Le regole dello Shangai – Erri De Luca

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IL GIUDIZIO:

le regole dello shangai romanzo di erri de luca edito da feltrinelli

Non faccio distinzione di età. Tu mi chiami vecchio, va bene, ma io sono lo stesso tuo coetaneo, vivo nello stesso tempo. Le generazioni per me non esistono. Finché si è vivi siamo contemporanei. Siamo due persone.

Dirty Erri

Io mi aspettavo una roba tipo da guru. Lo confesso, sì, perché mi dovrei vergognare? Mi sono detta: Le regole dello Shangai… è sicuramente un racconto spirituale, una di quelle cose, sai, che ti fanno vedere il mondo con altri occhi, che ti fanno scoprire la magia dentro di te. Il sottile incastro delle cose da niente, il grande destino che non è nella ricchezza, nel successo, ma nella quotidianità, nelle piccole sfide. Erri De Luca è il grande vecchio, dai, quello che ti guarda di taglio con l’occhio lacrimoso, il baffo unto e le labbra serie di chi ti spiega la vita. Sì, insegnami maestro! Oppure…

Calma, calma, calma. Partiamo… uh… dall’inizio, che ne dite? Apro il libro è subito mi becco un cazzotto. Parole dure, lettori, parole dure e dritte al punto:

La scrivo da lettore: all’inizio di un libro mi piace sapere subito con chi ho a che fare. […]
Allora presento le due persone che avviano il dialogo all’inizio di questa storia.
[…]
I loro nomi non contano, per me. I nomi non aggiungono niente alle persone. Anzi tolgono: se chiamo Federico il personaggio, ecco che chi legge lo associa involontariamente a una persona che ha lo stesso nome. Questo abbinamento non aggiunge, toglie.

Wow, qui siamo in modalità “Dirty Erri”: seduto nella penombra, di tre quarti, fuma una sigaretta e ha lo sguardo glaciale. “I loro nomi non contano, per me”. Che tosto. Ho un’occhio nero, dopo queste parole, però wow, un supermacho come non se ne vedono da un pezzo! E… e sapete, la cosa mi piace un sacco! Non solo per il discorso del macho, ma perché Erri ci sta dicendo che Le regole dello Shangai è una storia universale: l’uomo e la donna assoluti, gli archetipi. Sono io. Siete voi. Eccezziunnale verammende, sarete d’accordo con me. E, appunto, proseguendo con la lett…

Nessuno somiglia a qualcun altro, neanche i gemelli omozigoti.

Uh… ehm… cioè… Erri, no, scusa ma i gemelli omozigoti si somigliano tra loro, il gemello A assomiglia a B e viceversa, sono… gemelli… omozigoti. Ci sono persone che somigliano a qualcun altro, è un fatto. Uhm, non mi sta ascoltando, sta dando un tiro alla sigaretta. Occhei, occhei, niente, non è successo niente. Eh, eh, è che lui è… è il guru macho e dice cose… dice cose da macho, cioè dice quello che gli pare e, diavolo!, che gli frega di quel che pensano gli altri?! Lui tira dritto. Si rifiuta perfino di rispondere a domande che nessuno ha mai posto:

[…] Se questa vicenda sia presa o ispirata da un fatto di cronaca, preferisco sorvolare.
Si svolge in tempi recenti, se il 1900 lo è ancora.

Be’, be’, dipende: il 1900 ormai è un po’ lontanuccio, il secolo Ventesimo invece è finito da poco più di vent’anni, quindi sì, è ancora recente. Meh, lasciamo di nuovo perdere le sottigliezze, andiamo al sodo.
Dunque, siamo in montagna. C’è un… vecchio… accampato in una tenda… e… una zingara… pardon, una “gitana” minorenne… che entra nella tenda… per… qualche… motivo:

– Chi sei?
– Ho freddo, fammi stare dentro la tenda.
– Chi sei?
– Che t’importa? Sono una che sta crepando di freddo. Ho visto la tenda e sono entrata.
– Che ore sono?
Le due, accidenti, che diavolo ci fa una in giro per boschi a quest’ora? Ho un solo sacco a pelo, lo apro e ci copriamo, il materassino è largo.
Accendo la frontale.
– No. Non accendere, mi vergogno a farmi vedere. Fai presto, senti che batto i denti dal freddo?

Ehm, occhei…? Cioè, un inizio in medias res, senza troppi complimenti: è in linea con la tostissima prefazione, quindi non mi sorprende più di tanto, però… c’è qualcosa di strano. Saranno i personaggi? Da quel che De Luca ha detto, ripeto, mi aspetto che ne Le regole dello Shangai ci siano degli archetipi: infatti, che cos’altro può giustificare l’anonimità dei protagonisti, la vaghezza della loro caratterizzazione? Ed è quel che il nostro autore vuole, è chiaro: nessuna associazione con particolari che conosciamo, dobbiamo essere vergini e cogliere, casomai, l’universale. Sì, sì, può anche darsi che Erri sia pigro e svogliato e che non gli siano venuti in mente due nomi plausibili per i suoi personaggi, ma questa è un’altra faccenda.

Ebbene, gli archetipi: perché, allora, incontriamo un vecchio e una zingarella, in montagna, dentro un sacco a pelo?! Sono personaggi peculiari e in un contesto peculiare, ci vuole uno sforzo per veder concretato in essi il concetto di umanità. Non è un dialogo fra due nessuno seduti su una panchina, non è una storia d’amore osteggiata da due famiglie rivali, non è… non è una caccia alla balena bianca! Mi spiego meglio, ché mi sa state obiettando: eh, ma Moby Dick ti sembra una storia di portata universale, cioè i balenieri, il mare aperto… chi è che è si può identificare? Lettori, no, Moby Dick è una storia archetipica perché si sviluppa toccando tutti i fatti della nostra esistenza (dalla filosofia alla lotta per la sopravvivenza) e inserendo questi ultimi in un contesto coerente. I dettagli realistici, per Melville, sono i veicoli capaci di trasportare l’idea, la teoria, oltre la semplice storia: leggiamo Moby Dick e, sicuro!, ci godiamo un affresco di vita ottocentesca, però capiamo che c’è un invito a guardare oltre l’aspetto puramente letterale. Marcatori discreti (l’insistenza su certi oggetti, le divagazioni, gli accostamenti audaci…) ci strizzano l’occhio e ci suggeriscono che possiamo comunicare con l’opera a un livello diverso, metaforico. È la perfetta combinazione fra il realismo del senso letterale e la profondità metafisica del senso traslato a fare di Moby Dick un classico senza tempo; incontriamo Ismaele, nell’Ottocento, che si imbarca su una baleniera e… e però lo fa perché non ha un soldo, e perché sente il richiamo dell’avventura, della sfida… e poi ci sono i tormenti interiori, le riflessioni. Quel che cogitano i marinai del Pequod osservando il doblone piantato nell’albero maestro è solo occasionato dalle circostanze: queste ultime sono trascese dal contenuto stesso del pensiero dei personaggi. E noi non facciamo fatica a sentire che la storia, a quel punto, ci ha ormai completamente “assimilati”.

