La portalettere – Francesca Giannone

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IL GIUDIZIO:

la portalettere romanzo di francesca giannone edito da nord

«Ma così, tutto d’un tratto?»

Te dago na Allavena

Cazzo lettori, il volontariato è fantastico. Dovreste provare anche voi, sapete? Io per dire vado ogni fine settimana in questo centro di veterani di Call of Duty, mutilati di guerra o roba del genere. Ci sono i ciechi, quelli senza mani che soffrono più di tutti, ma soprattutto ci sono i ciechi.
Però i miei preferiti sono quelli senza gambe sulla carrozzina. L’ultima volta gli stavo leggendo una storia e uno di loro si è alzato in piedi, mi ha preso il libro, l’ha buttato a terra, e mi ha detto: «Ma ti se sbregà? Se torni di nuovo qui con questa roba te dago na smemena, premo ∆+O, e ti sbatto a giocare a Mario Kart».
Bene, il mio lavoro era finito. Grazie La portalettere: tutto questo non sarebbe stato possibile se non ti fossi rivelata una tale schifezza.
Oh, no, no, lettori, tranquilli, non avete bisogno di farvi un’estenuante maratona di Call of Duty, vi parlo subito del capolavoro di Francesca Giannone! Sapete, conta comunque come lavoro socialmente utile…
Ebbene, protagonista della storia è Anna Allavena, un personaggio (vagamente) ispirato alla figura della bisnonna dell’autrice, che a quanto pare fu la prima postina del Salento. Fico.

La storia comincia nel giugno del 1934, quando Anna, suo marito Carlo e il loro figlioletto Roberto arrivano con una corriera a Lizzanello, in provincia di Lecce. Carlo è nato lì ed è contento di essere tornato nel suo paese d’origine; invece Anna, ligure, non riesce ad apprezzare il Meridione. Troppo arretrato e maschilista. E poi è pieno di terroni. Va be’, siccome Anna ama essere indipendente, e siccome non vuole accontentarsi della vita da casalinga… inizia a lavorare come portalettere, negli anni Trenta un mestiere per uomini. Mentre consegna di qua e di là, la sua audacia, la sua intelligenza e il suo bel cul… ehm, e la sua bellezza… affascinano Antonio, fratello di Carlo, sposato con Agata e padre della piccola Lorenza. Fatevi uno schemino, magari. E d’accordo, Antonio sa di non avere speranze con Anna e sa anche che il suo amore deve rimanere segreto, tuttavia un giorno non resiste alla passione, e… e basta, bla, bla, bla, solita roba.

Portaletterina?

Occhei lettori, famola breve: La portalettere è brutto e irritante. Perché? Ma perché la protagonista mi sta sul culo, ovvio. Non posso dire che Anna sia un personaggio “malriuscito” o “antipatico”: non posso, altrimenti finireste per immaginarvi una protagonista semplicemente non amabile. Anna è oltre tutto questo. È una specie di enorme peretta parlante, tanto che secondo me la copertina del romanzo dovrebbe riportare un’avvertenza che invita a munirsi di vaselina, durante la lettura.

Ah, certo, volete capire meglio che cosa rende la nostra protagonista piacevole quanto una visita proctologica (con il proctologo che ha le mani di re Carlo).
Ebbene, non è tanto una cosa che Anna ha, è più una cosa che non ha: il difetto. Anna non ha un cazzo di difetto. È intelligente, è tenace, sa cucinare un fantastico pesto alla genovese. Ma soprattutto, la Giannone ci tiene tantissimo a farci sapere che Anna è… bah, ma che ci metto a fare la suspense? Che è bellissima, no?! Guardate…

Se era bella? Antonio di femmine così non ne aveva viste mai. Era stato come uno schiaffo, che l’aveva lasciato stordito. Quegli occhi verdi… non riusciva a non pensarci […].

Era bella come un’attrice.

Era così meravigliosamente bella, pensò.

«Lo sai che vista da qui sei ancora più bella?»

«Comme tu es belle maman!»

E daje, siamo alle solite: Gianna di Chi dà luce rischia il buio era bellissima, Clizia de L’oceano in una goccia era bellissima, Anna de L’ultimo di sette era bellissima… cazzo, addirittura Buonvino di Veltroni è bellissimo. Ma perché in tutti questi romanzi scritti da donne per donne si sottolinea sempre la bellezza superlativa del personaggio principale? Dico, nessuno si rende conto che è proprio un modo di caratterizzare positivamente un personaggio da sempliciotti… da… da mocciosi? Eh già, sono appunto i bambini che ragionano in termini dicotomici e semplicistici: quello che è bello è anche buono (e infatti i genitori sanno bene che bisogna togliere dalla portata dei bimbi tutti i detersivi che hanno bei colori vivaci, non è vero?), quindi ciò che è brutto è anche cattivo.

Ma porca merda, fra questi autori di classifica e gli anni del nido ci sono più anni di differenza di quelli fra Greggio e le sue fidanzatine, che ce ne facciamo di una caratterizzazione tanto infantile? Infantile, e stupida. Avanti, quante persone “bellissime” vedete in giro? Molte persone sono curate e piacevoli da guardare, tuttavia possiedono qualche difetto che le allontana dalla perfezione: un volto asimmetrico magari, o un naso importante, o forse il mento sfuggente… La verità è che le bellezze formidabili e abbaglianti sono rare, e spesso conducono una vita fuori dal comune.

Non è dunque plausibile che Buonvino, che assomiglia a Hugh Grant, sia il detective goffo e sfigatello di cui parla Veltroni in Assassinio a Villa Borghese, o che la bellissima Clizia sia una hikikomori. Allo stesso modo, è improbabile che Anna, “bella come un’attrice”, non faccia affatto l’attrice, bensì la portalettere di un piccolo paese salentino. A meno che… ehi, qualcuno si è assicurato che la Giannone conoscesse la differenza fra portalettere e letterina? No? Oi cazz…

Ma vabbè, queste in fondo sono quisquilie. Dopotutto la caratterizzazione di un personaggio è solo uno degli elementi che consideriamo per capire se essere benevoli nei suoi confronti o meno.
L’altro elemento, forse il più decisivo, è il contesto in cui il personaggio si muove.
Prendete in considerazione la serie The Mentalist. Nella prima puntata ci è presentato l’eclettico protagonista, Patrick Jane. Patrick è senza dubbio affascinante e di classe, ma soprattutto è incredibilmente intelligente e intuitivo. A causa delle sue qualità, scopriamo che Patrick ha peccato di superbia e che ha compiuto un passo falso, tracciando il profilo psicologico di un celebre serial killer in diretta televisiva. John il Rosso non ha apprezzato che Patrick parlasse di lui, così lo ha punito, assassinandogli la moglie e la figlia.

Insomma, Patrick è uno di quei personaggi belli ed eccezionali, ma per lui è impossibile nutrire antipatia. Quando lo vediamo comparire sullo schermo, in lui non vediamo un gradasso che si compiace delle proprie qualità (nonostante in effetti se ne compiaccia molto spesso nel corso della serie), bensì un uomo distrutto e sofferente.
Se dunque la Giannone non riusciva proprio a fare a meno di attribuire ad Anna tante qualità, per non renderla odiosa aveva una sola possibilità: renderla una vittima, come Patrick Jane.

