C’è un cadavere al Bioparco – Walter Veltroni
Giovanni si era fatto forza. Il problema consisteva nel decidere su cosa fissare il fuoco dell’inquadratura del suo sguardo. Non ebbe dubbi. Meglio la testa devastata – ne aveva viste tante nella sua carriera –, piuttosto che quella specie di gomitolo viscido e squamoso che giaceva sornione.
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Detective Gore
“Cara signor presidente Giorgia, lo so che molti non credono che tu esisti e che arriverai a Natale 2022, ma io invece ci credo e siccome sono stata una brava bookblogger ti faccio la lista di quello che voglio vorrei a Natale: 1) soprattutto io voglio una cosa che non è per me ma per tutti, voglio che tu prendi con te Walter Veltroni e lo fai diventare sottosegretario o consulente anche senza lo stipendio, ma l’importante è che lo prendi così non scriverà più libri e tutti saremo felici e ci sarà la pace.
P. s. quando verrai io ti lascio una mazzetta per te e una per Draghi Bambino se lo porti anche lui con te, ti lascio dieci euro perché è tutto quello che ho, perché il resto l’ho dato già all’uomo del gas e allo zio Joe che così manda via i cosacchi. Ciao ti voglio bene”.
Ehi, aspetta un momento, c’è qualcosa che non va in questa introduzione. È la notte delle streghe e io sto già pensando al Natale?! Stramaledetta pubblicità, non si riesce a resistere! Be’, ricomponiamoci… uhm dovrei parlare di qualcosa che fa paura. Occhei, Veltroni va bene. Forse vi ricordate di lui per aver diretto pellicole immortali del cinema di genere, come “Ufficiale e Gentiloni” e “P.D. – l’extraparlamentare”; e allora perché dovrebbe fare paura? Innanzitutto, perché è stato sindaco di Roma, e poi… oh, quando uno dei più importanti store online ti consacra maestro del thriller… ho detto tutto. Terzo romanzo, lettori; in effetti, dopo le “pratiche del godimento” e “Maga Magò”, è quasi un obbligo mantenere alto il proprio nome. È il pubblico stesso che lo esige, anche se nessuno gli chiede mai niente, al pubblico. Allora, abbiamo iniziato con un assassinio a Villa Borghese, in cui moriva squartato un bambino, poi siamo passati per il caso del bambino scomparso, stavolta… oh, guarda, C’è un cadavere al Bioparco. Ma sì, dai, perché no? Cioè, se allo zoo di Berlino facevano tutte quelle cosacce, che il Bioparco di Roma deve essere da meno?
E davvero, appena cominciamo la lettura siamo pervasi da un’irrefrenabile inquietudine. Non perché il romanzo cominci in medias res, no, bensì perché… c’è subito il caro Buonvino che… sembra essersi completamente trasformato in Jim Jones?! Sì, mi ricordo di aver fatto lo stesso paragone quando ho recensito Buonvino e il caso del bambino scomparso, però in tal caso era una progressiva evoluzione, e i segnali più strani cominciavano ad apparire dalla seconda metà del libro in poi. Stavolta invece partiamo col botto: Buonvino ha da subito un atteggiamento autoritario nei confronti dei suoi, ma più che il tipico, burbero, capo della polizia che rompe le palle a Bruce Willis, il nostro eroe sembra un guru allucinato sempre più staccato dalla realtà. Lettori, C’è un cadavere al Bioparco si apre sostanzialmente con le considerazioni del supercommissario a proposito dell’espressione “ragazzi”:
«Venite qui un momento…»
Buonvino avrebbe potuto aggiungere un simpatico e ciarliero “ragazzi”, rivolgendosi ai suoi colleghi del commissariato. Ma non lo aveva fatto, nonostante il ruolo, l’autorevolezza e l’età glielo consentissero; aveva infatti scoperto, con fastidio, che quella parola era stata monopolizzata dai politici, diventando uno smaliziato e ammiccante tormentone.
