò con la massima attenzione quel mutato stato d’animo. Che cosa aveva immaginato? Che una ragazza bella e intelligente come lei stesse chiusa in casa a pensare a lui e alle sue paturnie? Si sentì patetico e irragionevole, ma cercò di non far trapelare in nessun modo la delusione provata nell’ascoltare le considerazioni di Nadia.
Ohhh, numi!, Giacomo è un viscidone! D’accordo, ma… WHY?! Quello che ti nascondevo è un thriller da casa di riposo: c’è un serial killer cattivo e c’è il detective buono che cerca di risolvere un mistero, niente di complicato. Non scopriamo alla fine che Giacomo in realtà voleva sbarazzarsi della moglie per andare liberamente a letto con la sua amica o per garantirsi una discendenza, Giacomo è in sostanza un principe azzurro (forse della Lazio, perché sulla sua mise ci sono delle chiazze bianche all’altezza dell’inguine). E se è un principe azzurro, perché cazzo viene descritto come un maniaco sessuale?!
Solo Marina conosce la risposta.
Meh, forse. In ogni caso, credo che la nostra autrice abbia bisogno di un abbraccio e io, nonostante le perculate, gliene do uno virtuale forte forte…
2 – Buonvino tra amore e morte, di Walter Veltroni
Medaglia d’argento per il Maestro. Maestro, Maestro… quand’è che lo portiamo a casa quest’oro, eh? Lettori, Walter Veltroni è l’uomo con il maggior numero di presenze al Premio (Mezza)Strega, ma finora… eh… mai un primo posto.
Vi devo confessare che quest’anno l’ha praticamente sfiorato, perché sono stata indecisa fino all’ultimo su chi davvero meritasse la vittoria. Sin da quando ho letto Buonvino tra amore e morte, ho capito che il Maestro si era superato: il romanzo è… è allucinante, è anche peggio di tutti gli altri della saga di Villa Borghese messi insieme, e ciò è ancora più straordinario se consideriamo che in questo quarto capitolo il gore e le perversioni sessuali sono ridotti al minimo.
Però, però. Una generale apatia da parte di Veltroni e, soprattutto, la prepotente irruzione di un’opera assolutamente fuori di testa hanno in definitiva fatto sfumare un’epica vittoria. Maestro, che posso dire, sarà per l’anno prossimo? Daje con Buonvino V, fammi una merdona colossale, ché fremo dalla voglia di appuntare il badge di vincitore a un tuo giallo!
Vabbè, comunque voglio sia chiaro, il secondo posto è… pesante. Di roba da ridere ce n’è, ce n’è a iosa. Io, praticamente, passo molte delle mie serate a ricacciare le cavolate di Buonvino tra amore e morte, quindi…
Allora, ve ne riporto una così de botto. Se ben ricordate, è un po’ un pallino del nostro Buonvino/Veltroni far menate contro il “maldestro uso delle parole”, e bla bla. Ovviamente, anche nel quarto romanzo non manca la predica: per imprimere bene il concetto nelle fragili menti dei minorati che lavorano per lui, Buonvino si serve di una similitudine dotta…
[…] «Il linguaggio è come il catalogo del Pantone… [a questo punto Buonvino sfodera proprio un catalogo del Pantone, che probabilmente teneva nascosto nei pantaloni] […] Quando dite che una cosa è verde, magari questo può bastarvi. Ma guardate quante possibilità di verde ci sono, nell’universo. Sono tutti verdi, certamente, ma ciascuno è diverso dall’altro. La scelta della gradazione di verde racconta voi stessi […].»
Occhei, bello, Buonvino si è del tutto trasformato in un guru anni Sessanta/Settanta: più che un commissario è diventato un profeta figlio dei fiori, e poco importa che i fiori siano delle rafflesie. Insomma, fatto sta che Buonvino (e il suo autore, chiaro) ha preso estremamente sul serio questa faccenda dei colori psichedelici (ma per fighine ricche e alla moda: Pantone, non so se mi spiego…), e si è convinto che se tu, proletario rozzo e volgare, specifichi la sfumatura del colore, allora tu, proletario rozzo e volgare che usa delle Bic da due soldi, parli e scrivi bene.