Ci siamo!, direte voi, la trama de La portalettere sembra pensata apposta per mettere in difficoltà la protagonista: Anna è una forestiera, con ideali e abitudini che le rendono difficile l’integrazione. Chi più di lei può essere vittima degli attacchi altrui?
Eh… uhm, non proprio…
Non fraintendete, il vostro ragionamento è giustissimo e impeccabile! Solo che… eh, che vi posso dire? La Giannone ne ha fatto uno completamente diverso.
Infatti Anna in realtà non vive il disagio di essere una forestiera, una “diversa”. Tutt’altro, lei… adora essere diversa, e non ci pensa nemmeno a integrarsi. Prendete ad esempio questa scena: Anna e Carlo sono arrivati a Lizzanello da pochi giorni, quando vengono invitati a pranzo da Agata. Per la prima volta la famiglia si siede riunita a tavola, e…

Quando i piatti furono in tavola, tutti si sedettero. Agata si fece il segno della croce e con le mani giunte e gli occhi bassi prese a recitare il Pater Noster, Carlo e Antonio posarono all’istante il cucchiaio che avevano già preso in mano, e la imitarono.
«Zia, e tu non la dici la preghiera?» chiese improvvisamente Lorenza.
Agata rialzò lo sguardo.
«Io non credo», rispose Anna, laconica.
Carlo tossicchiò e si guardò intorno.
«Cosa vuol dire che non credi?» la incalzò la bambina, stupita.
«Mangiamo, adesso, se no si raffredda», la interruppe Agata.

Lettori, vi sarà di certo capitato di trovarvi in un momento di socialità, durante il quale vi siete comportati in maniera per voi innaturale. Magari avete finto di mangiare con gusto una fetta di torta bruciacchiata per non deludere chi l’aveva preparata, oppure avete simulato interesse per un racconto noioso, o vi siete sforzati di ridere a una barzelletta terrificante… tutto, pur di non ferire i sentimenti altrui. È normalissimo: siamo animali sociali e pertanto desideriamo rafforzare i legami con i membri del nostro gruppo, anche a costo di sopprimere le nostre reali emozioni. Se ci comportiamo diversamente, se non ci preoccupiamo di nascondere il disgusto, la noia, l’irritazione, c’è soltanto una ragione: non vogliamo far parte del gruppo. E questo è senza ombra di dubbio il caso di Anna. Pregare insieme è un atto sociale; il fatto che Anna vi si sottragga con tanta decisione traccia una linea di demarcazione fra lei e gli altri. Linea che ad Anna oltretutto non sembra arrecare il minimo disagio: la Giannone non la descrive imbarazzata o inquieta mentre gli altri pregano. Al contrario, leggiamo che Anna risponde in maniera “laconica”, cioè con fare sbrigativo, senza tradire l’esigenza di giustificarsi al fine di non passare per quella “snob”. L’impressione è che Anna stia partecipando al pranzo senza coinvolgimento, senza alcun desiderio di trascorrere un bel momento in famiglia: non le interessa essere lì da Agata, preferirebbe senz’altro essere altrove e non fa nulla per nasconderlo.

Il contesto pertanto non è avverso alla protagonista, semmai è la protagonista ad essere avversa al contesto. Perfino quando il contesto cerca in tutti i modi di conquistarsi il suo favore… Prendete infatti questa scena, in cui Agata porta con sé Anna al mercato:

«Di qua», esclamò Agata. «Vieni a vedere.» Era la sua zona preferita: quella degli utensili e delle suppellettili per la casa, vere e proprie chicche d’artigianato locale. […]
«E quello cos’è?» chiese Anna, indicando un singolare oggetto in terracotta. Aveva la forma di una pigna o di un bocciolo pronto a schiudersi, con due foglie ripiegate ai lati.
«È un pumo», le spiegò Agata. «Ti piace?» le chiese poi, con uno sguardo speranzoso.
«È un portafortuna», aggiunse il ragazzo. «Ma solo se lo regalate a qualcuno.»
Anna fece una smorfia, come a dire che, ai portafortuna, lei non ci credeva affatto.
«Fidatevi», la incalzò quello, strizzandole l’occhio. E, prima che Anna potesse replicare, Agata prese il pumo, lo pagò e lo infilò nella sacca di Anna. «Questo te lo regalo io!»
Anna la ringraziò, ma senza sorridere. Ma che me ne faccio? Non solo è inutile, è pure brutto, pensò.

Allora lettori, cerchiamo di non interrogarci sul motivo per cui Anna ha la prontezza di riflessi di un bradipo in piena digestione (oh, voglio sottolineare che prima che Anna riesca ad articolare un “no, i pumi mi fanno cagare”, Agata è riuscita a portare a termine l’acquisto, ad afferrare la borsa della cognata, ad aprirla e a buttarci dentro il soprammobile… che cazz…?).
Vedete anche voi che Agata cerca in tutti i modi di conquistarsi l’amicizia della protagonista, arrivando addirittura a illuminarsi di gioia quando finalmente vede Anna abbandonare per un secondo la sua perenne aria scazzata. E Anna, di tutta risposta… assume un’aria ancora più scazzata di prima.

E se state pensando che Anna si comporti così solo perché al Nord è stata nutrita di pregiudizi nei confronti dei meridionali, e che col tempo imparerà ad apprezzare il cuore grande della gente di Lizzanello… sì, insomma, se state pensando che Anna sia un po’ come Claudio Bisio in Benvenuti al Sud, vi sbagliate di grosso. Fino alla fine del romanzo, Anna opporrà sempre una fiera resistenza all’integrazione. Ad esempio, proibisce a Carlo di insegnare il dialetto salentino al figlio Roberto…

[Carlo] Sapeva quanto Anna ci tenesse al fatto che, in casa, si parlasse soltanto l’italiano; aveva proibito in modo categorico l’uso del dialetto e, se a Carlo di tanto in tanto scappava una parola, lei lo redarguiva all’istante.
«Non davanti al bambino, per favore», diceva.

Mentre Carlo è costretto a parlare esclusivamente l’italiano in casa, Anna si prende invece la libertà di parlare a Roberto in francese, che lei conosce giacché cresciuta in un paese ligure al confine con la Francia:

«Quel délice! Mon jardin secret!» esclamò, e stampò un bacio sulla guanciotta del figlio.

Roberto si affacciò alla porta della camera da letto e si addossò allo stipite, guardando la madre con aria sorpresa. «Comme tu es belle, maman!» esclamò.

Insomma, la linea di demarcazione che Anna traccia fra sé e i meridionali è netta e non accenna a sfumare, nemmeno con il trascorrere degli anni. Si crea così una situazione narrativa atipica: la protagonista non ricopre il ruolo di vittima, bensì quello di carnefice. Certo, chiariamoci, il termine “carnefice” è da intendersi in senso lato: non leggeremo di Anna che corre per le vie di Lizzanello, brandendo una motosega (purtroppo, sarebbe stato di certo più interessante…). Tuttavia, non si può certo negare che Anna “aggredisca” gli altri personaggi, ora con il rifiuto di unirsi alla preghiera, ora rompendo le palle su un portafortuna ricevuto in regalo, e ora criticando in maniera inopportuna individui che in realtà meriterebbero compassione, come accade nel seguente episodio:

Una donna anziana, con una peluria scura sopra le labbra e le mani gonfie di calli, stava seduta per terra, a piedi nudi, tutta presa a intrecciare una cesta […]. Agata la salutò con calore e subito si mise a chiacchierare e, mentre le due donne si rimbalzavano una serie di «Ringraziando Dio, andiamo avanti», Anna non poté fare a meno di fissare i piedi di quella vecchia signora, anneriti di terra, coi talloni screpolati e le unghie ingiallite. Per un momento ripensò a sua nonna, che ogni sera, prima di mettersi a letto, si massaggiava i piedi col latte e poi, ancora zuppi, li infilava dentro i calzettoni. «Mai trascurare le mani e i piedi», le ripeteva sempre. «Le persone guardano anzitutto i dettagli, ricordalo.»