E via, il narratore onnisciente continua a raccontarci i pensieri di Buonvino…
Il tempo in cui viveva, sarà stata la malinconia pandemica, gli appariva, nel discorso pubblico, sempre più intriso di volgarità e di totale inutilità. Gli sembrava che ogni giorno il mondo si dibattesse, seguendo il ritmo ossessivo del tamburo dei social network […].
[…]
Per Buonvino quello era il fastidioso rumore del proprio tempo, ciò da cui si separava camminando per i viali silenziosi della sua Villa Borghese, oppure, una volta tornato a casa, indossando le cuffiette per sostituire il frastuono della tv con le note delle sonate di Rachmaninov […].
[…]
[…] [I]l mercimonio del lessico contemporaneo – un profluvio ininterrotto di “narrazione”, “ci sta”, “attimino”, “tutta la vita”, “tanta roba” – gli impediva, per autodisciplina, di usare anche una sola di quelle espressioni imbastardite dal dileggio gergale.
Occhei, allora… ehm… Buonvino… non so, oltre che Jim Jones, a me ricorda Hannibal, dell’omonima serie televisiva. Sembra essere colto e raffinato, tant’è che ascolta Rachmaninov (ed è bene ricordare al nostro maestro del thriller che siamo troppo abituati fin dai tempi di Arancia Meccanica ad associare la musica classica al personaggio dello psicopatico) e fa lo snob rifiutando le barbariche contaminazioni dell’italiano contemporaneo, tuttavia il nocciolo di questa descrizione è appunto una sorta di contemptus mundi che pervade il commissario. Non è che Buonvino preferisca qualcosa a qualcos’altro, che giudica una schifezza, è che a lui quella schifezza non piace proprio, e più che il piacere per Rachmaninov spicca nel suo animo quel fastidio per il “rumore”. Rumore che è, tra l’altro, “del proprio tempo”: cioè, Buonvino odia le circostanze in cui si è trovato a vivere, circostanze che non sono adeguate alla sua immensa persona. Inutile girarci intorno: se già non conoscessimo il nostro protagonista, penseremmo che il libro si apra con la presentazione del potenziale… uh… cattivo, perché il narratore ci propone pressappoco i tratti tipici di un esaltato narcisista e con inclinazioni alla violenza, violenza che, seppur sopita (almeno a questo punto della storia), emerge dalle parole che appartengono al suo campo semantico, tutte marcate in un modo o nell’altro (la posizione nel testo, la quantità complessiva, le ripetizioni, e via dicendo).
Solo che, eh, noi Buonvino lo conosciamo. Non è mai stato né un rozzo né un ignorante, no, tuttavia si è presentato all’inizio come un pagnottone! Sì, è colto, ma è pure quel babbalacchio che ha combinato un casino ed è stato trasferito per punizione! È quello che comanda una squadra di soggettoni e che non prova affatto fastidio per questo! È quello che… oh, insomma, non è un personaggio cupo, non ha un che di tragico, non è avvolto in un’aura che ci induce a essere seri! Nel primo romanzo della serie, a farla breve, Buonvino era una specie di Topolino meno stronzetto, un protagonista diciamo “amabile” e “sopra le righe”. Intendo dire che il nostro commissario si era presentato come non del tutto realistico: era esagerato sotto certi aspetti, comici o comunque “positivi”, e perciò potevamo facilmente simpatizzare per lui, sentirlo in qualche modo un “amicone”. Ora, in questo terzo volume della saga, Buonvino ci appare… eh… realistico. Oh sì, perché la realtà è crudele e spaventosa, e più troviamo elementi inquietanti, meno ci dobbiamo sforzare per sospendere l’incredulità; questo ha però una conseguenza: se da un lato ci godiamo senz’altro la storia (ammesso che sia ben congegnata) perché ci immergiamo in essa quasi senza accorgercene, dall’altro viviamo la storia stessa così come viviamo la vita di tutti i giorni, con uno stato di allerta e con una certa diffidenza. Siamo pronti a tutto, insomma: possiamo interessarci a qualcuno sì, magari perché ci piace pure, ma continuiamo a tenerlo d’occhio, e sicuramente lo rispettiamo come nostro pari. Ne abbiamo sempre un po’ timore, perché lo giudichiamo simile a noi, e ben sappiamo di cosa potremmo essere capaci.