Per Buonvino la faccenda è talmente seria, che a un certo punto smette di essere una semplice metafora e prende vita nella realtà del romanzo: Dianti (quell’agente inutile che indaga sul tentato omicidio della Viganò) e Buonvino, senza che ci sia una vera ragione per farlo, prendono a commentare uno schema, le cui frecce e parole non sono tracciate con pennarelli rossi, blu o verdi, bensì i colori sono il vermiglio, l’amaranto… il tortora, e… il beige! Guardate:
Il collega distese sul tavolo di Buonvino un foglio di quelli grandi, un A2, sul quale aveva scritto a matita delle parole.
[…] Buonvino seguiva con gli occhi le frecce di vari colori che univano i puntini disseminati da Dianti sulla carta. […]
«Qui ho appuntato la prima ipotesi […] – qui, Giovanni, dove c’è questo puntino amaranto – […]. È pur vero – puntino vermiglio – che lui ti ha minacciato quando l’hai scoperto […].
«Seconda possibilità, questa beige […].»
[…]
«E questa linea color tortora che rimane sospesa nell’aria cosa vuol dire?»
Ma porca puttana, Maestro, chi ha tracciato quei segni, gli alieni Neutrali di Futurama?! Il pennarello beige, chi minchia scrive con un pennarello beige?!
È una gigantesca stronzata, soprattutto se consideriamo che i personaggi stanno esaminando uno schema! Lettori, immagino sia ovvio, per voi: uno schema deve essere facile e di immediata comprensione, è in fin dei conti un semplice strumento per aiutare la memoria e l’elaborazione dei dati. Pertanto, già usare due colori simili (vermiglio e amaranto, entrambi sfumature di rosso) per indicare concetti diversi è stupido, ed è ancora più stupido usare colori poco cromati come, appunto, il tortora e il beige, i quali si confondono con lo sfondo bianco della carta! Walter, come cazzo fai a evidenziare i concetti, così?! E perché Buonvino è tanto entusiasta, è talmente strafatto che non riesce nemmeno a concepire che non ci sta capendo una mazza, dello schema che finge di leggere?!
Niente da fare. Il nostro commissario ha assunto un tale carisma profetico, che perfino il narratore si converte alla nuova religione, e prende in odio i proletari e il loro lessico altrettanto proletario:
Ricordava di aver letto una storia di Asterix, suo eroe quando era un ragazzo, dove si raccontava che il capo del villaggio, Abraracourcix, al termine di un pasto spaventoso per la quantità di cibo e l’ingordigia del personaggio, si era messo a dormire sotto un albero, russando sonoramente, sereno. Finché una piccola foglia, cadendo, si era appoggiata dolcemente sul duodeno del capo gallico, provocandogli dei lancinanti dolori addominali.
Lettori, voi avreste usato “pancia”? Pezzenti che siete, e pure rognosi: parlate male e fate male. “Pancia” è una volgarità mostruosa: “duodeno”! Sentite come suona meglio, osservate il bene che porta nel mondo. Certo, usando “duodeno” invece di “pancia” o di… “addome”… uuuh!… costringiamo poi il pubblico a immaginarsi che la foglia abbia trapassato la pelle e il peritoneo di Abraracourcix, appiccicandosi alle mucose del suo intestino tenue, ma che volete, è comunque una bella immagine, molto dolce e che fa del bene.
Diavolo di un Veltroni! Quante ce ne combini, simpaticone! È vero, l’umorismo veltroniano (almeno, quello per cui ridiamo in maniera spontanea) è involontario, ma tant’è, a me piace così. E, vi dirò, personalmente riesco a ridere anche davanti alla comicità esplicita di Buonvino tra amore e morte: infatti, è una comicità talmente agghiacciante, talmente da boomer, che oltrepassa l’estremo del cringe atterrando proprio sull’estremo del divertimento. Sto scherzando, ovvio: la comicità palese di Veltroni è fottutamente terribile!