Allora, è chiaro che l’autrice volesse (di nuovo) incensare Anna, facendoci notare che discende da una stirpe di donne raffinate e attente all’estetica, a differenza degli altri personaggi femminili puzzoni, che, guardate, c’hanno pure i baffi. Il brano però è impostato in maniera completamente sbagliata, poiché Anna ribadisce la propria superiorità rispetto a un personaggio che non siamo propensi a disprezzare, e che anzi ci impietosisce. Infatti, l’artigiana è una donna che si trova in un’evidente condizione di difficoltà. Per cominciare, svolge un lavoro manuale, faticoso. E poi è anziana: alla sua età, dovrebbe riposarsi su una bella seggiola, non intrecciare ceste al mercato, seduta per terra! Con queste informazioni in mano, deduciamo che la donna non se la passi bene, che sia stanca, dolorante, affaticata. Ad occhio, diremmo che la pedicure è proprio l’ultima delle sue preoccupazioni.
Capite bene dunque che denigrare ulteriormente un personaggio simile, dandogli in pratica dello zozzone, è come sparare sulla croce rossa: crudele. Un atto da carnefice, appunto.

E questa da dove esce?

Oltre a essere insopportabile, il personaggio di Anna è poi anche insensato.
Come già detto, con La portalettere la Giannone ha voluto rendere omaggio alla sua bisnonna, sottolineandone lo spirito progressista: il personaggio di Anna infatti è fieramente laico, nonché femminista e antifascista, ed è perciò un personaggio fuori dal comune, almeno per i suoi tempi. C’è però un problema. Manca l’arco di evoluzione del personaggio, ovvero manca una storia, una parentesi, anche un misero flashback, che spieghi perché Anna è così diversa da tutti gli altri personaggi.

Ah, so a che cosa state pensando: perché mai dovrebbe essere necessario un arco di evoluzione? Anna non potrebbe semplicemente essere nata femminista e antifascista? Certo che potrebbe… ma entro un certo limite. Il punto è che la nostra personalità è determinata in parte dalla genetica, che può renderci estroversi o introversi, neofili o conservatori, mentre il resto è determinato dall’ambiente in cui cresciamo. Ciò significa che ognuno di noi è influenzato dal contesto in cui vive o ha vissuto, e un bravo scrittore non può non tenerne conto. Di conseguenza, quando all’interno di una storia si vuol introdurre un personaggio particolarmente moderno, è necessario spiegare ai lettori in che modo tale personaggio ha costruito la sua eccezionale personalità, quali esperienze l’hanno formato, quali traumi trascina con sé.

Se la Giannone avesse voluto cavarsela con poca fatica, avrebbe potuto dirci che Anna è cresciuta in una famiglia di comunisti. Si sarebbe spiegato così il motivo per cui ha tanto a cuore l’emancipazione femminile e perché invece prova disprezzo per la religione e per il fascismo. Ma l’autrice non dà mai nel romanzo informazioni sullo status sociale e sul livello culturale della famiglia d’origine della protagonista.

Va bene, avete ragione, forse quella di tacere sull’educazione ricevuta da Anna è una precisa scelta dell’autrice: non dando il “merito” ai suoi genitori dello spirito rivoluzionario di Anna, la Giannone accentuerebbe ancor di più la straordinarietà della sua protagonista, in grado di anticipare i tempi moderni senza essere imbeccata da nessuno. Occhei, ma… ma in quel caso l’autrice avrebbe dovuto sostituire la descrizione del contesto familiare con un minuzioso lavoro di introspezione, raccontando in che modo e con quali tempi Anna capisce che la società in cui vive è sbagliata e che è meglio prendere le distanze da essa. Vi ricordate de Il nome della rosa? Il suo protagonista, Guglielmo da Baskerville, è senz’altro un uomo di eccezionale intelligenza, e tuttavia ha avuto bisogno di tempo e di travagliate riflessioni prima di ripudiare i metodi dell’Inquisizione: per poter condannare l’Inquisizione, ha dovuto essere lui stesso un inquisitore. Allo stesso modo, Anna avrebbe potuto essere una perfetta cristiana prima di vivere un episodio traumatico che la allontanasse in maniera definitiva dalla religione, non credete anche voi?

Per come la racconta la Giannone, Anna sembra invece essere semplicemente nata con in mente certe idee progressiste: non si vede mai nel romanzo il momento in cui mette in discussione la realtà che la circonda e in cui inizia ad alimentare ideali nuovi. In breve, se riteniamo plausibile la modernità di Guglielmo, perché la vediamo evolversi proprio sotto i nostri occhi nel corso della lettura, non possiamo fare lo stesso con la modernità di Anna, che è un elemento di cui non conosciamo la genealogia, e che rimane ai nostri occhi del tutto inspiegabile.

Il maschilista e la masochista

E attenzione, gli elementi del romanzo inspiegabili non finiscono qui… Prendiamo ad esempio un episodio fra i più importanti del racconto: quello in cui Anna decide di diventare una portalettere. Perché è una decisione inspiegabile, o, per meglio dire, inspiegata? Seguite quanto sto per dirvi.
In Liguria, Anna lavorava come maestra. Anna, perciò, è una donna con un tasso di istruzione piuttosto alto, ed è abituata a un mestiere che non richiede particolari sforzi fisici. Fare la postina, di conseguenza, dovrebbe essere per lei una sorta di “sconfitta”, costretta com’è ad accantonare il suo percorso di studi e a logorarsi fisicamente, camminando avanti e indietro per il paese per consegnare lettere.
Ora, in effetti all’inizio Anna sembra non apprezzare granché l’idea di abbandonare l’insegnamento a favore di un altro mestiere, che considera nient’altro che un ripiego:

[…] lei non era fatta per essere soltanto una moglie e una madre […] aveva bisogno di lavorare, di sentire che era pure qualcos’altro. Le sarebbe bastato dare una mano, in attesa che spuntasse un’occasione, che magari si liberasse un posto da maestra da qualche parte.

Bene, e fin qui ci siamo. Ma presto le cose iniziano a prendere una piega… strana. Ecco, considerate il momento in cui Anna comunica a Carlo di essersi candidata per diventare la portalettere del paese. Carlo, ragionevolmente, consiglia a sua moglie di lasciar perdere quel posto, e la invita ad aspettare di poter tornare a insegnare. È un discorso assennato e premuroso, non trovate? A questo punto Anna dovrebbe o dargli ragione (poiché, come abbiamo letto in precedenza, lei stessa preferirebbe fare la maestra), oppure rassicurare il marito e dirgli che non ha intenzione di fare la portalettere per sempre, che si tratterebbe di un diversivo temporaneo, e che pertanto non può danneggiarle la salute. Be’, guardate invece come gli risponde Anna…

«Dai, Anna», intervenne Carlo, ridacchiando. «Non è un lavoro da donne, quello del portalettere.»
«E chi l’ha detto?» ribatté lei.
«Anna, su. Magari l’anno prossimo tornerai a insegnare. Può darsi che si liberi un posto. […] Quello del portalettere non è un lavoro adatto a te», protestò poi, ma debolmente. […] «Te ne devi andare in giro a piedi tutto il giorno, sia che piova sia che ci sia il sole. Guarda Ferruccio [ex portalettere del paese] che fine ha fatto… c’ha perso la salute. Siamo seri. Non esistono portalettere donna.»
«Finora», disse Anna.

Capisco benissimo che la Giannone volesse mettere in evidenza l’anticonformismo della sua beniamina, eh. E capisco anche che deve esserle sembrata una buona idea mettere in scena uno scontro fra moglie e marito, in cui lei eroicamente si mostra determinata, e lui patriarcale. Credetemi, io lo capisco. Ma mi domando se l’autrice capisca che la scena da lei scritta non c’entra una mazza con la lotta al patriarcato. Ehi, non basta far dire a Carlo che il lavoro da postino non è adatto alle donne, per far immediatamente di lui un mostro maschilista!
È infatti chiaro che Carlo cerchi di dissuadere sua moglie perché è preoccupato per la sua salute, e non perché si aspetta che se ne stia chiusa in casa a cucinare e a sfornare figli (altrimenti, non la incoraggerebbe a riprendere a insegnare). Non ha senso considerarlo un maschilista, come non avrebbe senso considerare maschilista una madre che esorta il figlio a studiare anziché mandarlo a fare il muratore o il militare.

