L’oceano in una goccia – Guido Saraceni

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IL GIUDIZIO:

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Il secondo tragico Saraceni

Quando uno è eccezionale, non ha forse il dovere di mostrare la sua luce anche ai miserabili? Sì, certamente. Un modo sempre efficace per farlo è scrivere un libro. E se poi si è già scritto tutto di sé in un solo volume? Be’, è sempre bello ricominciare daccapo; dopotutto, nessuno può stancarsi di un uomo eccezionale che parla della sua eccezionalità.
È successo un fatto: un paio di anni fa, un uomo eccezionale, ma eccezionale veramente, ha proposto un romanzo eccezionale a una casa editrice. Resi ciechi dall’eccezionalità dell’opera, i responsabili dell’azienda hanno proposto un contratto: e via, ecco il libro sugli scaffali degli store. Incoraggiato dalla quantità (probabilmente a due cifre) di consumatori che hanno acquistato gratuitamente il libro su KindleUnlimited, l’uomo eccezionale ha deciso di fare ancora del bene alle masse. Di nuovo si è presentato al cospetto dei suoi editori, di nuovo ha proposto un romanzo, di nuovo ha ottenuto la pubblicazione. Lettori, quest’uomo, questo eccezionalissimo uomo, è Guido Saraceni.

Scusate, scusate, era una minchioneria innocente, non arrabbiatevi! E poi, non ho detto una bugia: Saraceni è davvero eccezionale, solo per motivi diversi da quelli che si sogna di notte. D’accordo, andiamo al sodo: l’abbiamo detestato per Fuoco è tutto ciò che siamo, ma adesso prepariamoci a vedere minacciata la nostra salute mentale con il suo nuovo capolavoro, intitolato L’oceano in una goccia.
Oh sì, vi sento. Voi siete dei consumatori consapevoli e attenti. Vi domandate: ma troveremo una trama sconclusionata, dei monologhi cringe e dei discorsi filosofici che somigliano al latte scaduto? Potete scommetterci, e questa volta c’è anche di più. Udite udite: non scopriremo le avventure di un personaggio odioso… scopriremo le avventure di due personaggi odiosi! Lettori, Saraceni deve aver anche frequentato un corso di marketing, dopo Fuoco è tutto ciò che siamo, perché ha proprio deciso di promuovere il suo nuovo romanzo con una “operazione bis”: al prezzo di un mostriciattolo irritante, per un qualche motivo riverito e considerato da tutti un “piccolo infallibile genio”, possiamo goderci una ragazza piacevole quanto un clistere frizzante. Ah, via, è inutile continuare a indugiare: trama!

Hikikomori, ma più sexy

Siamo a Roma. La nostra clisterina, adeguatamente chiamata Clizia, è una ventenne di origini toscane, trasferitasi ormai da molti anni nella capitale. È affetta da un disturbo ossessivo compulsivo: cambia spesso l’ordine dei libri nella sua libreria. Molto spesso. Li ordina per autore, poi cambia idea e li ordina per tema, poi cambia idea di nuovo e li ordina per colore… Oltre a questo, Clizia non ama uscire di casa. Anzi, diciamo che l’idea di uscire di casa le scatena il panico: da un anno non varca la soglia del suo appartamento. Segue le lezioni universitarie online, ordina cibo da JustEat, i vestiti da Zalando, e si mantiene progettando siti web da remoto. Clizia è felice così, le basta la compagnia del suo gatto nero. La situazione tuttavia cambia quando l’adorata nonna inizia a stare male: la nostra protagonista vorrebbe incontrarla, ma non può finché non supera i suoi attacchi di panico. Temendo che la nonna muoia senza essersi goduta un’ultima volta la sua divina presenza, Clizia decide coraggiosamente di affrontare le proprie paure… facendo fare il lavoro sporco a uno strizzacervelli, Giorgio. Eh sì, Giorgio è l’infallibile genio. Genio con un cuore particolarmente tenero: non riesce a resistere agli occhioni di Clizia, si innamora, si dichiara e…
Va bene lettori, basta così.

Starete forse facendo delle smorfie di disappunto a me indirizzate, perché sono stata troppo dura e offensiva. L’impressione che si ha dopo aver letto il mio breve riassuntino è positiva, lo so: sommariamente, il romanzo non sembra male. Niente di che, ma non male. Saraceni si è ispirato al sempre più diffuso fenomeno degli “hikikomori”, ovvero quei giovani che vivono da eremiti in casa, rifiutandosi di uscire e di socializzare dal vivo. Be’, il nostro autore non è un hikikomori, scrive un sacco di post su Facebook, gira l’Italia per presentare i suoi libri, ha perfino un blog: allora, come ho potuto tracciare una somiglianza con Fuoco è tutto ciò che siamo? Ne L’oceano in una goccia, Saraceni deve aver messo la testa a posto, evitando gli alter ego, non è vero?
No. Ma tempo al tempo, capirete perché. Per il momento voglio continuare con il discorso sugli hikikomori e mostrarvi che L’oceano in una goccia è una schifezza proprio perché parla di loro. Cioè, non perché vuole parlare di loro, bensì perché parla di loro in un certo modo. Tanto per fare un primo esempio, questo tema importante è già stemperato dalla presenza di una storia d’amore: ehi, lettori, gli hikikomori non se la passano proprio bene, non sono eremiti “felici” come i cari vecchi stiliti, sono in molti casi dei depressi cronici, dei soggetti provati fisicamente e mentalmente da un forte senso di inadeguatezza. Sono quelli che “non ce la fanno”, che si sentono “sputati” dalla società. La loro autoreclusione è la reazione a un ambiente percepito ostile: molti hikikomori sentono su di loro un giudizio che la società ha già emesso, un giudizio darwiniano. Non adatti: candidati all’eliminazione dal gioco della vita. Che ridere! Questo contesto buffo è davvero ideale per inserire elementi leggeri, giusto? Ecco, una storia d’amore è proprio quello che ci vuole. Come si concilia quest’ultima con la sottocultura cosiddetta “incel” (in cui si identificano molti hikikomori)? Seguite la tecnica Saraceni: allora, bisogna prendere ciò che ci piace, inserirlo nel romanzo, poi ignorare il contesto e le inverosimili buffonate che si producono di conseguenza. Fatto?
Ecco, ora le cose sono già un po’ più chiare. In effetti, potrei ancora sostenere che L’oceano in una goccia è un romanzo interessante. In un universo parallelo.