Ecco un esempio. Nel corso della trama, Buonvino riceve delle misteriose telefonate sul cellullare della Viganò, sempre comatosa: sono delle telefonate mute, in cui al più si ode il lamento di una persona che piange. Scopriremo poi che è Roberto a chiamare: imbarazzato e piagnucoloso come una femminuccia, non ha il coraggio di domandare all’uomo che ora si cunnilingua la sua fidanzata/moglie cosa dice il bollettino medico di quest’ultima. Ma non è questo il punto: il punto è che simili telefonate sono un elemento della storia inquietante e misterioso, perciò… perciò è proprio il caso di ficcare a forza una Raffaella Carrà nel mezzo della narrazione, no?! Cioè…
Si sentì stupido, nel farlo. E ancora di più nel dire, stavolta, al microfono di quel cellulare: «Pronto, chi parla?», immaginando di poter ricevere una risposta a quella domanda da Raffaella Carrà.
Bello, senz’altro. E il Maestro deve averla considerata un’uscita spassosissima, perché ripropone lo schema anche sul finire del romanzo, quando Veronica e Roberto si ritrovano faccia a faccia e lei sussurra commossa il nome di… di colui che, stando a tutti gli altri libri, dovrebbe essere ancora suo marito, ma che è magicamente (e convenientemente) diventato una specie di ex fidanzatino. Scena dal notevole impatto emotivo, e… fanculo, ah, ah, ah, è il momento giusto per fare un paragone con Benigni eccitato alla consegna dell’Oscar:
Giovanni notò che Veronica aveva gli occhi lucidi. Disse di nuovo «Roberto!», nulla di più. Il tono però non era quello di Sophia Loren quando premiò Roberto Benigni a Los Angeles: era una voce squarciata dalla fatica di parlare, dalla sorpresa, dallo stupore, dal dolore.
Meraviglia delle meraviglie, il Maestro fa il simpatico anche quando c’è di mezzo l’assassino. E devo dire che… sì, va anche bene, perché in questo caso l’assassino, come accadeva in Beata gioventù, non si è macchiato di crimini orribili. Il problema, però, è proprio la concezione di “far ridere” che ha Veltroni. Per qualche motivo, cioè più che altro perché trova irresistibilmente comici i poveri proletari, il Maestro ha voluto ritrarre il signor Pallemosce come un burino ritardato, che si guarda intorno se gli si dà del voi…
«[Pallemosce parla di Giorgio Caruso] […] Pensi che, mentre lui se ne stava sulla sedia e io gli puntavo contro il fucile che m’aveva procurato, m’ha guardato in un modo strano e ha urlato a squarciagola: “Viva l’Italia!”, e poi: “Mirate bene.” Doveva sta’ proprio fori de testa, poraccio, io ero da solo, e me dava der voi…»
Come al solito, viene mandato a cagare il meccanismo di “attesa-sorpresa”, e con esso tutto il divertimento; ma il Maestro non è una semplice Veronica Raimo, e ammazza definitivamente le risate con un colpo… da Maestro, eh, eh. Vedete, lettori, se davvero Pallemosce non ha capito che Caruso stava usando una forma di cortesia, allora non dovrebbe pronunciare l’espressione “me dava der voi”, perché così dicendo mostra di aver perfettamente compreso che il “voi” era diretto a lui e non a supposte allucinazioni di Giorgio! Pallemosce avrebbe potuto servirsi queste parole: “«Doveva sta’ proprio fori de testa, poraccio, prima de morì ripeteva “mirate bene”… ma ahò, io stavo solo!»”, e non ci sarebbero stati dubbi (che poi sono certezze), da parte nostra. E invece no, “me dava der voi”, capito?