Oltretutto non ha alcun senso l’improvvisa ostinazione di Anna a diventare portalettere: perché non tituba, di fronte alle ragionevoli obiezioni di Carlo? Perché è così determinata? Avanti, abbiamo capito che ha bisogno di sentirsi “pure qualcos’altro”, ma è mai possibile che lei, avvezza a stare dietro a una cattedra, non si spaventi ad affrontare ogni giorno le intemperie e a camminare tutto il giorno sotto il sole… proprio lei, che sembra patire tantissimo il “caldo del Sud”?

Mi abituerò mai al caldo del Sud? pensò, posando il cappello sul tavolo.

Anna si passò una mano dietro il collo madido. Incredibile, si disse. Sto continuando a sudare anche se sono all’ombra…

Anna si sentiva prigioniera del caldo soffocante […].

Cioè, fatemi capire, Anna soffre il caldo, potrebbe insegnare, ma decide comunque di scarpinare sotto il sole, anche se la sua situazione economica non glielo impone? Scusatemi, ma questo non è coraggio…  è lobotomia!

Infine, vorrei capire perché Anna, per tutto il resto del romanzo, non sembri più voler tornare a insegnare: non la vediamo mai consultare speranzosa le graduatorie scolastiche o rimpiangere le soddisfazioni che le davano i suoi allievi. Semplicemente, da quando diventa portalettere, Anna accantona l’insegnamento di punto in bianco. Perché? Boh.

La storia già finita

Vi dirò, arrivata a questo punto mi è perfino venuto il dubbio che la Giannone si sia impegnata per scrivere male. Già, perché con simili elementi in mano era davvero facilissimo scrivere un intreccio sensato. Sarebbe bastato appena un briciolo di inventiva per immaginarsi uno sviluppo simile: scoppia la guerra, gli uomini partono per il fronte, i mariti vengono strappati alle mogli e i figli alle madri, le lettere diventano l’unico mezzo per mantenere in vita i legami, Anna si rende conto che il portalettere è estremamente prezioso per la comunità, inizia ad apprezzare il suo lavoro e decide pertanto di non rinunciarci nemmeno quando ha la possibilità di tornare a fare la maestra.

È un intreccio talmente semplice che quasi si scrive da solo. Eppure niente, la Giannone non lo considera nemmeno. Non lo considera e… poi fa qualcosa di agghiacciante. Siete pronti a quanto sto per dirvi? Ebbene, la Giannone fa… un’ellissi: recide completamente dalla trama gli anni della guerra. Sì, avete capito bene. In un capitolo ci troviamo nel dicembre 1938, in quello successivo siamo nell’aprile del 1945, con Anna e Carlo che festeggiano la fine del conflitto. Insomma, il momento più buio, più duro, più umiliante della porzione di Storia raccontata ne La portalettere è… brutalmente omessa, saltata a piè pari.

In tutta franchezza, non credo che l’autrice potesse fare scelta meno assennata per il suo romanzo. Va bene, lasciamo pure perdere tutta la questione del perché Anna abbia rinunciato a insegnare… ma, al di là di questo, è comunque imprescindibile trattare il periodo della Seconda Guerra Mondiale nell’opera. Non si può nemmeno pensare di ambientare un romanzo nella prima metà del Novecento, omettendo l’evento più importante del periodo. È come se leggessimo un romanzo ambientato a New York il giorno dell’11 settembre 2001, e non trovassimo menzione dell’attentato alle Torri Gemelle: l’effetto non sarebbe forse straniante?

Non dimentichiamo poi che, così facendo, la Giannone ha perso la preziosa occasione di svelare il vero carattere dei suoi personaggi. Sì, esatto, il vero carattere. Durante un conflitto infatti ciascuno pensa a mettere in salvo sé stesso e gli affetti più cari, perciò vengono meno le convenzionali norme sociali, i sorrisi di cortesia, le amicizie di facciata: fame e paura denudano i legami, mostrandone l’autentica natura. È dunque durante un periodo di grave crisi che è possibile capire davvero chi ama chi, chi è opportunista, chi è empatico e generoso, chi finge di esserlo, e così via.
Quindi l’autrice avrebbe potuto sfruttare la guerra, ad esempio, per rendere evidente agli occhi di Agata l’amore che Antonio nutre per Anna, o per mostrarci alcuni lati oscuri della protagonista, costretta magari a qualche furto pur di assicurare la cena al figlio. E invece… niente, l’ellissi.

Certo, potreste dire che forse l’autrice non conosceva a fondo la storia della Seconda Guerra Mondiale e che pertanto ha fatto bene a non parlarne, così da evitare strafalcioni.
Ma… no, non è corretto. Innanzitutto sono abbastanza certa che nessuno abbia puntato una pistola alla tempia della Giannone per costringerla a scrivere un romanzo sulla sua bisnonna: se l’autrice temeva di non riuscire ad affrontare con dovizia di particolari il periodo storico in cui Anna visse, non poteva farci la cortesia di lasciar perdere e di risparmiarci questo scempio? E poi… eh, incredibile ma vero, l’ellissi non riesce comunque a mettere l’autrice al riparo dagli strafalcioni. La scena con cui la Giannone racconta la fine della guerra è in tutta franchezza allucinante:

«Le forze armate tedesche si sono arrese agli angloamericani», stava dicendo l’annunciatore, con la voce incrinata dalla gioia. «La guerra è finita. Ripeto: la guerra è finita!»
«Carlo!» urlò Anna verso le scale.
Il marito si affacciò in cima alla rampa, con lo spazzolino da denti in mano e un rivolo di dentifricio a un lato della bocca. Le faceva ancora uno strano effetto, vederlo senza i baffi: li aveva rasati di netto dall’oggi al domani. «Non li voglio più, mi fanno pensare a Hitler», aveva detto.
«Cosa succede?» chiese lui con aria preoccupata.
Anna si tirò in piedi e gli sorrise. «I tedeschi si sono arresi», disse, indicando la radio.
Carlo lasciò cadere lo spazzolino a terra, scese i gradini alla svelta e si slanciò verso Anna, stringendola ai fianchi e sollevandola in aria.
«Mettimi giù!» protestò lei, ridendo.
Ma lui continuò a sorreggerla e, con la testa rovesciata all’indietro, esclamò: «Lo sai che vista da qui sei ancora più bella?»
«Tu no, con quel dentifricio sulla faccia», rise lei. «Dai, fatti pulire.» Lui la rimise giù e Anna, con la punta del pollice, prese a strofinare via il dentifricio. «Ecco, adesso sei a posto.» E gli fece una carezza.
«Andiamo a dirlo a Roberto!»
«Domani. Ora starà già dormendo…»
«Magari è ancora lì che legge.»
Afferrò la mano di Anna e andarono di sopra. Aprì piano la porta della cameretta […]. Il figlio stava dormendo supino, con la testa riversa da un lato e una copia di Topolino aperta sul petto. Aveva ormai dodici anni, ma il suo viso era ancora roseo e glabro come quello di un bambino. Crescendo, aveva finito per diventare la copia in miniatura di Anna […].
«Dai, lasciamolo stare, dorme così tranquillo…» sussurrò Anna.