Ecco, ora noi proviamo questo, a proposito di Buonvino, e però ci ricordiamo anche di averlo considerato, in passato, una mezza caricatura. Come diavolo facciamo a sentirci tranquilli, non c’è continuità, non abbiamo certezze, ci viene perfino il dubbio che il nostro eroe sia posseduto, o che ora ci ritroviamo per le mani il suo doppelgänger! E no, non è un’evoluzione del personaggio: se si vuole che Tizio cambi, ciò deve avvenire in modo coerente, ossia Tizio cambierà alcune sue opinioni, alcuni suoi modi di fare, ma non cambierà la sua personalità! Se è un narcisista, o uno psicopatico, si suppone che rimanga tale, e che si possa capire che è un tipo del genere, per quanto provi a nasconderlo: passare da un mezzo Bombolo a tre quarti di Hannibal è qualcosa che non si può fare, senza che l’intero universo narrativo subisca gravi (e ridicole) conseguenze, porca vacca!
Il cieco guardone
Oh, e voi adesso credete che siano finiti i guai? Macché. Tutto questo sproloquio riguarda solo Buonvino; il primo capitolo ha altre magagne da sottoporci. Già, il primo, poi ce ne sono altri trentadue. Mi sento male.
Va be’, giusto per dirne una, avete notato quant’è forbito il narratore? Quanto Buonvino, esatto, infatti parla di “mercimonio”, “profluvio”, “dileggio”, “gergale”…
Ora il commissariato si trovava proprio in uno di quei momenti sospesi: quello in cui suonava un’invisibile campanella, si appoggiavano le penne sul foglio, si alzavano le dita dalla tastiera del computer, ci si svegliava – nel caso di Gozzi – e ci si preparava al cazzeggio-time.
Ma che è quello?! Prima il pippone sulla lingua italiana imbastardita, e poi il “cazzeggio-time”? Ah, no, è che il narratore assume il punto di vista di un altro personaggio. Ma quando mai?! Il narratore sta semplicemente descrivendo il presente della scena, scena ancora dominata da Buonvino; inoltre, “cazzeggio-time” è in corsivo nel testo, una scelta formale che di sicuro vuole comunicare qualcosa: nel caso, se non mi sono rimbambita, si vuol fare intendere che il “cazzeggio-time” è una specie di abitudine della squadra, una sorta di stato tipico in cui si trovano i suoi membri, un marchio di fabbrica. Probabilmente, quello è proprio il nome che gli uomini di Villa Borghese hanno dato ai “momenti sospesi”. Ma come, Buonvino se ’ncazza per un uso da piacioni delle parole italiane, e poi permette un “cazzeggio-time” nel suo commissariato? Boh, forse un leader deve saper concedere. Così si spiegherebbe l’assoluta devozione dei suoi uomini (e delle sue donne), e in effetti Veltroni sembra confermare l’ipotesi:
Grazie a quel ritmo alternato di rigore e allegria, Buonvino era entrato in profondità nel cuore dei poliziotti di Villa Borghese. Adesso si era affacciato sulla porta del proprio ufficio e aveva pronunciato le parole che tutti speravano di sentire: l’invito a entrare nella sua stanza non era quotidiano, ma quando si faceva attendere troppo gli agenti si preoccupavano per lo stato d’animo del loro superiore.
Oh, cacchio, questo è il momento in cui li obbliga a bere Kool-Aid corretto al cianuro.
E invece no! Divagazione sulla sua storia d’amore con l’agente Viganò, che abbiamo conosciuto durante il caso del bambino scomparso. Be’, che volete, al maestro del thriller sembrava una buona idea parlarne proprio in quel punto, così come una buona idea era riproporre uno dei suoi cliché, il morboso interesse che i vari personaggi provano per le vite sessuali altrui:
Pierluigi Portanova, che ormai non vedeva più una ceppa, bombardava i colleghi di domande: «Che fanno, proseguono per la solita passeggiata?», oppure: «Gozzi, dimmi, si stanno baciando?