Ah, sentite, ce ne sarebbe ancora una caterva da discutere, però qui si sta a fa’ tardi. E, inoltre, sono categorica: il Maestro è un dio del trash, ma questa quarta edizione del Premio (Mezza)Strega non può vincerla. No, nemmeno se mi affibbia dal nulla un “corpaccione” al serio e rispettabile professor Areddu (uhm… però “corpaccione” è riferito al personaggio, non al vero Areddu… mah). Nemmeno se, provando a esaltare la competenza e il rigore storiografico sempre di Areddu, decide di scaraventare il pregevole saggio di quest’ultimo prima su una bancarella di libri usati (chi l’ha letto, nel mondo di Buonvino, l’ha apprezzato talmente che se n’è sbarazzato), e poi sul lungotevere, abbandonandolo a marcire fra le cianfrusaglie dei barboni.
No, no, niente da fare. C’è qualcuno che è riuscito a superare tutto questo.
Preparatevi.
1 – Nel buio della casa, di Fiore Manni & Michele Monteleone
Nel buio della casa, porca troia! Primo posto strameritatissimo, assoluto! È il “so bad it’s good” definitivo, con questo lavoro Fiore & Michele si sono rivelati gli Ed Wood della letteratura italiana! Ve lo giuro lettori, potrei leggere il romanzo cento volte e riderci comunque, è strapieno di chicche divertentissime, da ogni lato lo si voglia guardare.
Ad esempio, ne ho parlato poco nella recensione, ma tutta la storia è un saccone pieno di riferimenti ad altre opere e ad altri autori. È anche un omaggio: a Richard B. Matheson, lo scrittore e sceneggiatore (Duel, Io sono leggenda, Echi mortali…), e, soprattutto, a Stephen King. “Richard Matheson”, ricorderete, è appunto il nome dell’Architetto, un vecchio coglione che si fa abbindolare da Satana e che gongola quand’è pervaso dallo spirito natalizio, mentre Stephen King… be’ lui è omaggiato in tanti modi, non ultimo con il cognome dei protagonisti: King! Con questo in mente, dunque, possiamo capire che nella seguente scena…
«[…] [P]rima di tutto dovremmo approfittare dell’assenza di Michael per battezzare casa. […] [P]otremo essere genitori liberi ancora solo per poche ore.»
Allison guardò il marito sorridendo allusiva.
Lui si fece serio e annuì comprensivo. Alzò le mani in segno di resa.
«Però la devo avvertire, signora King, che sono troppo stanco per assicurarle una prestazione soddisfacente.»
… c’è il SIGNOR KING che, letteralmente, mette le mani avanti spiegando che il suo pipino non riuscirà a stare sull’attenti, e perciò potrebbe non soddisfare i bisogni sessuali della signora King.
Questo romanzo è un omaggio a Stephen King. Davvero.
Oh, grazie al cielo!, di tutto ciò non se ne parlerà mai più.
Si parla invece, fra le altre cose inutili, dell’incontro fra i coniugi King e Jack Jill (ma come si fa… tanto valeva metterci una bella “e” in mezzo… manco su Topolino…) l’agente immobiliare, di sicuro interpretato da Adam Sandler, che vende alla coppia la casa del male. Ovviamente, penso io e pensate voi, l’agente immobiliare è un personaggio chiave, perché è un tramite fra Satana e le sue vittime. È un adescatore, no?
Ora, il personaggio adescatore può essere complice del cattivo o un suo strumento. Ossia, può essere affascinante e al contempo inquietante, come John Milton de L’avvocato del diavolo, oppure può essere un semplice poveraccio che si trova costretto a fare quel che fa: in questo secondo caso, ci si aspetta che conservi la sua empatia e che cerchi sottilmente di dissuadere le potenziali vittime.
Insomma, capite che, quando i King incontrano Jack Jill, la narrazione dovrebbe concentrarsi proprio su quest’ultimo, perché la sua descrizione può suggerirci un primo indizio che qualcosa non va.
Ehi, sticazzi, Fiore ha spoilerato sin dalla prima pagina che la situazione è un oceano di merda in tempesta, perciò ecco cosa succede fra i protagonisti e l’agente immobiliare:
L’uomo aveva una voce squillate [sic], un po’ nasale, era quasi del tutto calvo e sudava copiosamente. Indossava un due pezzi grigio scuro e una cravatta marrone.