Fidatevi di me, ho altri motivi per giudicare L’oceano in una goccia il peggior romanzo mai scritto (finora, Saraceni potrebbe scrivere un seguito) sugli hikikomori. Clizia è uno di quei motivi, anzi è il principale. Nelle intenzioni del nostro autore, la donna rappresenta l’hikikomori tipico; nei fatti, Clizia vive agli antipodi degli hikikomori. La differenza più evidente fra lei e un hikikomori è…be’, Clizia è una donna! Oh no, tranquilli, non sto cercando di far esplodere per la rabbia la Murgia. Voglio soltanto farvi presente che la stragrande maggioranza (fra il 70% e il 90%) degli hikikomori sono giovani, sì, e… sono maschi. È una maggioranza schiacciante, e ciò deve farci almeno sospettare che il sesso biologico (niente storie stile “gender studies”, sappiamo ancora di che cosa stiamo parlando) sia molto, molto importante per la comparsa di questa particolare forma di fobia sociale. Ora, e sono seria, non è certo questo il luogo adatto per discutere delle ragioni che rendono i ragazzi più propensi delle ragazze a isolarsi, però vale la pena ricordare l’ostilità con cui in società sono accolte le lamentele degli uomini, e la comprensione con cui invece vengono ascoltate quelle femminili. Per intenderci, su Instagram possiamo notare molte donne grasse (scusate, “curvy”), col monociglio e la rosacea che reclamano (e ottengono con entusiasmo) il diritto di mostrarsi senza filtri. Ah, su Instagram possiamo notare anche molti uomini lardosi (scusate, “lardosi”), stempiati, con occhi bovini e la postura ciondolante: bene, e sotto le loro foto notiamo la marea di commenti acidi e offensivi, regalini lasciati molto spesso da donne di ogni età. Insomma, intorno a una ragazza in difficoltà (vera o presunta) si tende naturalmente a creare una solidale rete di supporto, intorno a un ragazzo in difficoltà (vera o presunta) si crea una situazione ostile. Il massimo che un “bruttone”, un “disadattato” o semplicemente uno “sfortunato” può ottenere è il nulla sociale, condito talvolta da qualche invito incoraggiante e garbato, come “tira fuori gli attributi!” o “datti fuoco”.
Ovviamente, la questione è molto più complessa, però capite bene che la decisione di avere una donna come protagonista di un romanzo sulla fobia sociale e sugli hikikomori è… è una cosa che può fare Saraceni, non un bravo scrittore. Scegliere “l’eccezione”, e non “la regola”, rischia di distorcere completamente la percezione degli hikikomori da parte del pubblico… oh, ma che cosa sto dicendo, quale pubblico può mai avere L’oceano in una goccia?

E due fantastici occhi verdi

Ed è un bene che sia così. Proviamo appunto ad analizzare meglio la nostra Clizia. Se Saraceni l’avesse caratterizzata come un vero hikikomori, ci saremmo straniti: una ragazza con turbe e comportamenti tipicamente maschili, mah! Ecco, ora ditemi voi come ci dobbiamo sentire, leggendo che Clizia non è nemmeno un’adolescente goffa, sgraziata, che può essere facilmente derisa! Proprio così, la nostra psicotica è una bellezza rara e mozzafiato, con i capelli fiammeggianti e con gli occhi verdi da gatta. Ecco che cosa il nostro autore spera… scusate, immagina:

Improvvisamente, la porta dell’interno 6 si spalanca, sull’uscio appare una giovane ragazza con fluenti capelli rossi, lentiggini e due fantastici occhi verdi […].

In breve, abbiamo la solita eroina da young adult, da chick-lit. Anzi, è il solito sogno proibito di Saraceni. Vi ricordate della cameriera fighina di Fuoco è tutto ciò che siamo? Il nostro autore non riesce a togliersela dalla testa, è un’ossessione: la ritroviamo pari pari, e stavolta con un ruolo di primo piano.
D’altra parte, devo farvi notare, la bellezza di Clizia non è funzionale soltanto alla libido del suo creatore: se sulla copertina de L’oceano in una goccia ci fosse stata un’adolescente sovrappeso, con brufoli e banalissimi capelli castani, il marketing (quello vero) non sarebbe stato contento. Il libro avrebbe venduto, trattandosi di un soggetto femminile, ma non abbastanza. D’ora in poi, ricordatelo: sono i problemi psicologici ad affascinare, non le persone problematiche!
Già lettori, è un’amara verità. Il ventenne timido e bruttino, che si chiude nella sua stanza perché non ha né amici né una ragazza, non interessa a nessuno. Non è una colpa morale, semplicemente siamo fatti così: la natura aborrisce la pietà per i deboli. E il sesso debole, forse qualcuno si sorprenderà, è quello maschile. È adesso del tutto evidente che un romanzo realistico sugli hikikomori non ha mercato, non vi pare?
Ma non intendo divagare. Voglio però farvi notare che le debolezze possono essere interessanti se associate a punti di forza. In particolare, se la debolezza è un problema psichico, la forza è bene che sia un’intelligenza superlativa. In tal caso, la mania è perfino utile, è da ricercare, perché rende un po’ più simpatico un personaggio altrimenti percepito distante e “disumano”. Fateci caso: quante volte il protagonista affetto da qualche paturnia (neanche a dirlo, spesso la sindrome di Asperger) è un genio? Vi aiuto io: è così ne L’ultimo rintocco di Diego Pitea, è così ne L’arrivo di una strana primavera di Franco Faggiani. E questo topos letterario è talmente efficace, che non può essere impunemente gettato nella spazzatura. Ai giorni nostri, gli uomini non sono tanto amati, non vendono più molto (specie se dotati di qualche qualità): oggi, l’abbiamo capito, vanno di moda le donne (specie se prive di qualità). Ecco quindi che il nostro stereotipo mantiene saldo il suo posto nella letteratura, semplicemente cambiando sesso: ad esempio, ne Il buongiorno si vede dal vicino di Federica Leone, la (mai dimostratasi) intelligente protagonista ha un atteggiamento che “fa tanto Sheldon Cooper”, cioè è geniale e fuori di testa. In Felici contro il mondo, Galiano ci fa credere che l’intontita protagonista sia la più dotata della classe, la prediletta del professore di filosofia: e il trucchetto usato per renderla simpatica è sempre una psicopatologia, infatti Gioia parla con un’amica immaginaria (sì, ho detto “liceo”, non “asilo”).
Insomma, nella narrativa contemporanea, i problemi psicologici hanno subito sia un processo di radicale banalizzazione, sia un processo di adeguamento all’ultima moda da “social justice warrior”. E con questo in mente, troviamo quasi naturale la ridicola caratterizzazione di Clizia: a Saraceni non interessano affatto gli hikikomori, si è semplicemente tuffato nella corrente e ha realizzato un prodotto generico, cioè con potenzialità di mercato, in cui poter inserire elementi stimolanti e gradevoli. Stimolanti e gradevoli per lui, ovvio.