Lettori, sono passate quattro pagine, e Veltroni non ce la fa già più, deve assolutamente proporci il guardone, e in questo caso il guardone è un guardone che fa il guardone pur essendo cieco. Ah, sì, diamine, pure questo ritorna: è da Assassinio a Villa Borghese che siamo molestati da grottesche descrizioni di minorati, tutte inevitabilmente uguali, tutte ripetute senza tregua durante la narrazione. Sì, va bene, lo sappiamo che c’è il tappo, il neg… il ner… il mulatto, il mulatto!, la donna, l’ipovedente. Quel che non sappiamo, e che gradiremmo scoprire, è perché l’ipovedente, ormai promosso a quasi cieco, continua a lavorare in commissariato: cioè, qualcuno dica a Veltroni che non basta giustificarsi con un “non voleva che si sapesse, perché temeva l’esonero”, soprattutto se “[t]utto l’ufficio era […] consapevole della sua situazione”. Insomma, ho detto sopra che il nuovo Buonvino ci sembra realistico, e a tratti spaventoso, ma allora non è il caso di adeguare anche tutto il contesto? Ci vogliono dei requisiti per far parte delle forze dell’ordine, e non si tratta di un capriccio: se i requisiti mancano, ci possono essere guai seri. Un cieco può mettere in pericolo sé stesso e i colleghi, non è di nessuna utilità sul campo, eccetera. Oltretutto, l’esonero è una brutta cosa, ma credo che per Portanova i superiori propenderebbero per un semplice pensionamento anticipato, senza problemi; e poi, sempre che si riesca a beffare i controlli periodici ci sono delle conseguenze penali per aver taciuto un’invalidità fisica che pregiudica lo svolgimento delle proprie funzioni, no? No, ’sti cazzi, a Veltroni piace che il suo mondo narrativo sia un po’ e un po’. Un po’ Bombolo, ma un po’ anche Hannibal; Cicciolina, ma anche Maga Magò; comunista, ma anche fondatore del PD. Be’, ci sta, dai.
E su questa linea comprendiamo l’ennesimo ritorno, la macchietta tragica. Lo concedo, questa è un’invenzione assolutamente originale, chi mai aveva avuto il coraggio, prima del maestro del thriller? Peccato che sia un’invenzione marrone. Sempre divagando sull’ipovedente Portanova, il narratore ci racconta di pietosi pellegrinaggi al cimitero, tristo luogo dove il poveraccio si reca per portare pupazzi sulla tomba della figlia, morta quando aveva… “pochi anni” (a Veltroni non frega un granché, in fin dei conti la bambina è un oggetto di scena). Oltretutto, i pupazzi vengono regolarmente rubati, e questo è un pretesto per un’altra precisazione strappalacrime che non sto a raccontarvi. Uaaaaaah! Ragionier Filini, non riuscirò mai più a guardarti stronzeggiare con Fantozzi senza piangere!
E va bene, dopo l’inserto straziante, torniamo all’azione, con Buonvino che lancia un’occhiataccia all’ex razzista Cavallito (perché?, perché?, dico io, in Buonvino e il caso del bambino scomparso era diventato buono, il commissario l’aveva redento!) e che espone ai suoi il caso scottante del giorno:
[…] disse, solenne: «Vorrei che mi diceste quando e come avete saputo che Babbo Natale non esiste. Ammesso e non concesso che sia così. Ma voglio essere chiaro: accetto solo l’assoluta verità. Per quanto dura possa essere. Bene, chi inizia?»
Ma porca put… ehm, a che sono servite le pagine che abbiamo letto, a farci capire che a Villa Borghese non c’è nulla da fare? Chi se ne frega, i tempi morti non si raccontano in un thriller! Guardate, di buono c’è che così si chiude il primo capitolo.