Strinse la mano a Noah e si guardò bene dall’allungarla ad Allison.
Bene, Jill è nervoso, inizio promettente…
«Allora, partiamo?»
«Certo. La seguiamo» disse Noah.
Salirono in macchina e Allison chiuse lo sportello con troppa veemenza.
«Se la cosa può farti piacere, ti sei risparmiata un saluto un po’ sudaticcio.»
Allison fissò la vecchia Mustang che li precedeva e scrollò le spalle.
«È stato un cafone. Non capisco perché non mi abbia stretto la mano.»
… ehm…
[…] «Allison, quel gentile uomo calvo, dal forte accento del sud, non ti ha dato la mano per due motivi fondamentali. Due motivi per me collegati: il primo, è che sei troppo bella, amore mio. Sei bella di una bellezza abbagliante, qualsiasi essere umano dotato di un briciolo di cervello avrebbe paura anche solo di avvicinarsi a te.»
[…]
«Il secondo motivo?»
«Perché è un cafone», sentenziò Noah.
… cosa…
[…] «Il cancello è originale» disse allegro Jill «Non è stato toccato durante la ristrutturazione. Oddio, in realtà chiamarla ‘ristrutturazione’ è riduttivo: l’architetto ha buttato giù l’intero edificio e lo ha ricostruito praticamente da zero.»
Jack Jill si piazzò davanti al cancello e fissò la coppia, sorridendo mentre continuava a sudare.
«Pronti a dare un’occhiata?»
[…]
«Il giardino, come potete vedere, è davvero molto bello e grande. La signora King potrà dedicarsi alla cura dell’aiuola e piantare tutti i fiori che desidera per renderlo più colorato.»
Allison levò gli occhi al cielo e Noah le strinse comprensivo la mano sulla spalla.
«Allison ha molti talenti, ma è afflitta da una grave forma di pollice nero. Credo che sarò io che mi dedicherò alle piante», rispose Noah all’agente immobiliare con un sorriso amabile.
«Capisco. Comunque come potete vedere il giardino è il luogo di gioco perfetto per dei bambini. Avete figli?»
… WHAT THE FUCK IS THIS?! Jack Jill è introdotto solo per poter sfottere un pelato con l’iperidrosi e per dire qualcosa di confuso sul patriarcato! Non serve a niente: non ammalia come Al Pacino, non cerca di mettere in guardia i suoi acquirenti, non mostra neppure un pochino di disagio nel parlare della casa, praticamente suda e basta! Fiore, dico, non ci potevi mettere anche qualche scorreggina, che dava un tocco in più?
Niente scorregge. In compenso, c’è un po’ di product placement, come potete notare da questo stralcio:
Noah sfilò anche il secondo scarponcino Timberland e si accomodò a gambe incrociate su un tappeto nel salone.
E questo è un “revenge product placement”, infatti sono strasicura che la Timberland non ha pagato neanche lontanamente la somma necessaria per tenere fuori i suoi prodotti da questo casino di romanzo.
Peccato, può darsi che, con fondi sufficienti, Fiore & Michele avrebbero trovato il modo di inserire nella storia delle cause, invece di soli effetti random. Già, perché di tutte le cose assurde del libro, la più assurda è il nocciolo stesso della trama: le motivazioni e gli scopi dei cattivi!
Cioè, pensateci, il primo antagonista che incontriamo è il “grumpy ghost” Al Owens, che è un fantasma cattivo… perché?… che si mette a perseguitare Allison… perché?… e che segue un piano del cazzo di cui nessuno, nemmeno lui, sa niente! Il massimo che possiamo dedurre, a proposito delle azioni di grumpy Al, è che un elemento fondamentale del suo piano consiste nel far cacare addosso Allison… abbaiando…
Tempo di infilare le chiavi nella toppa e di aprire la porta e Mostro già correva felice nel prato.
«Ehi, ma non mi fai neanche un po’ di feste?»
Allison si chinò a raccogliere la spesa che aveva poggiato sullo zerbino, dando le spalle alla casa quando qualcuno, dietro di lei, abbaiò.
«Wof wof.»