Terminator del rimorchio

Bene, tutto questo renderebbe Saraceni uno dei tanti spacciatori di libri tagliati male, un Galiano qualunque. Ma Saraceni è eccezionale, ve lo ricordo. È uno dei pochi autori capaci di abbruttire un cliché già molto brutto. Anzi, Saraceni è capace di abbruttirlo e di renderlo completamente cretino. Il fatto è che il nostro autore ha inventato un personaggio “fico” e simpatico perché psicologicamente compromesso… senza attribuirgli un disturbo psicologico! Sì, lettori, almeno nei romanzi che ho citato prima qualche parvenza di una malattia mentale c’è, ed è riconoscibile. Ne L’oceano in una goccia invece no. Convinto di aver esaurito il lavoro faticoso, dopo aver immaginato una sventola, Saraceni ha del tutto smesso di fare i compiti: la nostra protagonista è caratterizzata così male, ma così male, che è difficile perfino decidere se soffre o no di qualche patologia. Lo so, lettori, vi ho parlato di fobia sociale, però vi confesso che è una mia deduzione personale. Apparentemente, sono sulla strada giusta, infatti questo brano, in cui Clizia pubblica una foto su Instagram, sembra raccontare una crisi da manuale:

Ha racimolato una decina di cuoricini. Niente di grave. Nessun insulto. Nessuna risata. Nessuna battuta malevola. Inspira profondamente, poi, in un attimo, le si gela il sangue nelle vene: ha scritto «cure» al posto di «cuore».
[…] Oh mio Dio! Oh mio Dio! Oh mio Dio! Che. Gigantesca. Figura. Di. Lerda [sic]. Staranno già tutti ridendo. I cuoricini sono chiaramente ironici […].
Fermi tutti! Falso allarme.
La parola è scritta bene. […]
Nessun errore. Non c’è nessun errore. I cuoricini erano sinceri. Sei sempre la solita, sempre la solita. Chiude gli occhi, inspira, espira, inspira.

Vedete? Clizia teme di essere giudicata e di essere derisa per una minuzia, una svista; teme il confronto; crede che il mondo sia solo in attesa di un suo errore per poterla attaccare. Fobia sociale, modello classico.
La mia diagnosi sembra confermata anche da un altro brano: il narratore rievoca le lezioni frequentate da Clizia alla Sapienza, raccontando che il professore era solito far partecipare gli studenti rivolgendo loro delle domande…

E Clizia entrava nel panico: il viso le prendeva fuoco, riusciva a mala pena a sussurrare aborti di risposte, ipotesi di frasi che evaporavano veloci nell’aria […].

Bingo, giusto? Ma neanche per idea!
A parte questi capitomboli, per tutto il romanzo Clizia non si comporta affatto da sociofobica, anzi. Ad esempio, non è affatto a disagio quando parla con persone sconosciute: al telefono, mentre discute con un suo nuovo cliente (niente pensieri strani, fa la programmatrice, ricordate?), Clizia non balbetta e non tentenna nemmeno un po’, anzi risponde con una disinvoltura da far invidia alle segretarie più navigate:

«Buongiorno signorina Lucchesi, sono l’avvocato Valerio Bargolini, della Bargolini, Junior & Associati, la disturbo?»
«Buongiorno! Ci mancherebbe, mi dica.»

Cioè, cioè: Clizia si fa prendere dal panico se i suoi pochi follower leggono “cure” anziché “cuore”, e poi sfoggia un self control assoluto mentre tratta con i suoi clienti? Andiamo, ma se la maggior parte dei ventenni di oggi proverebbe una forte ansia da prestazione al solo pensiero di parlare con uno sconosciuto che avanza richieste! Mi viene il dubbio che il vero hikikomori sia Saraceni, per immaginarsi situazioni simili deve essere tagliato fuori dalla realtà ormai da un bel po’ di tempo… Ma aspettate, perché c’è un altro brano, uno davvero incredibile, uno che dà la mazzata letale alla sociofobia di Clizia. Vi ho detto che c’è anche un altro personaggio, Giorgio, l’affascinante psicologo che si innamora della nostra eroina, bla, bla. Ebbene, ecco il momento in cui Clizia e Giorgio si incontrano:

[…]
«Che cosa ci fai tu qui?»
Giorgio e Marco [un amico di Clizia] fanno entrambi un passo indietro, stendono in avanti le braccia, con i palmi delle mani ben allargati, e rispondono con un fiume di parole. Insieme.
«Okay», Clizia rotea gli occhi verso l’alto e sospira.
«Uno alla volta. Non tu, tu», afferma, puntando l’indice verso Marco. […]
«E tu, invece, chi saresti?»
«Sono Giorgio, mi ha contattato tua madre, scusami, sono leggermente in anticipo.»
Clizia fa un passo di lato, invitando il terapeuta a entrare, poi, quando Giorgio varca la soglia, si rivolge nuovamente a Marco.
«E tu, per favore, sparisci.»