Moby Dick (senza Moby)

Uhm, ho menzionato Ismaele. “Chiamatemi Ismaele”: è uno degli incipit più belli e potenti, secondo me. E compare un nome! Non è che Melville si rifiuta di fornire dati anagrafici, tutti i suoi personaggi hanno un nome! Non toglie, questo, potere alla suggestione metafisica? Assolutamente no, anzi. I nomi sono biblici, hanno un che di lontano, di vago, di inafferrabile: sono lì, nero su bianco, e può pure darsi che conosciamo un “Ismaele”, tuttavia… la perfetta padronanza della tecnica da parte di Melville fa piazza pulita in noi di ogni particolarismo che potrebbe rovinarci l’esperienza cui andiamo incontro. Basta quel “[c]hiamatemi”: fine, non c’è bisogno d’altro. Leggiamo quello e tutto si schiude. La prima parola del romanzo, lettori.
Ecco, Erri De Luca fa tutto il misterioso sui nomi, per non rischiare che Le regole dello Shangai divenga per noi, tipo, la storia dello zio Pino e della cuggina Maria che incassano il reddito di cittadinanza, e… e poi ci scaraventa nel mezzo di non si sa dove, mentre sta succedendo non si sa cosa, insieme a due che non c’entrano niente l’uno con l’altra! Avvicinandomi alla lettura del libro non sento che dovrò viaggiare su due livelli (letterale/storico, metaforico/metafisico), sento solo una grossa, minacciosa confusione. Tanto più che i dettagli, al contrario di Moby Dick, qui sembra non vogliano significare proprio un tubo! Insomma…

– Metti questa giacca, ci sono i guanti nella tasca della tenda dalla tua parte.
Trovi pure un thermos con il tè.

Va bene, uh… la giacca, i guanti, la tasca che è “dalla tua parte”, il thermos… ma chi se ne frega che dentro c’è il tè?! Ho capito, magari è roba che ci si porta appresso quando si va a dormire ad alta quota, però che cosa ci dovrei fare con queste informazioni? Ve lo giuro, forse sarà un mio limite, forse Le regole dello Shangai mi ha incontrata in un momento in cui non potevo capirlo (wow, mi sento così controcorrente), ma non riesco proprio a trovare uno spunto per un’interpretazione diversa da quella letterale. Davanti ad Achab che martella il doblone vi viene subito da pensare che, ah-ah!, quello non è solo un tizio che sta piantando un doblone nell’albero maestro! Invece, davanti a “i guanti che sono nella tasca della tenda dalla tua parte” penso… ehm… che sarà, una Quechua di quelle che vendono da Decathlon?
E davanti a quest’altra informazione…

[…] Eh no, i piedi addosso no.

… che è pure ripetuta poco dopo…

I piedi addosso no.

… e con lo stesso tono monocorde, mi sento al più smarrita, non riuscendo a togliermi dalla testa che forse Dirty Erri si è meritato quel “Dirty” per aver passato troppo tempo a surfare (però senza particolare entusiasmo) su Onlyfans e su annessi portali, tutti approvati da Peppe Fetish.

Dalle il nero

Vabbè, voglio almeno credere che ci sia una speranza. Il vecchio e la zingarella: due opposti, per sesso, per età, per condizione sociale. Può darsi che questa sia in effetti una metafora, una sorta di trasposizione in carne ed ossa dello yin e dello yang. Uhm, dai, c’è ancora spazio per le riflessioni d guru sulla vita e sulle cose così e cosà.

Proseguendo nella lettura dei dialoghi, scopriamo qualche informazione in più. Lei, che ha quindici anni, non è lì per caso, fugge da un matrimonio combinato; lui, che di anni ne ha una sessantina, faceva l’orologiaio, ed è mezzo napoletano e mezzo russo. Lei è un po’ una specie di dottoressa Dolittle che in qualche modo parla con gli animali e li considera “persone”; lui è un simp. Ah, non scherzo, un’intera parte del dialogo fra i due è dedicata al ricordo di un amore del passato di lui, amore mai consumato e finito tragicamente:

Capelli rosso ruggine, lentiggini […].
[…]
Stupivo di me stesso. Per la prima volta m’interessava una ragazza.
Mi veniva per lei una commozione. La vedevo in continuo pericolo e la protezione spettava a me.
Non era vero, ma quel sentimento mi assegnava un compito.
– Mi sedetti al suo fianco, giocando prima di lei. Sbagliai apposta per far continuare il gioco.
A lei non importava vincere, voleva però il bastoncino nero. Quando il turno ripassò da me sbagliai di nuovo ma aiutandola a prendere il nero.
[…]
[…] il pomeriggio […] si giocava a Shangai. Lei mi voleva vicino perché le portavo fortuna.
Se per lei aveva la forma di un bastoncino nero, gliela portavo volentieri.
[…]
Portai lo Shangai al bar della spiaggia e giocai seduto a un tavolino. Avevo chiuso gli occhi per le ultime mosse, memorizzate.
Quando li riaprii lei era in piedi davanti al tavolino.
I suoi occhi non scrutavano oltre, erano su di me fermi, severi. Avevo barato al gioco. Dove gli altri giocavano al loro meglio, io fingevo l’incapacità.
Perché lo facevo? Non le importava, non valeva la pena saperlo.
Ho ascoltato i suoi pensieri in quel momento come se li avesse pronunciati. Il sentimento che provavo me lo permise.
Prolungò non so per quanto lo sguardo su di me.
[…]
Alla fine lei fece un piccolo no con la testa, si voltò e uscì dal bar. Il pomeriggio non venne a giocare, il mattino dopo salii sul battello di ritorno.

Occhei. E daje con la rossina: dico, si trova, nella narrativa contemporanea, una storia in cui il protagonista si fa le pippe su, che so, una brunetta… una biondina… una vrenzola con le meches?
Va be’, il punto è che… oh… no?! No, il vecchio riprende il filo, dopo un intermezzo in cui chiacchiera d’altro con la sua amichetta. Riprende il filo e sostanzialmente racconta che quella stessa tipa l’ha incontrata anni dopo, ormai stagionata. Ebbene, la rossina va nel negozio da orologiaio di lui per… boh, per vendere un orologio, qualcosa del genere:

– Le comprai l’orologio, glielo pagai il giusto, cioè più di quanto le avevano offerto altri negozianti.
Mi guardò in faccia con attenzione, come la volta che mi aveva scoperto giocare da solo allo Shangai. Ma non mi aveva riconosciuto, voleva guardare in faccia uno che la trattava meglio.

E bla, bla, bla, lui ci prova di nuovo e stavolta le cose vanno meglio, tanto che, a quanto pare, il nostro eroe riesce ad allungare le mani…

Abbiamo abitato insieme per un anno. L’ho aiutata con i debiti lasciati dal marito.
Non è stato amore. A lei serviva un appoggio. Io cercavo dentro di me il ragazzo che voleva proteggerla.

… dopo aver sostanzialmente pagato per farlo. Ma ehi, il casino è dietro l’angolo, perché lui poi si fa di nuovo beccare con lo shangai, lei lo riconosce, di nuovo mette il muso, lo molla e via così.
Dunque… eh… uhm… meh… eddai, è appunto la storia di un simp, roba che mi aspetterei di trovare su un forum incel, non in un piccolo esercizio spirituale da guru. Cioè, lui praticamente si evira per lei, perché la ama, la vuole proteggere (ehi, questo è maschilismo, le donne possono anche proteggersi da sole!), e poi lei si rivela un’insopportabile stronzetta quando scopre che lui è un sottone (ehi, questo è femminismo, gli uomini non meritano di essere trattati malamente per cazzatelle!), e tutto questo ci insegna che… eh… lo sapete, voi?

Due brave persone

Io no, anche perché quando arriva il pezzo sull’amore perduto, Le regole dello Shangai mi ha già proposto parole a proposito delle differenze d’età, a proposito degli animali da circo (niente di che, ve l’ho accennato, la ragazza semplicemente considera “persone” gli animali, soprattutto l’orso costretto, anche da lei, a fare giochetti idioti), a proposito della chiromanzia (tanto per non cedere agli stereotipi) e a proposito… eh… di come si gioca a shangai. C’è qualcosa di strano in tutto questo. Qualche aforisma spirituale comincio a trovarlo, sì…

– Tu chiami persone gli animali.
– Tu no?
– No. Forse perché non li conosco.
Mi sono interessato agli orologi. Sono organismi. Hanno dentro più di duecento pezzi.

Trovare la tenda al buio è magia.
Pure leggere il palmo della mano.

Intanto puoi dare un’occhiata a questo gioco. Si chiama Shangai, uno di quelli che faccio da solo.
– Come si fa?
– È un gioco anche capire come si gioca.