Lettori, non è difficile immaginarsi in che condizioni versassero gli italiani al termine del conflitto: stanchi, provati, traumatizzati, affamati, deboli.
Anna e la sua famiglia invece sono in perfetta salute. Carlo è pieno di energie e riesce a sollevare sua moglie senza fatica, Roberto dorme beato della grossa, e Anna è bellissima (e vabbè, potevamo davvero avere qualche dubbio a riguardo?).
Giusto, giusto, potreste dirmi che non tutti gli italiani hanno sofferto la fame durante la guerra, e che la famiglia di Anna è probabilmente fra quelle che hanno continuato a vivere nell’agiatezza anche durante il conflitto. E in effetti ci sono diversi elementi che ci suggeriscono una condizione di agiatezza: Anna possiede una radio, Carlo adopera il dentifricio, e Roberto può permettersi un fumetto. Ma badate, l’agiatezza non si accompagna necessariamente alla serenità, anzi: sapendo che Anna e i suoi parenti se la cavavano bene, come mai in paese nessuno, in preda alla disperazione, ha provato a derubare la famiglia dei suoi averi, per rivenderli e procurarsi del cibo? Insomma, anche se Anna e Carlo non avessero sofferto la fame, è comunque probabile che vivessero in uno stato di malessere psicologico, dato dalla paura di poter essere derubati in ogni momento. Senza contare lo stress mentale dei bombardamenti aerei che, stando a quanto racconta la stessa autrice, sembra non aver affatto risparmiato Lizzanello…

Quando cominciava quel terribile ululato di quindici secondi, intervallati da altrettanti di silenzio, in tanti vi [nel rifugio antiaereo del paese] accorrevano, trafelati, stretti nei cappotti che nascondevano a malapena i pigiami degli uomini e le sottane delle donne. […] Soltanto i bambini riuscivano a riaddormentarsi, accoccolati tra le braccia delle madri, mentre gli adulti si guardavano con gli occhi terrorizzati e le orecchie tese, in attesa del peggio.

In conclusione, se così stanno le cose, perché nel ’45 Anna e gli altri sono freschi come una rosa? Quali studi serviranno mai per capire che la guerra ha importanti conseguenze su chi la vive?

Nonseguenze

Ah, vi avverto, è meglio che vi abituiate: di rado la Giannone si premura di far seguire agli eventi conseguenze plausibili… anzi, il più delle volte alle conseguenze non ci pensa proprio.
Un esempio? L’aborto di Agata, cognata di Anna. All’inizio il rapporto fra le due donne, come visto, non è idilliaco: Agata vorrebbe fare amicizia con Anna, la quale tuttavia non apprezza particolarmente la compagnia della cognata, che considera bigotta e di mente chiusa. Dal canto suo, Agata si convince che sua cognata sia una gran maleducata (eh…). A un certo punto, però, il loro legame sembrerebbe andare incontro a una svolta: Agata perde il bambino che portava in grembo, entra in depressione, e l’unica da cui si sente compresa è proprio Anna, che già in passato ha perso una figlia di pochi mesi, morta improvvisamente durante il sonno. Agata arriva addirittura ad affermare che il lutto da entrambe vissuto sancisce un legame indissolubile fra loro:

«Povera creatura», commentò Agata, posando la sua mano su quella di Anna. «Mo’ io e te siamo unite dallo stesso dolore.»
Anna aprì la bocca per parlare, ma poi non disse nulla.

Dopo un simile episodio è legittimo aspettarsi che il rapporto fra le cognate cambi. Meh, banalmente potremmo aspettarci che le due diventino grandi amiche… e ciò renderebbe piuttosto interessante la trama, soprattutto dal momento in cui Anna capisce che Antonio è innamorato di lei.
Oppure, se volessimo immaginarci qualcosa di più insolito, potremmo supporre che Anna continui a essere distaccata nei confronti di Agata, che invece, provata psicologicamente dall’aborto, sviluppa un attaccamento morboso nei confronti della cognata… un po’ come Férula, cognata della protagonista de La casa degli spiriti.

Ah, ecco, sta succedendo di nuovo, mi sto perdendo in ipotesi e fantasie… e be’ lettori, abbiate pazienza, quando mi annoio inizio a immaginarmi una trama per conto mio… e con La portalettere mi è capitato spesso di dover impegnare il cervello con trame alternative, perché quella pensata dall’autrice è di una noia mortale. Infatti, il rapporto fra Anna e Agata non si sviluppa proprio per nulla: Anna continua a trovare insopportabile Agata, e Agata continua a trovare Anna priva di buona creanza. Già, l’episodio dell’aborto non ha alcuna conseguenza sulla trama.

Un altro episodio inconcludente riguarda il viaggio di Antonio in Eritrea, allora ancora colonia italiana. Prima di capire perché è un episodio inconcludente, però, ci vuole un po’ di contesto. In un pomeriggio in cui è solo in compagnia di Anna, Antonio raccoglie tutto il suo coraggio e la bacia. Anna fugge via, rendendo così esplicito il suo rifiuto. Antonio capisce perciò che deve dimenticarla e sceglie di partire per l’Eritrea, con la scusa di allargare i commerci del suo oleificio. Mentre è lì, il nostro tenta di dimenticare Anna iniziando una relazione con Lidia, una ragazza italiana, figlia di un albergatore del luogo. Dopo qualche tempo Antonio è costretto a far ritorno a Lizzanello, e qui si rende conto che il suo amore per Anna non si è mai affievolito. Torna così a ricoprire il ruolo dello spasimante il cui amore non è corrisposto, e di Lidia non sapremo più nulla.

Il soggiorno in Africa è quindi un episodio inutile, perché non apporta cambiamenti alla trama e ai personaggi: quando Antonio torna a Lizzanello è esattamente lo stesso uomo di prima, il suo amore è intatto, la sua visione del mondo anche. Ma non è finita, c’è anche qualcos’altro che rende questo episodio un disastro: il suo grande potenziale inespresso. Cazzarola, ma vi sembra possibile che l’autrice parli di un italiano che, in pieno fascismo, va in una colonia con il preciso intento di calmare i bollenti spiriti… e non dica mezza parola sul madamato?
Ehi, capisco che la Giannone non nutra particolare interesse per la storia … allora però avrebbe dovuto evitare di parlare di uomini che in Africa cercano donne “scaccia pensieri”! È come voler fare un discorso sulla Germania, sulla birra e sul mese di ottobre senza voler in alcun modo menzionare l’Oktoberfest: come si fa?

Senza contare che, parlando di madamato, l’autrice avrebbe avuto l’occasione di sviluppare in maniera più interessante la trama. Ad esempio, se Antonio avesse intrattenuto una relazione con una donna eritrea, sarebbe stato un bel colpo di scena se più avanti nella storia si fosse presentato alla sua porta un figlio meticcio, con lo scopo di vendicare l’abbandono della madre e di rovinargli la serenità familiare (come succede fra l’altro nel già citato La casa degli spiriti).
In alternativa, se proprio l’autrice desiderasse… uff, che palle… se proprio desiderasse l’integrità morale per tutti i suoi personaggi, giacché ispirati ai membri della sua famiglia, allora magari Antonio avrebbe potuto provare disgusto per il madamato praticato dai suoi connazionali, avrebbe potuto riflettere sulle atrocità legittimate dal fascismo, e, al suo ritorno in Italia, avrebbe potuto divenire un antifascista militante, conquistandosi l’ammirazione di Anna, e magari anche il suo amore.
In sostanza, con un po’ di impegno, era piuttosto facile utilizzare il viaggio di Antonio come punto di partenza per un’avvincente successione di eventi. Invece, guardando al modo in cui il viaggio è stato “utilizzato” nel romanzo, dobbiamo giungere a questa conclusione: o la Giannone ne ha intravisto il potenziale, ma era troppo pigra per sfruttarlo, oppure non ha nemmeno intuito che ci fosse del potenziale nell’episodio. E né la pigrizia né la cecità depongono certo a favore dell’autrice…

C’è poi un altro episodio di cui voglio parlarvi. A prima vista sembrerebbe del tutto insignificante, ma…sì, credo che meriti ugualmente la nostra attenzione. Vi ricordate di Lorenza, la figlia di Agata e Antonio? Ebbene, da bambina è assai graziosa, ma poi cresce e, ahimè, si riempie di brufoli. Per questa ragione, Lorenza inizia a sentirsi brutta, tanto più che tutti hanno smesso di rivolgerle complimenti. Perfino Anna, che ha sempre avuto un debole per sua nipote, non le dice più che è bella:

E poi si sentiva brutta, a differenza delle sue compagne: tutte le volte che lo specchio le rimandava l’immagine del suo volto ricoperto di pustole, le veniva voglia di frantumarlo. Lo evitava il più possibile, accelerando il passo se ci passava davanti. Neppure la zia Anna, ormai, le diceva più che era bellissima.