Mostro corse verso di lei, la testa china cose [sic] se fosse consapevole del rimprovero in arrivo, mentre accennava uno scodinzolio colpevole.
Ma Allison era rimasta paralizzata, il sangue ghiacciato nelle vene.
Si voltò molto lentamente, con il cuore pronto a schizzarle fuori dal petto.
Non c’era nessuno dietro di lei. […]
Qualcuno aveva abbaiato alle sue spalle.
L’aveva sentita forte e chiara: la voce di un uomo che abbaiava.
Fiore, Michele, che vi è saltato in testa?! Un fantasma può fare molte cose: può apparire nel buio e scomparire una volta che si è accesa la luce, può far levitare (o “lievitare”, che sarebbe anche peggio, forse) i malcapitati di turno, può spostare gli oggetti e fare impazzire… può anche emettere suoni sovrumani, come quelli de La cosa, ma… abbaiare?! Tanto vale che faccia le pernacchie con le ascelle! Soprattutto se decide di abbaiare in un contesto dove effettivamente vive UN CANE! Cioè, Allison sente abbaiare, si gira e… cazzo, c’è Mostro, lì! Perché cavolo non la sfiora nemmeno il dubbio che sia stato proprio Mostro a fare “wof wof” (LOL)? Il testo ci dice addirittura che il cane è “felice” e sta stronzeggiando! Che poi, dico, ma cosa voleva ottenere Al?! Allison non ha la fobia dei cani (ovviamente): voleva attirare la sua attenzione e poi aprire l’impermeabile (la flanella, pardon), voleva farle credere che Mostro stesse facendo dei bisognini sul prato appena pulito, voleva in realtà farle capire che, nell’Aldilà, ha scoperto di avere un feticismo furry?!
Dovremo imparare a convivere con queste domande, lettori.
E con tante altre! Al, ovviamente, non è l’unico fantasma a fare cose strane. Allison stessa diventa un lenzuolo bianco, ricordate? Bene: intanto, va a vivere nel corpo di Noah. Ma quando Al era entrato nel corpo di Allison, l’aveva posseduta! Nah, per i coniugi King valgono altre regole. Poi, appunto mentre risiede nelle viscere del marito, Allison… oh cacchio… mettiamola così: Noah è costretto dalla moglie a spalancare la bocca e, una volta aperte le fauci, sbem!, da esse spunta fuori il pugno di Allison, la quale molla un cazzottone a un fantasma che stava cercando di possedere proprio Noah. È un caos incredibile sotto ogni aspetto, me ne rendo conto, ma è tutto documentato:
Il fantasma avvicinò la bocca aperta a quella di Noah, intenzionato a farsi strada verso la gola, con l’unico scopi di prendere possesso del suo corpo.
Fu allora che delle sottili dita bianche spuntarono dalle labbra di Noah, costringendolo a spalancare la bocca, tendendo le guance e la mandibola in maniera innaturale.
Una mano spettrale, stretta in un pugno, gli risalì la gola e scattò in avanti colpendo l’apparizione.
Non so bene come commentare, lettori, ma vi confesso che a leggere la suddetta sequenza mi viene sempre in mente quel “Chuck Norris fact” che dichiara “non c’è mento dietro la barba di Chuck Norris: c’è soltanto un altro pugno”. Ecco: non c’è lingua dietro i denti di Noah King, c’è soltanto un altro pugno.
Dulcis in fundo, e coronamento epico di tutto il nonsense di Nel buio della casa, l’epilogo. Nella recensione vi ho svelato che, alla fine, i coniugi King fanno secco Richard Matheson: e, con questo atto estremo… non si risolve un tubo! Il libro ci insegna che gli Stati Uniti continuano a rimanere strapieni di case infestate:
[Noah] Si sporse sotto al letto e tirò fuori la sua vecchia sacca consunta. Aprì la zip e tirò fuori il portatile che lui e Allie avevano usato per le loro indagini sulle case infestate. Aveva cercato di pensare il meno possibile a quegli anni passati in caccia, anche se sapeva che le case erano ancora lì fuori, a volte facevano notizia finendo in un trafiletto di costume sulle case stregate o in prima pagina quando qualcuno dei suoi occupanti impazziva e commetteva atti irreparabili. Aveva voluto chiudere quella porta, ma ora, con il computer che non accendeva da mesi sul petto, decise di aprirne uno spiraglio e guardare dentro. Si sentiva pronto.