… ma non mi porta da nessuna parte! Di nuovo, non riesco a immaginarmi in una selva metafisica che, lentamente, parola dopo parola, prende una forma sempre più vasta e intricata. Mi pare invece di camminare per una discarica di aforismi, luogo dove questi ultimi se ne stanno ammucchiati gli uni sugli altri senza alcun legame, a parte qualche goccia di liquame che cola da alcuni imbrattando quelli più in basso.
Ad esempio, il primo stralcio del trittico che vi ho proposto: cosa vuole comunicarci? La zingara considera gli animali allo stesso livello degli esseri umani, e d’accordo. Questo perché lei è una zingara, no? Già, e infatti il vecchio, da buon occidentale materialista che ha perso il contatto con l’anima del mondo, non considera persone gli animali, e anzi si stupisce di quel che afferma la sua interlocutrice, lo sottolinea. Bene: ma poi lui stesso dichiara che gli orologi sono “organismi”, cioè mette tali oggetti sullo stesso piano degli animali e degli uomini! Dunque, se è già incline a un pensiero vagamente animista (o magari ilozoista, boh!), perché diavolo è perplesso all’idea che la zingarella chiami “persone” gli animali? Anche se lui non l’ha mai fatto, dovrebbe essere facile da accettare, per la sua forma mentis, no? Pertanto, che cosa sto leggendo? Una contraddizione? E se è una contraddizione, qual è il suo scopo?

Per quel che riguarda la chiromanzia e lo shangai, be’, sono essi in toto a non avere senso. Cioè: singolarmente hanno senso, ma insieme, in questa storia… no. Il fatto è che si tratta di due elementi che invitano fortemente all’interpretazione metaforica: sono espedienti con cui introdurre nel libro appunto quelle riflessioni e quelle suggestioni filosofiche di cui ho tanto parlato. Leggere la mano potrebbe aprire le porte a un dialogo sul determinismo, sulle aspettative future, sui rimpianti del passato, in generale sulla nostra condizione di esseri sospesi tra il “già” e il “non ancora”. Oppure potrebbe dare il via a una meditazione sul nostro bisogno di sapere e sulla nostra paura di sapere, pulsioni psicologiche che sperimentiamo quotidianamente. Lo shangai, invece, sarebbe un’ottima base per un discorso sulla competizione, sulle virtù della calma, della pazienza e della precisione; ma potrebbe anche essere una metafora della ricerca di obiettivi in definitiva vani, oppure una metafora della nostra condizione sociale di bastoncini dal diverso valore che vengono via via rimossi, senza alcun nobile scopo.

Sono solo alcuni suggerimenti che vengono, e capite bene dove voglio arrivare: se combiniamo entrambi i filoni (meta)narrativi viene fuori un minestrone colossale, difficilissimo da gestire. Per carità, non impossibile da gestire: ma, appunto, difficilissimo, questo sì. E se non si fa attenzione a ogni virgola, a ogni punto, il risultato è inevitabilmente spiazzante.
Eccallà, De Luca mette tutto nel calderone, e già a partire dalla copertina, la quale mi sbatte in faccia il titolo, appunto Le regole dello Shangai, e un’immagine che ritrae la mano così come vista dal chiromante! Cacchio, chi diavolo sarà il mio guru? Sarà la zingarella, con la sua saggezza da stereotipo e i suoi giochetti acchiappagonzi? Sarà il vecchio, con la sua saggezza da vecchio e le sue arteriosclerotiche banalità su un gioco da tavolo? Ovviamente: boh!

Zig zag

E la sensazione di smarrimento generale di cui vi sto parlando è oltretutto acuita da… eh, via, l’avete capito: dai dialoghi stessi. Dalla prima pagina all’ultima (oh, e vedrete poi che cavolo c’è nelle ultime pagine!), non si fa mai viva una voce narrante, e… be’, davvero, un’opera può senz’altro comporsi esclusivamente di dialoghi, ma in tal caso deve seguire alcuni accorgimenti: in particolare, l’azione dovrebbe essere pressoché inesistente, per lasciare spazio all’interiorità dei personaggi, soprattutto a quel tipo di interiorità che manifesta, lo ripeto, una ricerca filosofica, metafisica.
La ragione per cui l’azione non ha spazio in una struttura dialogica è evidente: eliminando la voce narrante, non c’è nulla che possa mediare fra noi, estranei alla storia, e i personaggi, che la storia la vivono. In altre parole, non c’è nessuno che ci spiega che direzione sta prendendo la faccenda, nessuno che ci rivela dettagli utili a capire perché un certo personaggio si comporta in un certo modo… nessuno che ci dice manco in quale contesto ci troviamo! Insomma, l’unico modo per rendere… diciamo “godibile”, ma intendetelo pure come “comprensibile”… un’opera senza voce narrante è comporre il tutto in modo tale che non ci sia affatto bisogno di un’intermediario: si deve leggere una storia, dunque, in cui il puro contenuto del dialogo è “tutto ciò che accade”, e tutto ciò che è importante sapere.

Ora, abbiamo visto che ne Le regole dello Shangai ci sono in effetti dei similaforismi, e qui ne riporto altri, giusto per sfregio:

Una regola dello Shangai dice che il tuo errore può essere utile a un altro giocatore. Fai in modo che il tuo sbaglio produca un vantaggio.

Ti dico questo perché gli orologi sono strumenti di misurazione, ma il tempo è un’altra cosa. Va sia a rilento che a precipizio.

– Non capisco bene questo affare del gioco.
– Quello che faccio da solo. Smontare un orologio, leggere un libro, montare la tenda, cucinarmi.
Ogni cosa da solo è un gioco. Il lavoro comincia quando sto con gli altri.

E il più importante del libro, quello che mi ha davvero illuminata:

[…] Non fanno tic tac.
– Fanno zig zag?
– Fanno zig zag.

Bello, ma… abbiamo anche visto che De Luca ha immaginato una trama, e una trama assurdamente piena di azione! Infatti, la ragazzina fugge da un campo nomadi dalla Slovenia per evitare un matrimonio combinato: però non è tutto, perché dopo essersi intrufolata nella tenda del vecchio e aver ciarlato con lui, a un certo punto deve nascondersi dal padre che ha seguito le sue tracce! E se questo vi sembra sia già molto eccitante, sappiate che i nostri due linguaccioni si trovano poi a fronteggiare la Guardia di finanza (o la Forestale… boh, comunque la pula) e un paio di banditi wannabe stupratori!

Esatto: ci sono nemici, sotterfugi, fughe sul filo del rasoio, momenti stealth, scontri… ossia tutto ciò che ho affermato non dovrebbe esserci in un testo dialogico! E la prova a sostegno della mia opinione la trovate senza alcuna difficoltà proprio nel modo in cui Dirty Erri decide di tratteggiare le suddette scene d’azione. E con quale tecnica le tratteggia, secondo voi? Ma dai, è chiaro, no? Con gli spiegooooooni

– L’ho sentito arrivare. Mentre dormivo sentivo i suoi passi. È pesante mio padre.
Ti sei messo a parlare con lui e mi hai dato il tempo.
– Non sapevo se era tuo padre, però veniva per te. È stato gentile, ha chiesto se avevo visto una ragazza gitana. Non mi ha creduto quando gli ho risposto di no. Mi ha detto che era una faccenda di famiglia.
Avevo pronto il caffè, gliel’ho offerto. Ho fatto caso che aveva mani grosse.
– Batte il rame.
[…]
– Mentre si allontanava ha detto qualcosa nella sua lingua.
– Che sua figlia è morta perché non sta né in cielo né in terra.

– Puoi scendere, sono andati [gli sbirri].
– Stanno ancora intorno, non ti hanno creduto. Hanno fatto un giro e stanno tornando senza cani. Varòna [un corvo che la zingara ha addestrato anni prima e che per qualche ragione si trova lì con loro] li segue da sopra e mi avvisa. Eccoli.