Ah, l’avete notato anche voi? Eh sì, se l’abbiamo immaginata come un budino in gonnella, tremante fra i banchi dell’università, adesso dobbiamo ricrederci: Clizia è una sorta di Terminator del rimorchio. Vi domando, lettori: è così che tratteggereste il tipico soggetto segregato in casa per evitare l’ansia da interazioni sociali?
Rispondete come volete, tanto nessuno potrà mai cambiare L’oceano in una goccia. Dopo la straordinaria performance da donna “che non deve chiedere mai”, nelle successive pagine del romanzo Clizia dimostra un diverso atteggiamento anche per ciò che riguarda gli errori che sembravano mandarla in crisi. Leggiamo, durante una seduta con Giorgio:

[Parla Clizia] «[…] Mi viene in mente il foie-gras. Ma avete chiaramente sbagliato gallina.»
[Risponde Giorgio] «Oca. Al limite, anatra.»
Clizia stringe le labbra in un segmento di dimensioni minime, fulminando Giorgio con uno sguardo colmo di odio. Poi, mentre continua a fissarlo, sorride forzatamente. Lui intuisce di aver messo un piede in fallo e prova a recuperare la situazione.

Quindi, se le parole di Saraceni sono le stesse della lingua italiana, in alcuni punti del romanzo l’idea di commettere errori e di essere corretta terrorizza Clizia, in altri punti, invece, la nostra eroina è infastidita se qualcuno la corregge, e reagisce decisamente, con piglio aggressivo. Vorrei cambiare la mia diagnosi. Ritengo ora che Clizia soffra di sdoppiamento della personalità. Purtroppo la prognosi rimane la stessa: la nostra protagonista dovrebbe finire dritta dritta al macero.

Giustamente, state pensando che Saraceni non è riuscito a definire con precisione la protagonista. Ciò che ancora vi sfugge è perché Saraceni non è riuscito a definire la sua protagonista. È un compito faticoso, però non così arduo, dopotutto. Per tentare di risolvere l’enigma, vale la pena riflettere sulle parole pronunciate da Clizia durante la sua prima seduta con Giorgio:

[…] Ma io non sono matta, i matti casomai siete voi. […] Perché vi affannate dalla mattina alla sera. Vi dannate, correte, fate. Incidenti, violenze, inquinamento. Hai presente, no? Macchine che si scontrano, treni che deragliano […]. Per me, lo schifo è mischiarsi, te l’ho già detto, no? L’omologazione, il consumismo, la puzza […].

Ahi, ahi, avete capito? Saraceni è lo stesso di Fuoco è tutto ciò che siamo, e più cerca di essere diverso, più è lo stesso di Fuoco è tutto ciò che siamo. Non riesce a staccarsi dallo stereotipo del superuomo moralmente superiore che è trattato come un folle da una società di matti ignoranti. Temo sia più forte di lui, mettere nero su bianco un personaggio con tali caratteristiche è inebriante. Seriamente, Giulio Lisi era l’unico fico in un corpo docente costituito da decerebrati, e chi segue il blog di Saraceni sa che anche lì c’è costantemente un personaggio descritto come puro e illuminato in mezzo a un branco di cialtroni. Ma capite bene che nella trama de L’oceano in una goccia non c’è spazio per un simile stereotipo. Almeno, non dovrebbe esserci spazio: il nostro autore vuole intrufolare a ogni costo il suo feticcio, ed ecco che qualcosa inevitabilmente si rompe. Oltre alla protagonista, che appunto rimane indefinita dopo l’inoculazione del cliché, anche alcune parti del corpo di noi lettori si rompono.
Sappiamo bene come avrebbe dovuto svolgersi il primo incontro con Giorgio. Se Clizia fosse davvero una sociofobica, allora sarebbe sofferente, sarebbe una vittima: e in tal caso, si porrebbe in una condizione di naturale subalternità rispetto allo psicologo. In poche parole, avrebbe bisogno dell’aiuto di Giorgio per sconfiggere le proprie paure. Il suo viaggio dell’eroe sarebbe classico, ma comunque dignitoso e completo: difficoltà iniziali, incontro con il “mentore”, miglioramenti, peripezie finali, superamento dei guai e lieto fine.
C’è solo un piccolo problema. In questo schema, Clizia non assomiglia a un profeta, o a un filosofo. E ciò è inaccettabile per il nostro autore. Niente da fare, quindi: Clizia ha visto la nuda realtà delle cose, e decide con lucidità di non farne parte. La nostra eroina è pari, anzi è perfino superiore allo psicologo che tenta di guarirla e di riportarla alla normalità: ha compreso la verità che Giorgio non ha ancora visto.
Sapete che c’è? Anche con questa base di partenza sarebbe stato possibile comporre un romanzo accattivante e meritevole, con un viaggio dell’eroe atipico. Immaginiamolo così: Clizia non guarisce (come potrebbe?) ed è invece Giorgio ad ammalarsi, dopo aver finalmente aperto gli occhi sulla subdola e marcia “normalità”; entrambi quindi si ritirano dal mondo e sprofondano sempre di più nelle loro ossessioni; infine la realtà li mette alle strette e fa pagare loro la presunzione che hanno follemente coltivato. Carino, non trovate? Sia chiaro, lettori, non c’è nulla di nuovo. Pensate all’intreccio di molte opere pirandelliane o alla caratterizzazione di Harley Quinn: la storia del “finto folle” e dello psicologo che si converte alla visione del mondo del suo paziente illuminato è ormai un altro grande classico della letteratura. Peccato, avrei anche potuto parlare bene de L’oceano in una goccia.