Non so voi che cosa ne pensiate, ma a parer mio specificare che nemmeno Anna si complimenta più con Lorenza è un dettaglio interessante. Ci fa capire che l’acne della ragazza, riuscendo a offuscare i suoi lineamenti graziosi, è davvero severa e deturpante, al limite del disgustoso. Inoltre lascia intendere che Lorenza si percepisce ormai sola e abbandonata, quasi tradita dalle persone che prima la adoravano. Insomma, siamo davanti a un brano che segnala la caduta in disgrazia della ragazza.
Ora, voi che siete lettori acuti, senz’altro saprete che cosa segue alla caduta in disgrazia di un personaggio: disperazione e fame d’amore, risentimento, desiderio di vendetta… Capite dove voglio arrivare, vero? Lorenza poteva diventare un personaggio decisivo nella trama. Ad esempio, avrebbe potuto sviluppare rancore nei confronti della bellissima zia, divenendo la sua nemica numero uno. Oppure, così a digiuno di attenzioni, avrebbe potuto innamorarsi del primo uomo che si fosse comportato in maniera gentile con lei, magari un meschino arrivista, desideroso di mettere le mani sull’oleificio di Antonio.
E non è finita qui, la trama poteva svilupparsi ancora in altri mille modi. Ma di questi mille, l’autrice non ne ha contemplato nessuno: dopo non molte pagine, l’acne scompare e Lorenza torna a essere bella, divenendo addirittura una delle ragazze più ambite del paese…

Era cresciuta in altezza e i fianchi le si erano arrotondati; i capelli ramati e lucenti si erano allungati fino alla schiena e le pustole che una volta le coprivano il viso erano sparite, lasciando solo alcuni piccolissimi segni che si vedevano soltanto da vicino.

Ehi, sono contenta per Lorenza, davvero, ma… a che cosa è servito parlare della sua acne, se non ha alcun tipo di ripercussione sulla trama? Perché tirare in ballo la bruttezza e la conseguente solitudine, se poi non si desidera approfondirne gli sviluppi narrativi?

Pane al pane, girico al girico

L’impressione è che la Giannone si “spaventi” a parlare di eventi negativi e dei torbidi chiaroscuri della psiche umana, e che cerchi continuamente di minimizzarli o perfino di ometterli del tutto. Il motivo? Se l’autrice lasciasse che la guerra, l’Olocausto, la fame e la bruttezza irrompano in tutta la loro ferocia nel mondo narrativo de La portalettere, la protagonista perderebbe il suo controllo sul mondo: diverrebbe un essere umano come tanti altri, pieno di buone intenzioni ma impotente di fronte al corso degli eventi.
E l’autrice non può assolutamente lasciare che questo accada. Già, perché La portalettere non è stato scritto con l’intenzione di raccontare una storia, l’avrete ormai capito… il libro è soltanto un panegirico, come Chi dà luce rischia il buio o i romanzi di Saraceni. L’autrice scrive per dare vita a una realtà alternativa dove il sangue del suo sangue è eccellente, amatissimo, e sconfigge ogni avversità con naturalezza. Volete una (ulteriore) dimostrazione? Verso la fine del romanzo Anna, ormai vedova, sfida per l’ennesima volta i benpensanti di Lizzanello aprendo la “Casa per le Donne”, ovvero un luogo in cui prestare assistenza a tutte coloro che sono in difficoltà economica o psicologica.

Ecco, badate a queste parole: “vedova” e “sfida”. Anna ormai è sola, non gode più della protezione del marito amato e rispettato in paese, e per di più si espone avviando un’attività che irrita gli abitanti di Lizzanello. Fra questi c’è il prete don Luciano, che accusa Anna di accogliere le “malafemmine”.
Ora, provate un po’ a pensare: che cosa potrebbe succedere a una donna sola, straniera, che aizza il livore degli altri abitanti nei suoi confronti, nel Meridione e in tempi in cui il femminismo fatica ancora ad attecchire?
Come minimo, è lecito immaginarsi un epilogo come quello di Punto pieno (cacchio, non avrei mai pensato di poterlo usare come termine di paragone positivo…), in cui le protagoniste vedono il loro circolo femminile distrutto da vandali.
Ma ne La portalettere invece niente intralcia i piani della protagonista: Anna rimette prontamente al suo posto il prete con un bel predicozzo e, trionfante, salva la reputazione della sua attività:

Anna avanzò fino al sagrato e, quando fu vicina a don Luciano, gli diede un colpetto su una spalla.
I fedeli ammutolirono di colpo.
«Permette una parola?» disse Anna.
«Buondì, signora portalettere», rispose quello, affabile. «Come posso esserle d’aiuto?»
«Be’, intanto smettendola di diffondere voci false e maligne sulla Casa per le Donne.» […]
«L’esperienza mi ha insegnato che, quando le dicerie diventano… rumorose, un fondo di verità c’è quasi sempre», disse don Luciano. […] «Se mi avesse ascoltato, ora non si ritroverebbe con donne poco rispettabili, e certe voci non girerebbero.»
«E chi sarebbe ‘rispettabile’?» replicò Anna. «Lei? Che predica la carità e la bontà divina, ma poi sbatte la porta in faccia alle donne come Melina? Non siamo tutti figli di Dio? A quanto pare, lei sta dicendo che, in realtà, alcuni sono più figli di Dio degli altri.»
«Non è assolutamente quello che ho detto», protestò don Luciano, tornando a guardare i fedeli. «Ma i peccati sono peccati. Non sta a me perdonarli, ma a Dio.»
«Be’, allora le auguro che il suo Dio perdoni anche i suoi», disse Anna. «A quanto si dice in giro, non sono pochi. Buona fortuna, quando sarà al Suo cospetto.» […]
Elena e Carmine [colleghi di Anna] se ne stavano affacciati sulla porta dell’ufficio […].
«Gliene hai cantate quattro, eh?» le chiese Carmine con aria divertita.
«Non abbastanza», rispose Anna.

Capite dunque qual è il problema? È evidente che con Punto pieno la Agnello Hornby abbia voluto raccontare una storia (certo, poi non si capisce che storia voglia raccontare… ma questo è un altro paio di maniche). La Giannone invece è del tutto disinteressata alla credibilità, alla verosimiglianza, a tutti quegli elementi che distinguono una fantasia da un racconto vero e proprio. Insomma, unico obiettivo dell’autrice è dirci quanto cazzo fosse figa la sua bisnonna.

Panegirico, amore e… la fantasia?