– Addio tenda.
– Eh sì, l’hanno sventrata.
– Dal lato tuo, subito ti sei alzata in piedi.

Eh… lo concedo, dai: non è totalmente sbagliato zittire la voce narrante e lasciare che ogni tanto (ogni tanto!) siano gli scambi di battute fra i personaggi a farci capire che cosa è successo, è in fondo un’occasione per mettere in pratica un po’ di show don’t tell. Però… però… perché si ottenga un risultato a regola d’arte è stranecessario che il personaggio “passivo” (colui che ascolta la spiegazione, cioè) sia all’oscuro di quanto gli viene riferito. E… e niente, Erri se ne sbatte. Negli esempi che ho appena proposto, la zingara e il vecchio, alternativamente, sono sempre a conoscenza dei fatti, e ci mancherebbe altro, considerando che li hanno vissuti insieme: perché cacchio si fanno i riassuntini, allora?! Voi parlate così, lettori? Normalmente a fine giornata ricapitolate con l’amore della vostra vita la colossale pisciatona che poco prima avete fatto sotto i suoi stessi occhi?

Forse, forse, essendo voi di manica larga, mi potreste obiettare che nel primo esempio, quantomeno, la zingara ha visto che il vecchio e suo padre si sono detti qualcosa, però non era abbastanza vicina per poterli udire distintamente. Eh, ciau bale!, come dicono gli amici torinesi: non è vero, alla fine del brano, la zingara mostra di avere un ottimo orecchio, tant’è che è lei a informare l’amico su ciò che suo padre ha bofonchiato mentre si allontanava. E se lo ha sentito distintamente mentre era lontano, a maggior ragione l’avrà udito mentre era accanto alla tenda, quindi che cazzo riporta il vecchio, parola per parola?!
Uff, un altro spiegone veramente strano lo troviamo nella seconda metà del libro, e stavolta non in una linea di dialogo, bensì… addirittura in una lettera che, anni dopo l’incontro nella tenda, il vecchio spedisce alla zingara:

Opposto alla terra è il mare. […] Lo vedesti calmo, senza una sponda in vista, fino a dove l’aria si confondeva con l’acqua. Ti venne voglia di salirci sopra. […]
Dalla prima notte che dormimmo in barca non hai più dormito in terraferma.
I tuoi figli sono stati concepiti a bordo di una chiatta.

Ma… ma… no, aspettate, prima un po’ di contesto. C’è tutto un pezzo, dopo le avventure di cui vi ho parlato, in cui i nostri due protagonisti vanno da un tizio amico del vecchio che ha una barca e bla, bla, bla, praticamente c’è una separazione e la zingara prima vive su quella stessa barca e poi altrove. Nella lettera che ho citato, dunque, capiamo che “altrove” è lontano dalla terraferma. Bene, e… e come lo sa il vecchio? Soprattutto, ed è questo l’aspetto più inquietante, che cavolo ne sa lui che la zingara ha concepito su una chiatta?! O si tratta di una parallessi (ma non credo), o la zingara ha messo il vecchio a parte della notizia (ma non ci sono assolutamente indizi di ciò, nel testo), oppure ancora il vecchio era… presente… appiccicato a un oblò intento a godersi lo spettacolo… sporcaccione! Dico io, stanti questi dubbi, e l’informazione che, pur senza di essi, rimane appesa… ma non era meglio usare il narratore?!

Come di un mona nel ventre della balena

Vabbè. Il nostro machissimo autore, nell’evidente affanno di far capire quel che succede senza assolutamente usare la tecnica giusta (magari per una sorta di sfida con sé stesso), ancora nella seconda metà de Le regole dello Shangai perde la tramontana e si rifugia in uno strano conforto dato dall’utilizzo di espedienti narrativi quasi magici. Ah, e… no, non è questo che rende sconvolgente la seconda parte del libro. Ci arriverò, non temete.
Allora, De Luca vuole comunicarci che il vecchio è scomparso. Eh, essendo il suo amico fuori gioco, la zingara non può dialogare da sola: perciò la questione si risolve con le lettere, come vi ho accennato poc’anzi. Ormai adulta, la nostra protagonista scrive alla fondazione di cui il vecchio è presidente (perché, ehi, è un vecchio italiano benestante, vi pare che non abbia la sua setta personale?) per sapere che diavolo è successo. La fondazione risponde, con un stile tanto burocratico da far invidia al Maestro, che… che boh! Nessuno ha idea di cosa sia successo al vecchio, e pazienza. Non soddisfatta, la zingara replica, sostenendo… sostenendo di avere visioni in cui il vecchio le compare nelle vesti di Giona. Che?! Eh, proprio così. E siccome il vecchio è per lei un Giona, evidentemente deve trovarsi in qualche grotta sulle montagne. Perché, ehi, la famosa storia di Giona inghiottito da una grotta alpina:

Durante questi mesi di mancata corrispondenza ho avuto di lui un’immagine ricorrente come di Giona nel ventre della balena. Lo vedevo nell’oscurità di una caverna, vestito da bivacco in montagna. Mi domando se dalle vostre parti ci siano formazioni rocciose con simili cavità. Forse non è andato lontano. […]

Oltre alle proprie visioni da stereotipo, la zingara riporta nella lettere anche l’ultima missiva che il vecchio le ha scritto:

Mi sono dilungata, mi scuso. Scrivere a voi è stato un po’ come scrivere a lui. Qui di seguito ricopio la sua ultima lettera.

E tra le molte parole inutili, leggiamo improvvisamente che il nostro coprotagonista rivela di avere…

[…] un posto tra le rocce. Lo trovai molti anni fa quando frugavo gli anfratti.

Ma checcazzo! Qui le cose sono due: o De Luca è un po’ razzista e vuole svegliarci sul fatto che in realtà gli zingari sono tutti dei fottutissimi imbroglioni un po’ babbei che rivelano i loro stessi trucchetti, oppure… oppure Dirty Erri si è dimenticato di aver già infodumpato dove si trova il vecchio, e ripete la stessa informazione attribuendole un’origine diversa e incompatibile con quella precedente! Non so, però qualcosa mi dice che è la seconda. Sì, perché le ripetizioni da terza età si trovano anche altrove, come mostrano questi tre esempi, ancora tratti da una lettera del vecchio alla zingara:

Ti scrivo queste cose perché poi ti riguarderanno.

Ti racconto queste cose perché niente di quel servizio è stato un gioco, anche se le sue regole provengono da ingegnosi passatempi.

Ti racconto queste cose perché niente di quel servizio è stato un gioco, ma le sue regole provengono dall’ingegnosità di alcuni passatempi.

Un momento, di quale “servizio” parla? Ah-ah… non ancora. Ve lo tengo per il gran finale, abbiate pazienza. Ora voglio lasciare la seconda parte de Le regole dello Shangai, le sue lettere, e mi va di ritornare a discutere dei dialoghi.

Perché io sarei Mr. Vecchio?

Be’, che posso dire per farla breve? Di là dal loro ruolo di spiegoni noiosi, innaturali e incoerenti, i dialoghi di Erri non funzionano proprio di per sé. Nella loro forma. Come ho già avuto modo di notare, essi sono monocordi, mosci, mai, mai, mai godibili:

– Parli bene italiano.
– Parlo cinque lingue. Non so leggere.
– Non vi insegnano?
– Basta uno a leggere e avvisa gli altri.
– E un libro non l’avete?
– Da noi le storie si raccontano la sera e cambiano un poco ogni volta.
La voce fa succedere le storie. Poi ci sono le mani che le fanno vedere, le mosse, le paure, le risate.