Via dalla pazza folla

Invece mi tocca discutere dell’ennesima trama incoerente. Ehi no, aspettate, la trama de L’oceano in una goccia non è per nulla incoerente. La trama è inesistente.
Anche considerando i due alternativi viaggi dell’eroe appena proposti, è chiaro che il fulcro della trama deve essere il rapporto con lo psicologo. È importante che tra Clizia e Giorgio si instauri un dialogo, anche uno scontro di opinioni se necessario, perché uno dei due personaggi deve portare “dalla propria parte” l’altro. Non si può scappare, se si desidera scrivere un romanzo fondato sul canovaccio de L’oceano in una goccia, è proprio necessario che il dialogo sia profondo, esteso, energico.
Saraceni invece può scappare. Eh sì, l’ha fatto. Il nostro autore non ha elaborato nessun tipo di dialogo. Nemmeno una schifezzuola copiata da qualche romanzucolo di serie B. Nei pochi e brevi capitoli dedicati alle sedute, Giorgio si limita a rivolgere alcune domande a Clizia, la quale parla a ruota libera: prima del suo contemptus mundi, poi della sua famiglia. Dopodiché, magicamente, la psicoterapia inizia a funzionare. Saraceni ci concede una spiegazione del miracolo, sostenendo che saper ascoltare è una dote importantissima e sottovalutata:

Giorgio esce dal portone parecchio soddisfatto per la seduta che si è appena conclusa. Le cose stanno iniziando a muoversi nella direzione giusta. Dopo un primo momento di comprensibile diffidenza, Clizia ha cominciato ad aprirsi, a parlare di sé […].
In tre anni di master in Gestalt Counseling la cosa più difficile da imparare era stata proprio quella: saper ascoltare. La gente pensa che sia facile […]. La verità è che ascoltare gli altri, ascoltarli davvero, è una delle attività più difficili al mondo.

Oh, andiamo questo l’aveva già detto Carofiglio in quel suo bignamino! E se era una stupidaggine banale allora, che cosa fa pensare al nostro autore che adesso sia una cosa intelligente da dire? Probabilmente niente, perché il nostro autore non pensa: ha semplicemente trovato il modo più rapido (e più imbarazzante) per fare ciò che Barbascura X chiamerebbe (forse per esperienza) una “paraculata”. Intendiamoci, per quanto ascoltare sia giusto, bello e utile, ciò non basta per “aiutare” un paziente con un qualsivoglia disturbo psichico: va bene per chi si sente un po’ solo e non ha altri problemi, ma non è sufficiente per chi è solo a causa di un problema psicologico o psichiatrico. E se questo è un fatto direi noto praticamente a tutti, capite bene che ridurre la psicoterapia a un “saper ascoltare” non è un escamotage capace di risollevare le sorti di un romanzo in cui la figura dello psicologo è attiva quanto un blob arenato.

Ma c’è anche in questo caso un motivo ben preciso per cui Saraceni non è riuscito a impostare un dialogo tra i due personaggi. Normalmente, un dialogo è possibile fra due persone diverse, e… e avete già capito. Clizia e Giorgio non sono due personaggi diversi, sono manifestazioni della stessa personalità. E, con il nostro autore, formano una specie di trimurti del cringe. A sostegno della mia analisi, vi dico che tutti e tre si esprimono pressappoco allo stesso modo, usando parole simili per masticare i medesimi concetti. Ritorniamo ancora una volta alla prima seduta: Clizia sfoga tutto il suo disprezzo per il mondo…

«Lo schifo è la fila chilometrica di decerebrati che aspetta di poter mettere le mani su un paio di scarpe all’ultima moda, quelli che si ammassano davanti ai locali, insomma il gregge informe di analfapecore che infesta questo benedetto Paese, via.»

Lettori, fate bene attenzione: la nostra eroina, che ricordo è sempre una specie di timidissima hikikomori, parla di “decerebrati”, e poi definisce “gregge” tutti coloro che non sono come lei, cioè coloro che non hanno il suo carisma divino.
Ecco, adesso passiamo a un altro brano, che si trova all’incirca a metà del romanzo. Giorgio sta mangiando fuori casa, insieme all’amico Simone:

Oggi si gioca la Champions League, per questo motivo il Beefeater è così dannatamente chiassoso e affollato. Pensa Giorgio, sperando che questa mandria di trogloditi abbandoni il locale dopo il triplice fischio […].

Visto? Come Clizia, anche Giorgio insulta pesantemente la folla: per il nostro psicologo, essa è una “mandria” composta da “trogloditi”.
Ah, certo, volete fare gli avvocati del diavolo. Siccome a metà del romanzo Clizia e Giorgio si sono già incontrati più volte, forse la nostra protagonista ha esercitato un qualche tipo di influenza sullo psicologo. Nah! L’oceano in una goccia non lascia mai intendere che Giorgio stia sviluppando in sé una nuova personalità: tutto ciò che apprendiamo sul suo conto è che si è innamorato di Clizia. L’innamoramento lo cambia, sì, ma solo per renderlo… sbadato e sovrappensiero. A riprova di ciò, Simone non rinfaccia a Giorgio di essere diventato distante, triste, asociale, o qualunque altra cosa che ci farebbe intuire l’influenza di Clizia. No, Simone rinfaccia al nostro infoiato psicologo di essersi rincretinito (non prima però di averlo lodato con passione):

«Ma davvero non hai capito cosa è successo? Tu eri il più bravo di tutti, eri un piccolo, infallibile, genio. Dal giorno in cui Clizia è entrata nella tua vita, sei diventato irriconoscibile: ti scordi le cose, commetti errori ridicoli sul lavoro, perdi a tennis. Io non ti riconosco più, davvero. Diagnosi: tu questa ragazza non la reggi. […]»

Insomma, dobbiamo convincerci che Giorgio non è diventato un odioso testa di… Giorgio, dopo aver conosciuto Clizia: è sempre stato l’anima gemella della rossa.