E ciò si riflette anche nello stile. Interamente concentrata sulla grandezza di Anna, l’autrice dimentica di allestire l’ambientazione, che risulta così del tutto anonima. Dalle descrizioni del libro, infatti, non c’è nulla che ci faccia respirare con forza l’aria del Salento. Prendete questo brano, in cui Carlo e Antonio si recano insieme in un posto a loro molto caro…

La Fiat 508 Balilla, carrozzeria baciata dal sole e interni in panno vellutato, sfrecciava a ottanta chilometri all’ora sulla stradina di campagna che da Lizzanello portava al Grande Leccio, alle porte del paese contiguo, Pisignano. Carlo […] [c]ominciò a scalare le marce quando intravide, dopo la curva al di là del muretto a secco, la chioma maestosa e avvolgente del Grande Leccio, l’albero più antico e robusto che esistesse da quelle parti.
Quand’erano bambini, il padre ce li portava ogni domenica mattina. Si sedevano tutti e tre per terra e si addossavano al grosso tronco dell’albero. […] Carlo e Antonio scesero dalla macchina e, come da bambini, si sedettero sulla terra morbida, posando la schiena contro l’albero. Carlo sollevò gli occhi e se ne rimase in silenzio a tirare lunghe boccate dal sigaro. Il fumo, esalato verso il cielo, rimaneva impigliato tra le foglie fitte, che parevano risucchiarlo.
«Te la ricordi la storia del leccio?» chiese poi al fratello.

Benché i personaggi si trovino in piena campagna, immersi nella natura, la Giannone non spende una sola riga per descrivere l’ambiente circostante: tutta la narrazione è concentrata sui gesti dei personaggi, il mondo intorno a loro quasi svanisce. Sia chiaro: una simile narrazione non è da considerarsi necessariamente un errore, soprattutto se l’autore sta scrivendo un brano o un romanzo introspettivo. Ma in questo caso oggetto del brano non sono i pensieri o i sentimenti dei personaggi, bensì proprio il luogo in cui Carlo e Antonio hanno trascorso momenti felici della loro infanzia; descriverne le caratteristiche è pressoché imprescindibile. Se l’autrice non si fosse sentita a suo agio con le minuziose descrizioni ambientali, avrebbe potuto almeno fornirci una descrizione soggettiva, ovvero una descrizione del luogo filtrata dalle sensazioni di uno dei personaggi in scena. Ad esempio, avrebbe potuto dire che a Carlo il Grande Leccio sembra meno maestoso di quanto gli sembrasse da bambino, che i colori dei campi circostanti avevano perso la vividezza rispetto al passato, o che al contrario ogni cosa si è conservata fedele ai suoi ricordi. Qualunque cosa, insomma, purché il Grande Leccio e la natura circostante acquisiscano concretezza, anziché essere soltanto parole che non suscitano alcun tipo di sensazione.

Ma non c’è niente da fare, sembra proprio che la Giannone manchi di fantasia. Lo prova anche la ripetitività con cui ricorrono certe immagini. Ad esempio, per farci capire che Anna è contrariata, l’autrice ricorre sempre e inevitabilmente allo stesso escamotage: ci dice che alza il sopracciglio… e ce lo dice spesso anche con le stesse parole, disposte nello stesso identico ordine! Vi riporto solo qualcuno degli innumerevoli esempi presenti nel libro…

Anna sollevò un sopracciglio, poi con passo indolente salì al piano superiore […].

Anna sollevò un sopracciglio, stupita e vagamente dispiaciuta.

[…] rispose lei, sollevando un sopracciglio.

[…] Anna lo guardò alzando un sopracciglio.

[…] intervenne Anna, sollevando un sopracciglio.

Anna sollevò un sopracciglio, ma rimase in silenzio.

[…] Anna sollevò un sopracciglio. «No, veramente interessa a me.»

Anna sollevò un sopracciglio e, un po’ stordita da tutte quelle chiacchiere […].

«A quest’ora?» Anna aveva alzato un sopracciglio.

Carlo si mise le mani sui fianchi e li guardò, sollevando un sopracciglio.

Ehi, Giannone… esistono anche altri modi per dire che un personaggio non è contento! Può mangiarsi le unghie quando è sovrappensiero o avere degli spasmi all’angolo della bocca quando è nervoso. Senza contare che personaggi diversi avranno reazioni o tic diversi. Ah, ma che lo dico a fare? Come se la Giannone fosse interessata agli altri personaggi…

Via, concludiamo questa recensione. La portalettere è un’autentica schifezza, e arrivati a questo punto credo di avervi fornito prove sufficienti. Ma giustamente forse siete ancora un po’ restii a credermi: dopotutto il libro ha ottenuto un successo strepitoso, come è possibile che sia piaciuto così tanto a così tanti, se è una schifezza?
Facile: La portalettere fa schifo, ma i suoi concorrenti sono “peggio”.
Eh, dico io, un poveraccio che entra in libreria con l’intenzione di comprarsi qualcosa da leggere durante un lungo viaggio in treno, che cosa può scegliere? L’autofiction della Ciabatti? La nuova autofiction di Bazzi? O forse l’ultimo libro di Paolo Giordano, che si cimenta nel genere della… autofiction? Sul serio, non c’è affatto da stupirsi se un romanzo brutto, ma con il pregio di essere un romanzo tradizionale, sbaraglia la concorrenza. Attenzione però, ché la fregatura è dietro l’angolo. Già, perché anche La portalettere è a suo modo una “autofiction”, anche in questo libro l’autrice non racconta una storia e finisce per parlarsi addosso.
Diciamo che La portalettere è un’autofiction che si è messa un berretto in testa e un paio di baffoni finti, ecco. Ma ehi, se amate i cosplay, forse potrebbe stuzzicare il vostro interesse… in tal caso, a me non resta che augurarvi una buona lettura!

Sara

Ciao! Sono la fondatrice del blog letterario "Il pesciolino d'argento", amo profondamente i libri, l'arte e la cultura in generale.

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14 risposte

  1. RebyRebs ha detto:

    Io mi trovo d’accordo su tutta la linea. Odio leggere libri scritti così male. Aggiungo un altro dettaglio che mi ha irritato non poco: Anna che porta i bambini al cinema a vedere Biancaneve dicendo una cosa tipo “voglio portarvi al cinema a vedere un cartone animato” come se fosse una cosa normalissima, come faceva mia mamma negli anni 90. Peccato che è il ’34 e Biancaneve è il primo lungometraggio animato della storia. Anna non poteva certo sapere con così tanta convinzione di cosa si trattasse, come nessun altro nel mondo di allora.
    Boh, gente che scrive a caso e non meriterebbe di far fortuna con le schifezze che scrive. Mi ricorda la Licia Troisi, con i suoi fantasy senza logica, scritti in maniera banale. Questa cosa che bastano due idee in croce per definirsi scrittori dovrebbe finire

  2. Giulia Cappadonna ha detto:

    Ho finito di leggere questo libro con immensa fatica, sperando che a un certo punto diventasse almeno vagamente interessante. È il nulla più assoluto, la quintessenza della banalità, oltre quattrocento pagine di noia. Non c’è nulla che venga approfondito realmente, nè il profilo psicologico di un personaggio, nè le risonanze dei luoghi, nè il contesto storico, nè i rapporti tra i protagonisti. È tutto leziosamente annacquato. Scrivo leziosamente perché la trovo una scrittura compiaciuta di se stessa. Ecco: prendiamo un calderone, mettiamoci dentro un pizzico di tutto e presumiamo di trarne fuori un gran capolavoro. Ne faranno sicuramente una fiction, mal recitata, ideale per addormentarsi sul divano la domenica sera.

  3. Laura ha detto:

    Interessante la sua recensione, mi permetto di segnalare questo: “Quando il piroscafo salpò dal porto di Asmara.. “.
    Asmara è una città posta a più di 2000 metri sopra il livello del mare e diviene “magicamente” uno scalo marittimo.
    Il porto dell’Eritrea sul Mar Rosso negli anni Trenta era (e lo è tuttora) Massaua, non Asmara!!! Ora, io non ho letto il libro ma conosco la persona – un africanista – che ha segnalato questo svarione, ma la domanda che io vorrei fare a lei è: ma gli editor non sono quelli che dovrebbero controllare? Passi l’ignoranza di chi scrive – non si può sapere tutto – , passi la storia mediocre, la brutta scrittura (ripeto, io non l’ho letto) ma come si fa a far uscire un testo con una simile castroneria e farlo arrivare al Bancarella? Grazie se vorrà rispondermi.