[…] Sei vecchio ma non sai molte cose. Che sai fare?
– Il mio mestiere è l’orologiaio.
– Bello. Mi piace l’orologio. Mio padre ne ha uno d’oro, di suo padre.
Si guadagna con gli orologi?
– A me è andata bene.
– Chi ti ha insegnato?
– Sono stato apprendista alla tua età.
Alla morte di mio padre ho cominciato a lavorare dopo la scuola. Mia madre conosceva un orologiaio che mi ha preso in negozio.
Sono stato subito capace con le dita.
Ho cominciato a riparare sveglie, i meccanismi più grossi, poi sono passato agli orologi. […]
– E con la paga di apprendista vivevi?
– Mia madre dava lezioni di russo. Era russa. […]

Eh, fate attenzione ai suddetti esempi. Non vi ci vuole molto, lo so, per capire che i dialoghi non sono veramente tali. In effetti, ogni volta c’è un solo personaggio che monopolizza la scena, mentre l’altro se ne sta cheto cheto e ascolta. La struttura ricorrente ne Le regole dello Shangai è appunto questa: uno dei due protagonisti chiede all’altro di raccontare qualcosa, si zittisce, e poi al massimo fa un paio di domande per consentire a Erri di scrivere ulteriori linee di parlato. Il vecchio e la zingara non sono mai alla pari, alternativamente uno dei due cede il passo all’altro. E questo è… è molto male. Comporre un buon dialogo, vi rivelo il segreto, è tutta una questione di beat.
I beat, in narratologia, sono le unità che compongono le sequenze narrative: e queste unità si concatenano seguendo la regola dell’azione/reazione. Ad esempio, un tipo che tampona la macchina di uno sconosciuto è un beat, lo sconosciuto che scende arrabbiato dal veicolo è un beat, il tipo che si difende prendendo da sotto il sedile un piede di porco è un altro beat, e così via. Ogni beat provoca una reazione, e a sua volta è la reazione di un beat.
Non lo nego, se è abbastanza intuitivo che una scena dinamica, ma prettamente descrittiva, debba basarsi su atti legati fra loro da una relazione di causa ed effetto, è meno ovvio che la stessa relazione debba regolare i dialoghi. Eppure è proprio l’alternanza causa/effetto a risultare avvincente, anche perché nessuno ha naturalmente un’inclinazione a rompersi le palle con dialogoni spiegoni. Già nella vita reale ci sono sciroccati che ci fermano per strada per raccontarci i loro cazzi, di cui non ce ne frega niente: non abbiamo voglia di trovare personaggi che monopolizzano la scena anche nei libri che leggiamo, tra l’altro proprio con lo scopo di evadere dalla monotonia della quotidianità.
Ma, ehi, sto facendo talmente tanta teoria che pure questa parte di recensione rischia di rivelarsi un tritatesticoli. Per illustrare quel che vi sto dicendo, concedetemi allora di proporvi un’esempio classico, tratto da Le iene, di Tarantino:

Joe Cabot: Ecco i vostri nomi. Mr. Brown, Mr. White, Mr. Blond, Mr. Blue, Mr. Orange e Mr. Pink.
Mr. Pink: Perché io sarei Mr. Pink?
J: Perché tu sei un frocio, va bene?
P: Perché non ci scegliamo noi il colore?
J: Non se ne parla neanche. Ci ho provato una volta, e non funziona. Quattro ragazzi. Tutti a litigare per chi si doveva chiamare Mr Black. Tutti volevano averla vinta e nessuno si tirava indietro. Niente, io decido. Tu sei Mr. Pink! E non se ne parli più.
Mr. Brown: Già, ma anche Mr. Brown, ricorda un po’ il colore della merda…
P: E Mr. Pink sembra un nome da fighetta. Che ne diresti di Mr.… Purple? Mi sembra che va bene, sì, sarò Mr. Purple.
J: Tu non sei Mr. Purple. Qualcun altro, su un altro lavoro è Mr. Purple. Tu sei Mr. Pink!
Mr. White: Che ce ne frega del nome?
P: Già, per te è facile, tu sei Mr. White, hai un nome da tipo forte! Se per te è uguale chiamarsi Mr. Pink, facciamo cambio.
J: Ehi! Qui nessuno cambia niente con nessun altro. Questo non è un qualsiasi consiglio comunale del cazzo. Sta’ a sentire, Mr. Pink. Tu puoi scegliere, hai due possibilità. O fai quello che dico io o alzi i tacchi. Allora, cosa scegli, Mr. Pink?
P: Joe, Cristo di un Dio, lasciamo perdere, cazzo. Va benissimo, sarò Mr. Pink, andiamo avanti.
J: Andiamo avanti lo dico io. Allora, avete capito tutti quello che vi ho detto? Mi fate così incazzare che non riesco più a parlare. Mettiamoci al lavoro.

Oh mio… oh mio… eh, eh, non a caso Tarantino è considerato un maestro dei dialoghi: quella che ho riportato è un’autentica lotta fra i personaggi! Ciascuno di loro manifesta la propria posizione, la difende e al contempo cerca di prevaricare gli altri. Nessuno cede il passo, nessuno permette a un altro di recitare in pace un enorme spiegone. Il dialogo è poi reso dinamico dalla costante variazione di intonazione data dai numerosi esclamativi e interrogativi. E badate, gli interrogativi de Le iene sono ben diversi da quelli de Le regole dello Shangai. Come ho detto, i personaggi di De Luca, quando interrogano, lo fanno solo per dar modo alla controparte di espandere il suo racconto; invece, i personaggi di Tarantino domandano per prendere in giro, per persuadere, perfino per minacciare ( “[p]erché tu sei un frocio, va bene?”, “[p]erché non ci scegliamo noi il colore?”, “[a]llora, cosa scegli, Mr Pink?”). Senza contare poi che nel libro di De Luca gli esclamativi sono pressoché assenti, il vecchio e la zingara parlano con la piattezza degli automi. Ci sono solo dei cazzo di punti fermi!

Gnomo armato di (dialoghi ben fatti)

Occhei, obiezione: scrivere un dialogo alla Tarantino è possibile se si sta girando un film d’azione, ma un dialogo più riflessivo e ricco di contenuti si deve svolgere in maniera diversa. Insomma, proprio alla maniera di De Luca. Eh? È questo che pensate, vero? Cazzata.
È una cazzata perché in effetti anche la trama di De Luca è… oh… no… no, ancora no! Ehm, lasciate perdere la mia boccaccia, diciamo che è una cazzata perché la forma ideale del dialogo non muta, a prescindere dal contenuto. Altro esempio illustre, che vale più di mille parole: Dialoghi di Leopardi, in particolare il Dialogo di un folletto e di uno gnomo

Folletto: Voi gli aspettate invan: son tutti morti, diceva la chiusa di una tragedia dove morivano tutti i personaggi.
Gnomo: Che vuoi tu inferire?
F: Voglio inferire che gli uomini sono tutti morti, e la razza è perduta.
G: Oh cotesto è caso da gazzette. Ma pure fin qui non s’è veduto che ne ragionino.
F: Sciocco, non pensi che, morti gli uomini, non si stampano più gazzette?
G: Tu dici il vero. Or come faremo a sapere le nuove del mondo?
F: Che nuove? che il sole si è levato o coricato, che fa caldo o freddo, che qua o là è piovuto o nevicato o ha tirato vento? […]
G: Né anche si potrà sapere a quanti siamo del mese, perché non si stamperanno più lunari.
F: Non sarà gran male, che la luna per questo non fallirà la strada.
G: E i giorni della settimana non avranno più nome.
F: Che, hai paura che se tu non li chiami per nome, che non vengano?