“Anal-”

Bene, Clizia e Giorgio sono lo stesso personaggio, è chiaro. E Saraceni? Non si era parlato di una trimurti? Tranquilli lettori, ora chiudo la mia analisi. Perché riusciate a seguirmi, voglio richiamare la vostra attenzione su una parola pronunciata da Clizia. A dire il vero, suppongo l’abbiate notata da voi: è “analfapecore”. Ebbene, non vi sembra un déjà-vu? Se la risposta è affermativa, felicitazioni, siete perfettamente sani! È naturale che abbiate un déjà-vu, perché abbiamo già incontrato un vocabolo simile: esatto, proprio nel testo sacro Fuoco è tutto ciò che siamo, il profeta Giulio Lisi istruiva i puri di cuore sulla malvagità degli “analfarazzisti”. Ora, evidentemente Clizia è come Giulio Lisi, e sappiamo che Giulio Lisi è come Saraceni: per la proprietà transitiva, Clizia è come Saraceni. Ma Clizia è anche come Giorgio, quindi, sempre per la proprietà transitiva, Giorgio è come Saraceni. Per la simmetria della somiglianza, poi, Saraceni è come Giorgio ed è come Clizia. Et voilà! Eccovi dimostrata la sacra trimurti della letteratura trash.
Non vi piacciono le dimostrazioni puramente “formali”? Ah, ma posso accontentarvi anche in questo caso. Se leggete il blog di Guido Saraceni, potete scoprire in un articolo scritto nel settembre 2020 queste parole:

Desta scandalo che un intellettuale serio e preparato possa comportarsi esattamente come la massa di analfacapre che ha gioito per la morte di Camilleri […] non avremmo risolto nulla anche se dovessero contemporaneamente sparire dalla faccia della terra gli attuali rappresentati degli analfarazzisti mannari italiani – sarebbero ovviamente sostituiti da altri e magari peggiori politici.

Be’, direi che non ci sono più dubbi. Ah, certo, certo, l’ho notato anch’io: pare proprio che Saraceni sia fissato con il prefisso (lo so, lo so, non è un vero prefisso, è per ragioni di satira) “anal-” e con gli ovini. Ma non voglio assolutamente sviluppare questo tema, non ho la necessaria laurea in psicologia.

Dopo questa indagine “scientifica”, molti misteri de L’oceano in una goccia sono evaporati. Adesso è sicuramente facile capire perché Clizia è una gnoccolona e Giorgio è un “piccolo infallibile genio”. Anzi, bisogna proprio dire che avrebbe fatto scalpore se fossero stati diversi. No, Clizia non è stata mal caratterizzata per via dell’inesperienza o per una forma di trascuratezza da parte del suo autore. Il punto è questo: che figura ci farebbe Saraceni se il suo alter ego fosse un hikikomori incel qualsiasi? Impensabile. A parlare di “analfapecore”, se proprio non è un genio figo e anticonformista, deve essere una sexy e conturbante rossa. E poi deve dirlo anche il genio figo, perché sì.

Che nerda, ragazzi!

Lo so, la parte “teorica” è completa così com’è, tuttavia, riguardo all’identificazione di Saraceni con i suoi personaggi, L’oceano in una goccia ha molte chicche da regalarci. Non resisto, ne discuterò subito una che trovo gustosa. Per apprezzarla come si deve, è necessario che io faccia una breve premessa: Clizia è più volte definita “nerd” nel romanzo, inoltre ci ricordiamo che frequenta online l’università e che si guadagna da vivere con l’informatica. Ora, chiudete gli occhi e immaginate insieme a me la biblioteca privata di una simile nerd: che cosa vi troverete? Probabilmente manuali di programmazione, di fisica, di algebra avanzata. Qualche classico, magari L’origine delle specie, o l’Organon. Teniamo anche in conto che le lezioni universitarie seguite da Clizia non riguardano materie scientifiche, sono di letteratura: quindi la biblioteca conterà anche romanzi, che so, Flaubert, Dostoevskij, Unamuno. O anche Asimov e Lem…

Scorre con l’indice la prima fila di libri, appena supera la metà si ferma, torna indietro […].
Lo sapevo che qualcosa non andava! Lo sentivo! De Luca… […] perché stai accanto a Saviano? […]

Ecco, appunto, Erri De Luca, Saviano… ehi, un momento, questi non sono poi così grandi! Anzi, sono proprio una specie di cacca soft, dal punto di vista sia narrativo, sia intellettuale. Giusto, giusto, a che serve lamentarsi? Prima mi sono lasciata trasportare dalla fantasia, e ho immaginato la mia biblioteca privata, ma ora devo ritornare alla realtà: la biblioteca di Clizia è ridicola. Però devo essere giusta, la sexy rossa non è una nerd con gusti da lobotomizzata, è Saraceni con gusti da Saraceni. Perciò, è regolare anche il fatto che la nostra protagonista rilassi i nervi raccontandosi delle cringissime storielle zen

Le viene in mente una delle storielle zen che tanto ama. Una volta un ricco signore chiese a un monaco di predisporre un elogio per la prosperità della sua famiglia […].