Ma a che cazzo è servito, allora, combattere contro l’Architetto?! Considerate poi come davvero finisce il romanzo: Noah sostanzialmente se ne sbatte dei poveracci che ancora vivono nelle case di Satana. E non poteva farlo da subito, stante anche il fatto che nemmeno sappiamo perché diventa un ghost hunter (non lo fa per vendicare la morte del figlio, sulla quale, anzi, “scherza”)?! E Satana che cacchio fa in tutta la faccenda, cerca solo di tenere il più possibile un profilo basso, per non far sapere di aver recitato pure lui in questo B-novel spettacolare?
Ah, sentite, lettori, basta, non ce n’è per nessuno, i vincitori del Premio (Mezza)Strega 2023 sono Fiore & Michele, punto. Già per il solo fatto che praticamente ogni sera, da quanto ho letto il libro, in famiglia si mimano spontaneamente scenette che riguardano il grumpy ghost, la flanella, il pisellino del signor King, lo “spirito natalizio” e gli imbarazzati silenzi del diavolo, io mi sento in dovere non soltanto di premiare il duo, ma anche di ringraziarlo. Grazie, Fiore e Michele, mi avete fatto sinceramente divertire, e non sono sarcastica: il vostro horror è tecnicamente una stronzata, però è esattamente come dovrebbe essere un so bad it’s good, pertanto voglio che siate fieri del lavoro fatto, anche se magari avevate per esso aspettative molto diverse.
L’anno che verrà
Abbiamo riso, abbiamo scherzato. Abbiamo ANCHE riso e scherzato, insomma. Per tutti noi è stato un anno con alti e bassi, ed è sicuramente meglio non soffermarsi troppo su certi terribili eventi che sono accaduti, eventi per cui noi, checché se ne dica, non possiamo davvero farci nulla, se non sperare che si spengano presto e senza troppe conseguenze.
Per me personalmente, e per il vostro blog preferito, è stato un anno di timida ripresa: in generale le cose si sono un tantino assestate, sono riuscita a proporvi un discreto numero di recensioni, ma la verità è che sono ancora lontana dal poter dare il mio massimo. Anzi, più che il mio massimo, vorrei darvi quel che meritate: tantissimi contenuti, tutti di altissima qualità.
Perché voi non avete smesso un attimo di farmi sentire il vostro affetto e il vostro apprezzamento: le statistiche del blog lo testimoniano, la crescita è continua e così le interazioni. E, considerando appunto che tutt’ora arranco, quei grafici che puntano verso l’alto mi dimostrano non che posso vantare una certa bravura, bensì che posso vantare il pubblico migliore di tutta la blogosfera.
Grazie, grazie e grazie, siete fantastici!
E così, è una tradizione, si chiude un anno di recensioni. Niente di cui preoccuparsi, ovviamente: in men che non si dica tornerò a sottoporvi le mie opinioni, quelle strapiene di lodi e quelle… eh… strapiene di parolacce. Almeno, questa è la mia intenzione, poi se davvero qualcuno mi darà la lezione che merito (come si augura qualche mia collega blogger), eh, in tal caso prenderò a scrivervi lettere dal carcere. Sto scherzando, ovviamente: sappiamo tutti che in carcere riescono a entrare smartphone, tablet, notebook… eh, eh… eh. E meno male! Perché l’anno nuovo sicuramente porterà con sé tanti bei libri e tanti bei libri… trash! Mi raccomando, non cambiate: state con Il pesciolino d’argento, che vi saprà sempre consigliare delle buone letture (e vi farà evitare quelle brutte)!
Brava!
E grazie per questa oretta di spassosa lettura (sono un lettore lento).
In sintesi brava e grazie.