I Dialoghi sono un’opera di… sono un’opera filosofica, punto e basta. Eppure, al pari di Joe Cabot e di Mr Pink, il folletto e lo gnomo prendono posizione e difendono con forza le proprie idee: anche il loro dialogo è dinamico, per via delle variazioni di intonazione e dell’inserimento di interiezioni, e di nuovo troviamo le domande usate per eccitare lo scontro (“[c]he nuove?”, “[c]he, hai paura […] che non vengano?”).
Nei dialoghi più solenni poi, come il celeberrimo Dialogo della natura e di un islandese, la gravità del tema non coincide mai con una stremante piattezza prosodica. Il dialogo non è informale al livello da “bar”, diversamente da quello tra il folletto e lo gnomo, tuttavia mantiene un sottofondo di aggressività, il quale si manifesta nella forma invettiva su tonalità oratorie, con tanto di domande retoriche che hanno, una volta di più, lo scopo di stuzzicare e irritare l’interlocutore, anziché di ottenere un’effettiva spiegazione:

Islandese: […] Ora domando: t’ho io forse pregato di pormi in questo universo? o mi vi sono intromesso violentemente, e contro tua voglia? Ma se di tua volontà, e senza mia saputa, e in maniera che io non poteva sconsentirlo né ripugnarlo, tu stessa, colle tue mani, mi vi hai collocato; non è egli dunque ufficio tuo, se non tenermi lieto e contento in questo tuo regno, almeno vietare che io non vi sia tribolato e straziato, e che l’abitarvi non mi noccia?

Insomma, se continuate (giustamente) a pensare che i dialoghi di Dirty Erry facciano cadere le palle, è perché Dirty Erri ha il dono di far cadere le palle. Il supposto contenuto filosofico, spirituale, metaforico non ha colpe.

Puoi prestarmi un’attenzione?

E poi be’, le palle cascano perché in generale Le regole dello Shangai è anche scritto demmerda. Passino gli scivoloni tecnici e strutturali, però i nostri due personaggi parlano veramente male, e non male nel senso che parlano come me, usando tutte le parolacce disponibili: no, parlano male come Luca Giurato, o come un qualunque nostro politico.
Ad esempio, il nostro vecchio:

Mi sembrò enorme che mi rivolgesse un’attenzione.

Smontare un orologio, leggere un libro, montare la tenda, cucinarmi.

Ah, ah, ah! Quest’ultima frase, che abbiamo incontrato precedentemente, mi fa morire: che è, il vecchio ha un pentolone, lo mette sul fuoco con sedano, carote e cipolla, e poi ci si tuffa dentro bagnandosi con un mestolo? Capisco, capisco, è una di quelle terronate che fanno tanto “spirito vero, verace, verista”, un po’ come “esco a pisciare il cane”. E, giustamente, siccome siamo in alta montagna, in compagnia di un borghese napoletano benestante che parla solo in italiano, e mai, per dire, in un napoletano stretto dal quale talvolta tenta di staccarsi per dare alle sue parole un tono più “studiato”, be’… simili caramelline casuali di tamarraggine ci stanno proprio, sono un bell’esempio delle capacità poetiche del nostro Erri. Ehi, comunque tranquilli, eh:

Mi esprimo impreciso […].

Almeno il vecchio ne ha consapevolezza.
La sua amichetta, invece, abbiamo notato, “[p]arl[a] bene italiano”. Sì, se non fosse poi tratteggiata come una specie di donna scimmia che ha trovato la tenda fiutando “l’odore della gente” e che sa muovere le orecchie! Cioè, guardate:

– E non senti quei due? Ma le sai muovere le orecchie?
– No.
– Non sai fare così?
– No. Come fai?
– Le muovo verso di loro e sento quello che dicono.

Ma dai, Erri, che cazzo, questa è roba da etnografia tedesca degli anni Trenta! Capisco che il personaggio della zingara l’hai scelto per dare quel tocco di mistero e di esotismo che tanto ci sta bene in un testo allusivo, spirituale e filosofico, ma… a parte che di filosofico non ci ho trovato un tubo fin qui… e su, non esageriamo con la roba superumana, eh! Il rischio di costruire invece un untermensch è dietro l’angolo. A maggior ragione se poi la zingarella sembra non possedere delle nozioni elementari, come… uh… l’esistenza del mare?! No, no, non sto scherzando, e addirittura il vecchio le fa delle lezioncine imbarazzanti, di quelle che si potrebbero proporre a un neonato o a uno dei Carofiglio:

– Com’è questo mare dove stiamo andando?
– È una distesa d’acqua che non si può bere, troppo salata.
Cambia colore secondo il cielo che ha di sopra.
A volte sono grigi tutti e due e non si vede dove uno finisce e l’altro inizia.
È rosa quando il sole spunta o quando va giù.
– Come laghi e fiumi.
– Però senza confini, il mare gira tutta la terra.

– Fermiamoci un momento. Vedi quella striscia sottile in fondo, sotto il cielo? È il Mare Adriatico, il punto più a nord del Mare Mediterraneo.
– Un mare dentro un altro mare?
– Cambiano i nomi, il mare è lo stesso. Mediterraneo è il nome di tutta l’acqua tra Europa, Africa e Asia.

Wooooow, incredibile! Spero solo che al più presto le spieghi che cos’è il sole, e che non deve toccarlo mai!
Su, lettori, sarete d’accordo con me, spero: che cavolo è questa roba? Non è credibile che una zingara slovena (quindi manco dei Carpazi, o che so io: di un Paese abbastanza vicino proprio all’Adriatico) che vive nel “1900” non abbia la minima idea di che cos’è il mare! Ne avrà sentito parlare, se non dalla sua gente, dai gonzi che ha tru… che ha allietato con i suoi giochetti da strada, no? D’accordo, può darsi che le scene in questione siano da intendersi in senso metaforico: del resto, l’ulteriore livello di lettura è stato un tema centrale in questa recensione. Eh, d’accordo, ammettiamolo pure: qual è però questo significato metaforico? Cioè, lei non sa cos’è il mare e quindi… ?
Tirate pure fuori le vostre ipotesi migliori lettori, tanto non riuscirete a imbastire un’interpretazione convincente. La gioventù che impara dalla vecchiaia, lo sconosciuto mare della conoscenza, l’interiorità che si staglia inesplorata e tumultuosa: ma dai!

Ti schizzo negli occhi!

Questa faccenda del mare è solo uno dei tanti momenti “WTF”. Badate bene: “uno dei tanti”. Sì, perché ce ne sono altri, ad esempio questo:

[…] gli occhi guardavano attraverso le persone, sfocati, come fissati sul muro di dietro.

Uh… uno sguardo a raggi x, pare. Sì, pare soltanto: che gli occhi siano “sfocati” cazzo vuol dire, che non ci vedono bene, che hanno la cataratta? E “fissati sul muro di dietro”? Che… cacchio… significa? Magari che gli occhi guardano le persone come se fossero sul… muro… ma perché proprio un muro?… che si trova alle loro spalle… e… no, non ci riesco… boh!
Altro momento WTF è il seguente, uno spezzone di dialogo che sembra trasportarci in una specie di episodio dei Puffi:

– Sicura che questi funghi si possono mangiare?
[…]
Chiedo dei funghi per sapere se te ne intendi. Succedono sbagli e i giornali riportano i casi.
– Li conosco, so quelli che fanno ridere, quelli che fanno ballare e quelli che fanno dire i segreti.
Questi servono solo a mangiare.
– Quali sono i funghi dei segreti?
– Sono segreti, non te li posso dire.
– Ma esistono davvero?
– Altroché se esistono.
– Va bene, mangiamo i funghi.

Eh, eh, eh, LOL. Ancora una volta non capisco se c’è un sottotesto esoterico. Cioè, i funghetti che “fanno dire i segreti” cosa rappresentano, il ritorno alla natura che ci permette di raggiungere le verità esistenziali impossibili da afferrare con la semplice logica, con la scienza moderna? Ah, al diavolo, perché perdo tempo? Meglio farvi conoscere il momento WTF definitivo, quello che mi ha fatta morire dal ridere:

– Non potevo aspettare. Stavano per darti addosso. Avevo il coltello pronto ma tu hai tirato fuori quel coso, gliel’hai spruzzato in faccia a uno dei due. Se ne sono andati.
Fa male quello schizzo?
– Brucia gli occhi, acceca per un poco.