  4. Anna ha detto:

    Mi sono inbattuta nella tua recensione facendo una ricerca su “recensioni negative de La portalettere” perché non se ne trovano neanche a pagarle 😂 Faccio parte di un gruppo di lettura su Facebook e tutti i santi gg c’è una recensione su questo”capolavoro” e una pletora di commenti osannanti. Anche perché se i commenti si fanno sui siti dell’autrice o dell’editore o su canali simili si è bloccati, pur esprimendo un giudizio educato e pacato. Sono d’accordo
    su tutto, è più interessante quello che hai scritto tu…. Ma domando com’è possibile che questo libro abbia vinto il premio Bancarella e venduto tanto?

  5. stefania ha detto:

    Sto affrontando l’audiolibro e – di solito finisco sempre di ascoltare un libro iniziato. ma in questo caso mi sta costando un sacco di nervi. il commento di sara è assolutamente giusto, condivido tutti i punti, il libro è incredibilmente superficiale e banale… peccato…

  6. annamaria ha detto:

    Grazie Sara per il tuo commento che ho letto con gusto ed interesse molto maggiori di quelli che ho provato nella lettura della portalettere. Non ho trovato nel libro nulla di accattivante, né la storia, né i personaggi, né la prosa. Davvero l’attuale produzione letteraria italiana è rappresentata da questo testo?

  7. ANNA LUPETTI ha detto:

    Condivido il tuo giudizio, non potevi essere più esauriente. A volte ci affezioniamo anche ai personaggi non empatici, ma queste sono altre storie……… Grazie

  8. Elena ha detto:

    La tua recensione merita più del romanzo recensito! Finalmente ho trovato un motivo valido per averlo letto: mi sono goduta tutte le tue parole, che condivido in pieno, e mi sono fatta pure due risate, dopo tanta noia! Grazie.

  9. River ha detto:

    D’accordissimo Sara, mi unisco al coro dei fischi. Una storia raccontata male, con personaggi immobili dalla prima all’ultima pagina, una protagonista incapace di stimolare la minima empatia e l’imposizione di una modernità a tutti i costi, senza alcuna considerazione per l’ambientazione temporale. È un bene che l’autrice abbia saltato gli anni della guerra, forse ha riconosciuto i propri limiti. Un romanzo che di storico non ha nulla, di romantico non ha nulla, di interessante non ha nulla. È vero, si fa leggere tutto di un fiato, forse perché speri succeda qualcosa ad un certo punto. E invece il finale arriva così, all’improvviso, come se l’autrice avesse raggiunto la lunghezza massima di 25.000 battute (spazi inclusi) e avesse messo punto, salvato il compito sul desktop e fosse andata a fare altro.

  10. Riccardo Piana ha detto:

    Pienamente d’accordo. Finalmente leggo critiche negative su questa sciocca storia d’amore con pretese di romanzo storico quando di storia non ce n’è e se c’è non condiziona le vite dei personaggi. Personaggi banali e poco credibili. Eppure, nella classifica di vendite annuali di Tuttolibri, è secondo dietro a Prince Harry. Poveri lettori italiani. Sono contento di constatare di non essere l’unico a non apprezzare la Giannone che si dilunga nei ringraziamenti a coloro che le hanno permesso di migliorare lo stile, la scrittura, l’ortografia, e di acquisire le qualità determinanti ad accattivarsi il pubblico.

  11. Roberta Maitan ha detto:

    Meno male! Ho appena finito La portalettere e mi sono così infastidita di non trovarci altro che una serie di fatti senza gente vera che li vivesse questi fatti… credevo di essere l’unica visto quel che avevo sentito su questo libro…

  12. Silvia ha detto:

    Mi unisco al coro di fischi… vogliamo parlare del piccolo Roberto? Sono mamma di un bambino di 16 mesi e l’assurdità della gestione di Roberto mi ha urtato ad ogni scena! Perennemente addormentato o portato in collo o lasciato a dormire in stanze lontano dalla mamma, o portato al mare a ferragosto senza ombrellone o almeno un cappellino (mentre Anna ha il suo cappellone di paglia per non bruciarsi il viso)… dimenticato per intere scene, poi rispunta con Anna a casa di Agata quando Anna legge Cime Tempestose a mattinate intere… e si presume che il bimbo stia buono e zitto e fermo per ore! Ahahah! La Giannone un neonato non l’ha visto manco in foto, poi va a parlare di aborti e neonati morti per la SIDS… sono temi delicati che andrebbero affrontati da chi almeno ha studiato, non dico vissuto, la cosa! Non sono ancora a metà libro ma leggendo la tua recensione capisco che perderei solo tempo a continuare, sperando che migliori e arrivi da qualche parte. Grazie e buona giornata.

  13. Agnese Consonni ha detto:

    Un po’ “cattivella”, però sono d’ accordo con la sua dettagliata analisi; inoltre la scrittura è piatta e scolastica. Vabbè… me l’hanno regalato!

  14. af ha detto:

    Ciao! Ottima recensione. Ci sono così tanti punti deboli in questo romanzo che si potrebbe fare una gara a chi ne trova di più… ad esempio, Agata e Carmela sono SEMPRE dipinte la prima come una goffa signora un po’ troppo espansiva e tradizionale, la seconda come una femme fatale mancata e rancorosa. Fine. Non vediamo mai Agata reagire alle attenzioni che il marito dà ad Anna, osannandola oltremisura, mentre lei è sempre dimenticata, triste e abbandonata a se stessa (e non vediamo mai Antonio cercare di supportare Agata dopo l’aborto, tra l’altro). Non c’è una sola occasione in cui Carmela venga mostrata anche in un’altra luce che non sia quella della “””antagonista””” di turno: non ci sono occasioni in cui si veda una vicinanza tra Carmela e altri compaesani, né viene esplorato il suo rapporto con Anna (in 400 pagine rimane solo abbozzato, mentre in realtà aveva un potenziale enorme, mettendoci di mezzo pure Carlo magari). Anche Lorenza, la vediamo andare alla deriva e nessuno interviene. Se ne va a New York da Daniele… lui le avrà mai rivelato la verità sul loro legame? lei avrà dato di matto (avrebbe anche potuto tornarsene in Italia e fare un bel macello, distruggendo le famiglie di TUTTI, obbligando TUTTI a fare i conti con le proprie menzogne e la propria ipocrisia)? avranno comunque cercato di mettere su famiglia in qualche altro modo? Chi lo sa, non noi! Divertente.
    Infine Giovanna. Esiste solo al fine di innalzare ulteriormente Anna: il loro rapporto è totalmente asimmetrico, Anna l’aiuta a scappare da una situazione terribile, le insegna a leggere e scrivere, la ospita in casa (e il marito? in anni di convivenza, non c’è una sola volta in cui vediamo esplorato il rapporto tra Giovanna e Carlo!)… e Giovanna cosa fa, per lei? Niente, a parte adorarla e darle conforto durante il suo lutto. Sarebbe stato molto più bello, e più gratificante per il lettore, vedere Giovanna sconfiggere le dicerie sul suo conto… che diamine, con Anna come beniamina, avrebbe tranquillamente potuto prendere esempio da lei e infischiarsene, trovare lo stesso un lavoro e crearsi una nuova vita dignitosa!! Anna avrebbe anche potuto spronarla a farlo, o addirittura spronarla a trovare una propria identità che non iniziasse e finisse da lei, viste le sue tendenze così progressiste. Ma niente.
    Insomma, un fiasco totale. Chiedo scusa per questo commento infinito, ma ancora non riesco ad accettare di aver speso quasi 20 euro con la promessa di un ottimo romanzo, per poi trovarmi tra le mani questo scempio!