Saraceni, Saraceni, sì. Oh, non resisto! Andiamo lettori, siamo seri, quale ragazza “millenial” prova interesse per simili stupidissime storielle zen? Nessuna. La maggior parte lancia sfide su TikTok, oppure pubblica meme su Instagram…

Troppo fico per le convenzioni

Insomma lettori, vi avevo avvertito sin dall’introduzione: L’oceano in una goccia è proprio come Fuoco è tutto ciò che siamo. Evidentemente, nell’idea di letteratura che ha Saraceni, il concetto di trama si riduce a una scusa. È una scusa che il nostro autore usa sia per poter dare sfogo all’amore che nutre per sé stesso, sia per poter esprimere ancora, ancora e ancora quelle tre o quattro insulsaggini filosofiche che gli vengono in mente. A questo proposito, non è affatto un caso che nel romanzo abbondino le scene in cui Clizia si impegna in un monologo, e che scarseggino invece i dialoghi davvero significativi (come ho già lamentato). Non stupitevi, dunque, se il romanzo spende pagine e pagine per esporre l’opinione di Clizia su un certo aforisma di Bukowski, anzi, di “Charles”: è solo un modo per far fruttare anche l’altra laurea del nostro autore, quella che ha faticosamente conseguito all’università di Facebook…

[…] Allora, Charles. Sì, avendo letto praticamente ogni cosa che ha scritto nella sua lunga vita, ho deciso che siamo abbastanza intimi da chiamarlo per nome. […] Charles, dicevo, intende affermare qualcosa di molto più profondo e serio sull’amore: intende dire che l’amore uccide. […] Charles intende dire che l’amore è una ferita. Ti ricordi quella frase di Galimberti tanto bellina che t’ho letto la settimana scorsa […]. L’amore è ferita, sanguinamento e morte, via! Lo dice anche Gibran! […]

Che bello, oltre a “Charles” e a Gibran, è menzionato anche Umberto Galimberti, idolo dei semicolti (o “analfacolti”?) e spina nel fianco dei (veri) filosofi! Sono costretta ad ammetterlo, certamente Saraceni non ha per magia tirato fuori dal cilindro un brano simile, deve essere stato costretto a trascorrere un intero pomeriggio sui social, guardando profili su profili di influencer, solo per poter trascrivere gli aforismi che fanno da didascalia alle loro foto in costume. Apprezzo sinceramente lo sforzo, ma il nostro autore non poteva risparmiare almeno un po’ di energie anche per altri momenti importanti della trama, come la morte della nonna?

Oh scusate, ma era proprio necessario rivelare questo dettaglio. Sì, alla fine della fiera la nonna muore, e senza che Clizia sia riuscita a incontrarla un’ultima volta. Capite bene che si tratta di un evento estremamente importante: all’inizio della nostra avventura, vi ho detto che è stata la malattia della nonna a convincere Clizia a iniziare la psicoterapia. Ora, il fatto che la protagonista non riesca a dare l’ultimo saluto rappresenta un totale fallimento, e dovrebbe verosimilmente causare nella nostra Clizia una totale perdita di motivazione. In un romanzo ben fatto, un simile lutto sarebbe il momento più tragico della trama: perdendo la nonna, Clizia dovrebbe affrontare un “ritorno del mostro”, cioè dovrebbe affogare nel senso di colpa, isolandosi nuovamente nel suo appartamento.
Ma ehi, questo è un romanzo di Guido Saraceni! Ecco dunque tutto ciò che possiamo leggere sull’immenso dolore di Clizia:

Non ha idea di quanto tempo sia passato dal momento in cui ha letto la lettera di nonna Clara; dopo una tremenda crisi di pianto si è addormentata all’improvviso, come se le avessero staccato la spina. Ha perso completamente la nozione del tempo. […] Sente un leggero cerchio alla testa e avverte lo stomaco brontolare. Ha fame, tanta. Entra in cucina e si prepara un piatto di spaghetti aglio e olio, abbondando indecorosamente con il peperoncino. Divora la pasta con gran gusto, mentre il giradischi riproduce Siamo solo noi.

Seriamente, il nostro autore ha frequentato qualche segreta scuola di scrittura, magari nello Shangri-La? Come può credere Saraceni di poter liquidare l’acme del romanzo con un piatto di aglio e olio? Come possiamo avere a cuore la protagonista, piangere e disperarci con lei, se non sappiamo ciò che pensa, ciò che prova? Tutto ciò che possiamo leggere è una fredda e ridicola lista di azioni (piange, si addormenta, cucina, avverte lo stomaco che brontola) e il titolo di una canzone. E il nostro autore ha già alle spalle un romanzo, perciò non sognatevi nemmeno di giustificarlo con la scusa dell’inesperienza. Questo non è errare, questo è perseverare.

Ah, ma avete davvero dei cuori d’oro! Le scene drammatiche de L’oceano in una goccia scatenano una violenta peristalsi inversa, e voi volete sapere se magari Saraceni ha maggior fortuna con le descrizioni dei momenti lieti. Dovete indurirvi, lettori. I momenti lieti… i momenti lieti, be’, è difficile dire qualcosa su di essi. Oh, andiamo, non fate finta di essere sorpresi. Vi ho già accennato che Giorgio e Clizia non interagiscono quasi per nulla: sappiamo soltanto che a un certo punto lui si innamora. È noto, bisogna avere almeno un minimo di esperienza delle cose di cui si vuole raccontare, se si vuole raccontarle in maniera credibile e avvincente. Appunto, Saraceni non ci racconta dell’ansia che Giorgio prova prima di ogni incontro, non ci spiega della soddisfazione che lo psicologo prova quando la bella rossa sorride, addirittura nel libro non c’è traccia della tensione erotica provata da Giorgio. Nulla. Ma aspettate, perché questo è un nulla preliminare, il vero nulla è alla fine. Come vi avevo anticipato, Giorgio decide infine di dichiararsi a Clizia, e lo fa da vero macho, con una lettera. Ora, questo è il secondo momento clou de L’oceano in una goccia: la protagonista riceve una dichiarazione d’amore inattesa, perciò deve capire se per lo spasimante prova vero amore o una semplice amicizia. L’esito è quasi sempre certo (anche la protagonista si scopre innamorata), tuttavia un po’ di suspense non guasta mai, anche quando il finale è scontato. Questo schema è l’abc di ogni chick-lit, e tutti gli autori del genere, per quanto incapaci nel resto, lo sanno mettere in pratica.
No, lettori, non pensiate che il nostro autore non conosca quell’abc, e che sia quindi un analfabeta lui stesso. È che Saraceni è troppo fico per le convenzioni, e ha quindi una sua teoria: ne L’oceano in una goccia ci fa vedere Giorgio determinato a scrivere la lettera, poi spezza la spina dorsale della narrazione con un inconcludente flashback sull’infanzia di Clizia, poi salta a piè pari all’ultimo capitolo e ci racconta di Giorgio e Clizia che passeggiano felici durante un loro appuntamento. Be’, basta così.
Un po’ palloso, dite? In effetti anche il nostro autore deve aver avuto questo sospetto. E poiché non si sa mai, Saraceni ha deciso che andava bene movimentare un po’ il tutto. Si è servito essenzialmente di due trovate: un pruriginoso inserto “piccante” e un colpaccio di scena. Il bruciore che il pubblico del libro inevitabilmente finirà per sperimentare è causato da un’inspiegabile e assolutamente inopportuna relazione BDSM che si instaura fra Clizia (sempre timida, insicura e autoreclusa) e il suo amico Marco. Il colpo di scena, be’… non voglio proprio rovinarvi la sorpresa con parole rivelatrici, vi dico solo che alla fine de L’oceano in una goccia si scopre che tutto era una balla. Non capite, e la cosa vi fa arrabbiare? Allora è tutto a posto, perché così mi sono sentita anch’io dopo aver alzato gli occhi dall’ultima riga del romanzo.