Lettori, questo non è tanto un WTF per il contenuto, che è abbastanza chiaro (i due banditi stupratori hanno tentato un attacco e sono stati respinti con uno spray al peperoncino), bensì lo è per la forma. Io sono strasicura che Erri non se n’è accorto, però, davvero… “Dirty Erri” è un nomignolo azzeccatissimo. Dite, e sinceri!, dite se “quel coso” che il vecchio ha “tirato fuori” non l’avete interpretato in quel modo, proprio in quello preciso preciso! E poi… non ce la faccio… “quello schizzo”?! Ma LOL e straLOL! “Brucia gli occhi”, per giunta! Cazzarola, è… è allucinante (no pun intended)! Che è, Erri si è lasciato ispirare da Marco Nero in Mucchio selvaggio e dall’iconica scena “ti shborroh negli occhi”? Sono senza parole, lo giuro, e non solo per le risate che quelle due lineette di dialogo mi hanno fatto fare.

Mata Erri

O meglio, ero senza parole. Ero senza parole finché non sono arrivata all’ultimissima parte de Le regole dello Shangai. A quel punto sono rimasta senza l’assenza di parole.
Lettori, è arrivato il momento di svelarvi il grande segreto che aleggia su questa recensione fin dalle prime battute. Preparatevi, perché è qualcosa di sconvolgente. È anche uno spoiler, quindi, ehm… decidete voi se continuare.

Ebbene, voi dovete sapere che: è tutta una cazzata. Sì, insomma, il fine spirituale, il sottotesto metafisico, gli aforismi da guru, la ricerca interiore: tutte puttanate, sul serio. E non nel senso che credete voi: nel senso che Le regole dello Shangai è una spy story. Sì, una spy story alla James Bond.
Vi do un momento per riprendervi.

Allora, noi effettivamente leggiamo tutto quello che abbiamo discusso fino a questo punto. Ma arrivati alle ultime pagine del libro, incontriamo un quaderno cui il vecchio, ormai arrivato al capolinea nella sua grotta, ha affidato il compito di custodire e di tramandare segreti altrimenti inconfessabili. E appunto scopriamo che lui è sempre stato una spia sovietica, prima col compito di contrastare gli americani, poi con il compito di reclutare altre possibili spie per il KGB. Indovinate un po’? All’inizio della nostra storia non era in montagna a trastullarsi il “coso”, era in missione per intercettare clandestini e proporre loro di lavorare per i sovietici:

Mi trovasti di notte in zona di confine. Da quanto scritto finora hai capito che non ero lì a campeggiare. Ricevevo visite, messaggi. Ero in servizio.

Ecco il “servizio” che abbiamo incontrato in precedenza! Ovviamente, poi, la zingarella si dimostra una candidata ideale, e quindi il quaderno si spertica in lodi su di lei, sulle sue abilità fisiche (ah, le orecchie mobili e il fiuto canino hanno dunque un… cioè, no, sono ancora stronzate, ma almeno capiamo meglio perché Erri le ha inserite nel libro) e sulla sua arguzia (nonostante mostri di non sapere cosa sia il mare). Com’è, come non è, forse perché il “coso” smaniava per essere tirato fuori, il vecchio disobbedisce agli ordini e non arruola quel promettente bocconcino. Brutto affare:

Ho fatto per te una cosa che comportava la mia cancellazione. Ho rifiutato di arruolarti.

Ma… alla fine nessuno lo “cancella”. E appunto il vecchio muore da eremita nella sua grotta.
Fine.
O…

Oppure no! C’è ancora una lettera, che la zingara scrive al cadavere del vecchio! E in questa estrema missiva lei stessa rivela che… alla fine si è presentata spontaneamente al KGB per lavorare come spia! E inoltre, tra un ricordo e l’altro delle sue gesta per far trionfare il bolscevismo, spiega di essere stata proprio lei a intercedere segretamente affinché il nostro eroe senile non fosse “cancellato”. Nella chiusa della lettera, poi, la nostra insospettabile Mata Hari si lascia andare a un’incredibile (letteralmente) apoteosi del suo (non) reclutatore:

Ti assegniamo il ruolo di guida, esempio di dedizione. A tuo nome è intitolata la scuola di spionaggio.

Uff, lettori, lettori. Devo assolutamente dire due parole su questo plot twist assoluto. Non è facile, però.
Allora, allora… eh… ehm… eh… che cazzo ti è saltato in mente Erri?! Questa è la cosa più stupida che abbia mai letto, e di cose stupide ne ho lette talmente tante che a volte temo di essere diventata stupida quanto il più intelligente degli americani! Come cavolo se ne può uscire il libro di punto in bianco con un “ehi, erano tutte spie”?!
Lo ammetto, io non so un granché a riguardo, e può darsi che De Luca abbia delle fonti dirette, ma… per quel che ho potuto capire informandomi qua e là non è che le spie vengano reclutate come ci fa intendere Le regole dello Shangai! Cioè, lettori, pensateci: perché mai un agente dovrebbe starsene in una tenda aspettando che arrivino clandestini casuali cui offrire un lavoro? Primo: accampandosi per lunghi periodi in una zona di confine già di norma sorvegliata egli stesso attirerebbe l’attenzione (e infatti la pula lo ferma e lo tiene d’occhio, cacchio!); secondo: ma se gli arrivano “candidati” a caso, come cavolo fa a sapere che non gli capita un agente nemico, pronto a ucciderlo dopo essersi finto interessato alla proposta? È un piano inutilmente complicato, e inoltre non dà nessun vantaggio: se ai russi serve una spia gnocca, agile e sveglia… eh… che, hanno forse bisogno di trovarla lungo il confine italiano, sperando che una botta de culo ne faccia comparire una così in mezzo agli altri clandestini che valicano il confine?! I russi, dico, proprio loro?!
Eddai, ribadisco, io non so e magari De Luca sa, però… non è credibile. I collaboratori, quando reclutati all’estero, di solito sono soggetti già inseriti nella società nemica, sono d’interesse perché hanno per le mani delle informazioni utili, o ricoprono cariche “sensibili”: dirigenti d’azienda, scienziati, politici, questi di solito sono i “contattati”. Addirittura i semplici studenti universitari, come ci ricordano alcuni fumosi fatti di cronaca. È ragionevole: le università formano i cervelli del nemico, i futuri ingegneri, i futuri ricercatori, i futuri politici. Da che mondo e mondo, le università, come i complessi industriali e i centri di comando, sono obiettivi militari: obiettivi, anche, di operazioni segrete.

Ma una zingarella sfuggita a un matrimonio combinato che mai ha da offrire al KGB? Le dita svelte? L’amicizia con l’orso e col corvo? Ah, be’, secondo il vecchio…

La rottura con le tue origini, la conoscenza delle lingue, le tue percezioni superiori alla norma: avevi doti ideali.

Certo, e il fatto che non sappia leggere è secondario, che vuoi che sia. Ma dai, porca puttana, nessun’altra sbandata dei sobborghi di Mosca, di Leningrado, di Alma-Ata o che cacchio ne so, di Kiev, può corrispondere alla suddetta descrizione? Tanto più che, quando finalmente la nostra amica diventa una spia, i suoi compiti sono… uh… un po’ di basso livello, praticamente sembra dover soltanto buttare un occhio su quel che fanno gli americani all’ambasciata moscovita; e, tra l’altro, questi la sgamano pure:

Tramite un informatore, gli Americani avevano scoperto che il nostro servizio mandava forti campi elettrici di disturbo contro la loro ambasciata. Allora rivestirono le pareti di carta metallizzata e alle finestre applicarono un reticolato di filo metallizzato.

Del resto, è un po’ quello che faceva il vecchio (e sua madre prima di lui… sì, pure lei una spia sovietica), principalmente guardava i cantier… ehm, no, guardava le navi americane di stanza a Napoli. Dico io, i russoski hanno satelliti, aerei, sottomarini, navi che incrociano nel Mediterraneo… cioè, hanno proprio bisogno di un tizio appoggiato al parapetto del porto, con lo sguardo fisso e che scuote la testa perché “lui quelle navi lì le avrebbe fatte meglio”? Ancora una volta ripeto: magari Erri sa, e io sono solo una cagona supponente. Però che cacchio, anche se Erri sa e quella è la realtà, non me la voglio trovare in un libro che… che non è proprio “d’inchiesta”, ecco… perché è una realtà moscia e cretina!

Se davvero la realtà è quella, be’, allora datemi qualcosa di realistico e niente più: voglio una spia che si ingegna per impossessarsi di segreti nucleari, di progetti industriali o di piani militari! Anzi, al diavolo il realismo, voglio qualcosa di completamente inventato: una boiata alla James Bond, ma piena di azione e di roba incredibile!
Invece no, mi becco questa spy story che fa avanti e indietro nella mia mente con le ciabatte, la flebo e un girello! Che poi, sappiate, questa spy story è assolutamente pervasiva: Le regole dello Shangai è del tutto intriso di spionaggio. Ve la ricordate la rossina stronzina che prende a pesci in faccia il vecchio? Anche lei è una spia! Però americana, e il secondo incontro con il nostro eroe non è affatto casuale, è una specie di reciproco gioco del gatto col topo. La fondazione del vecchio? Una copertura:

[…] è parte del servizio. Si aiutano persone che possono essere coinvolte. Si trovano per loro dei lavori modesti ma in settori strategici. Un inserviente vale più di un ingegnere.

Ah, sicuro, il cameriere è oro, mica come l’ingegnere che si trova a contatto diretto con i capoccioni industriali e che ha per le mani magari le planimetrie di sofisticate innovazioni tecnologiche!
Che dire poi dei banditi stupratori? Quasi rasentiamo l’assurdo: sono colleghi del vecchio, e hanno l’incarico di “mettere alla prova” la zingarella! Sono seria:

Quei due che vennero di notte nella tenda: facevano parte di una prova di verifica della tua reazione. Il colpo che sparai sul piede era a salve. Reagisti in maniera perfetta.

LOL, meno male che poi i russi hanno pensato bene di abbandonare le finte aggressioni random per istituire una “scuola di spionaggio”, che solo dal nome pare ’na strunzata à la Scuola di polizia.

Cancellino

Ma di che mi lamento? Se è ’na strunzata fa pendant con le altre. Tipo… eeeeh… i funghetti dei Puffi, che ritornano come mcguffin ambito dai comunisti:

Ricordi i funghi che fanno dire i segreti? Passai l’informazione e hanno ottenuto da una della tua gente il nome della specie, il luogo di raccolta e la preparazione.

Ah, certo, i rossi hanno droghe sintetiche, rubli a palate (be’, insomma…) e donnine tanto, ma tanto amichevoli… diavolo, quei funghi sono fondamentali, sono interessantissimi, altrimenti senza di essi c’è da disperare che qualcuno dica a quelle brutte facce mongoliche e colbaccate i segreti che bramano conoscere! Tra l’altro, quella “gente” pare non avere idea di che cosa sia il mare, però conosce “il nome della specie” dei funghi! Porcaccia l’oca, gli zingari hanno messo le mani su un trattato sistematico di micologia, ma non sono proprio riusciti a procurarsi un atlante, mannaggia…

E ugualmente stupidi sono i momenti adrenalinici d’azione pura. Perché sì, ci sono dei momenti del genere, e mi fa piacere, considerando che la loro presenza in definitiva conferma il mio sermone a proposito dell’infelice scelta di costruire il libro su dialoghi e missive! Insomma, fate voi…

Per una regola che non sto a spiegarti serviva il mio consenso al tuo arruolamento.
Mi opposi e dissi che mi sarei congedato. Sapevo che una spia non può. Equivaleva a farmi cancellare. Nessuno esce dal servizio.

Ci fu l’incontro. Venne alla tenda il funzionario, vestiva da cacciatore, aveva il fucile. Ci sedemmo uno di fronte all’altro. Era sulla quarantina, un cancellatore.

Poco dopo dimisero tuo suocero, la sua morte in mare fu una cancellazione. Era troppo coinvolto.

Oh, ma che è? Detective Conan? Stanno pensando di trarre una serie animata da mandare in fascia protetta su Italia Uno e quindi bisogna usare eufemismi per “uccidere”? Lettori, ma… ma dai! Un “cancellatore”, che “cancella” durante una “cancellazione”, sul serio? Me sa de sì… e dunque io non riesco proprio a evitare l’associazione con i “dissennatori” di Harry Potter (anzi, “Erri Potter”… oh, che vergogna, faccio battute al livello di Ezio Greggio), non ci riesco! E questo, ovviamente, unito al tono implacabilmente monocorde con cui Le regole dello Shangai ci racconta di un omicidio sventato e di uno avvenuto, mi lascia sconvolta. Talmente sconvolta che ritengo sia meglio passare alle conclusioni finali. Anche perché, come sentenzia il vecchio nel suo quaderno-confessione:

Di tutta questa storia non troverai un solo appiglio per dimostrare che è vera.

Ooooocchei.

Ebbene, lettori, a essere onesta non avrei davvero finito. Il libro ha ancora parecchie chicche, dagli ulteriori involontari doppi sensi (“voleva il bastoncino nero”, “[i]l corpo s’indurisce”) all’accumulo compulsivo di metafore (il gioco dello shangai che è come la vita, ma che è anche come il lavoro di spia, che a sua volta assomiglia a una partita a bridge…), però non è il caso di continuare. Anche perché così vi toglierei il piacere della scoperta. Come, “il piacere della scoperta”? Ma Le regole dello Shangai non fa schifo?
Be’, è un libro sbagliato… brutto… stupido… sì, direi che è tutto questo. Ma non fa schifo. Non fa schifo perché riesce a intrattenere. Non con il ritmo serrato, non con lo stile eccellente, non con i personaggi memorabili, non con il sottile incastro degli eventi: proprio con l’assenza di tutto ciò. Molti libracci hanno una sola grande pecca, e si accontentano di quella. Ci propongono una trama moscia, oppure uno stile fognario; una morale meschina o un’infinita sequela di stupidaggini, contraddizioni e falsità. Mi fanno un po’ arrabbiare libri del genere, anche perché sono spesso supponenti oltre ogni limite.
Erri De Luca invece no. Fa tanto il duro in questo suo lavoretto, è vero: e forse perché è un duro (e a detta di molti è anche un uomo estremamente gentile, perciò spero che mi perdoni le tantissime prese in giro, esagerate ma in fondo amichevoli, di questa recensione). Tuttavia, duro o no, le Regole dello Shangai non ha grandi pretese, è una storia che se ne sta appoggiata allo scaffale, si fuma la sua sigaretta, e se ti avvicini ti fa: “Vuoi? Nove davanti, tredici dietro”. Ehm, no, non proprio: “Nove ebook, tredici cartaceo”, eh, eh. E… be’, direi che trovare tutti, ma proprio tutti i difetti che una trama come la sua non dovrebbe avere… e anche qualcosa in più… non fa pensare a uno scambio iniquo, dopotutto.

Mi sono divertita, sul serio. E ho provato tante emozioni. Probabilmente nessuna di quelle previste dal nostro Erri, però ho provato delle emozioni e anche belle intense (soprattutto lo shock della rivelazione finale è stato intenso). Sì, sincera: mi sento di invitarvi alla lettura di questo coso. È paradossale, ma non solo vi potreste scompisciare, come accaduto a me, potreste anche scoprire di avere per le mani del buon materiale su cui riflettere. Non so, nel caso in cui anche voi voleste dedicarvi alla scrittura, magari proprio di una spy story. Se dunque, come sono certa fate sempre, mi date fiducia e pensate di abbordare Le regole dello Shangai, io… io vi do il mio solito augurio di una buona lettura!

Sara

Ciao! Sono la fondatrice del blog letterario "Il pesciolino d'argento", amo profondamente i libri, l'arte e la cultura in generale.

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