La mano amica

Lettori, è il caso di avviarsi alle conclusioni, con un paio di osservazioni sullo stile. A dire il vero, mi è sufficiente farvi notare che L’oceano in una goccia è probabilmente uno dei pochi casi di autoplagio, se non l’unico addirittura. Con tutte le belle cose che abbiamo imparato, non posso certo sorprendervi dicendo una volta di più che questo nuovo romanzo è un gemello di Fuoco è tutto ciò che siamo. Quello che può ancora sorprendervi è l’effettivo livello di somiglianza fra i due libri. Ritornate un attimo al brano in cui il nostro autore spiega che “basta ascoltare”. Fatto? Bene, ecco che cosa sosteneva Giulio Lisi in Fuoco è tutto ciò che siamo:

Il tuo compito è principalmente di ascoltarlo e di partecipare empaticamente. Devi agevolare e guidare il dialogo per fare in modo che la persona che hai di fronte scopra da sola, dentro di sé, le risorse di cui già dispone.

E se non vi basta, confrontate ciò che dice Davide (coprotagonista, insieme a Giulio Lisi)…

«Ecco, io invece non voglio essere una goccia nel mare[…]

… con le parole Clizia:

«[…] Ho sempre pensato che per il mondo fossi irrilevante: una goccia nel mare.»

Capito? E non dimenticate che tutto questo, con minime variazioni, si può leggere in un qualsivoglia articolo del fantastico blog di Saraceni. E allora mi domando: perché comprare la stessa cosa più e più volte, quando si può “godere” di essa senza sborsare un centesimo?
Il nostro autore mi potrebbe rispondere che L’oceano in una goccia ha davvero qualcosa che manca a Fuoco è tutto ciò che siamo e al blog. In questo nuovo romanzo, infatti, Saraceni espone per la prima volta al grande pubblico la sua scoperta delle mani. Sì, e l’ultima conquista scientifica dell’autore comprende anche la dimostrazione che le mani sono due, una destra e una sinistra. Comprensibilmente entusiasta, ne L’oceano in una goccia Saraceni non perde nessuna occasione per divulgare la sua teoria:

Clizia porta la mano destra al viso e si stropiccia gli occhi […].

Dopo pochi minuti [Clizia] è in soggiorno, nella mano destra custodisce una tazza di tè aromatizzato […], mentre con la mano sinistra scosta la tenda di pochi centimetri […].

Adriana resta immobile, seduta al tavolo della cucina, le dà le spalle, curva sulla sua tazza di caffè, la testa appoggiata alla mano destra.

Clizia blocca l’apparecchio con la guancia, incastrandolo tra il collo e la spalla, chiude gli occhi e porta la mano destra alla fronte, mentre con la sinistra stringe con eccessiva foga il povero Cagliostro [il gatto] […].

[Clizia] Sente il battito del cuore accelerare e con la mano destra inizia a sfogliare l’agenda […].

Basta, davvero. Dopo Fuoco è tutto ciò che siamo sapevo che la letteratura aveva incontrato il suo peggior nemico, ma ero fiduciosa che fosse un incontro casuale e irripetibile. L’oceano in una goccia mi ha dimostrato che avevo torto, e ora sono molto preoccupata. Sì, voi ridete, è un romanzuculo da niente, è una specie di Harmony cretino, nulla di che. Sbagliate. L’oceano in una goccia è inquietante, anche perché tra le sue righe espone chiaramente un piano malvagio:

«E quindi saremmo costretti a ripopolare il pianeta! Non per nostro piacere personale, Clizia, ma per dovere, per senso di responsabilità e rispetto nei confronti del genere umano […] Faremo otto bambini e lentamente ripopoleremo il mondo di una nuova stirpe di esseri umani […]

A parlare è un uomo misterioso, in un sogno di Clizia. Ebbene, voi sapete ormai che Clizia è Saraceni, quindi se fate le opportune sostituzioni ottenete… la visione di un futuro apocalittico, una distopia, la sostituzione degli esseri umani da parte di una nuova specie, incapace di scrivere romanzi decenti!
Volete forse starvene con le mani in mano, aspettando che si realizzi questa minacciosa profezia? No, lettori, io vi invito a resistere. Procuratevi L’oceano in una goccia e studiate le sue parole, così da trovare il modo di fermare la futura invasione! Se lo farete, io vi ringrazio, e vi auguro una buona lettura!

Sara

Ciao! Sono la fondatrice del blog letterario "Il pesciolino d'argento", amo profondamente i libri, l'arte e la cultura in generale.

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