Dentro l’una all’altra
Ovviamente, come vi ho anticipato, il bene è solo un’effimera illusione, e ci sono altri trentadue grossi calibri pronti a sforacchiarci il cervello. Facciamo un bel respiro e incamminiamoci lungo il secondo capitolo. Toh, conosciamo un nuovo personaggio. È Barbara Carrera, la direttrice del Bioparco, una tizia apparentemente cazzuta, che colleziona carillon, e che è “molto seducente” pur avendo “quasi cinquantatré anni”. Ah, è anche una donna sconvolta dalla misteriosa morte del padre, con un passato di balbuzie post-traumatica, e con una madre anaffettiva e ormai malata che sente di dover comunque accudire. C’è qualche speranza secondo voi? Neanche per sogno, pure questo capitolo è un campionario dei topoi veltroniani. Ad esempio, forse i carillon sono dei mcguffin che ritroveremo in seguito nella trama, però al momento fungono da scusa per riempire la carta con i soliti spiegoni densi di riferimenti:
Teneva in bella vista sulla scrivania una batteria di carillon. Avrebbe potuto allestire un museo. La dottoressa Carrera era stata a visitarne uno, forse l’unico al mondo, in Svizzera. Collezionare carillon era la sua piccola mania. Tutti ne hanno una, e sinceramente la sua le sembrava innocente, poco costosa e poco ingombrante. Quell’esposizione ordinata e severa era stata allestita in una di quelle fabbriche che all’inizio dell’Ottocento avevano avviato la produzione delle “scatole per la musica” che Antoine Favre aveva per primo messo a punto nel 1796. Che anno, quell’anno! Edward Jenner aveva scoperto il vaccino contro il vaiolo e Napoleone Bonaparte dominava l’Europa alternando battaglie vinte sul campo a trattati firmati con nemici esausti e incerottati.
Ma la dottoressa Carrera era assai più interessata ai carillon che all’andamento della Campagna d’Italia.
Anche noi Walter, anche noi. Anzi, questo non è nemmeno uno spiegone, con la trama e la scenografia non c’entra niente: è una divagazione e basta, il glutammato che insaporisce (poco) l’acqua. E il resto? Di nuovo un personaggio segnato dalla vita, di nuovo una mezza disabilità, di nuovo una madre con molte ombre, di nuovo un mistero dal passato che riemerge? Eddai, questa roba l’abbiamo letta in Buonvino e il caso del bambino scomparso, non è meglio variare un tantino, così, giusto per non farci abituare? Be’, c’è una nota di colore… uhm no, è razzista… c’è una nota mulatta: le allusioni erotiche, no? Mi sembra giusto condire con un “è ancora una bella topa” la descrizione di una donna sfortunata che, eh, ci scommetto troveremo invischiata in un delitto mostruoso. Va be’.
Dopo un flashback pop-up che contiene pure un cliffhanger (“Quel giorno [di dicembre del 1990] Barbara avvertiva un’inusuale tensione […] [la zia paterna] disse solamente: «Ora sei grande ed è giusto parlartene. Vuoi sapere com’è davvero morto tuo padre?»”), continuiamo con un nuovo capitolo, e… c’è uno scorcio della vita erotico–sentimentale di Buonvino?! Sì, leggiamo proprio qualcosa di simile:
Spesso Veronica dormiva da lui e svegliarsi al mattino era diventato, insieme, uno strazio e una meraviglia. La condizione in cui si addormentavano dopo l’amore – l’uno di fianco all’altra, aggrappati – era infatti una situazione paradisiaca. Ma lo era anche aprire gli occhi, trovare quella delizia di persona accanto, baciarla lievemente sulle labbra e prepararle il caffè.
E Veronica non aveva mai più abbracciato un uomo dal giorno in cui suo marito – anche in quel caso un collega – era stato ucciso dalla ’ndrangheta sulla quale stava indagando.
Quando Veronica era entrata nello studio di Buonvino per il primo colloquio, a lui era sembrato che si accendesse improvvisamente la luce: tutto di lei gli era sembrato perfetto. Era bellissima, per cominciare, e rispondeva – avrebbe detto “come un identikit” – ai suoi canoni di estetica femminile.
[…] il commissario aveva imparato ad aspettare. Era troppo sicuro, stavolta. Rispettare i tempi di Veronica significava rispettare lei e il loro amore. Non c’era fretta, come non c’era bisogno di troppe parole.
Occhei, va bene che i personaggi abbiano delle vite private, altrimenti come possiamo appassionarci, però… che è ’sta roba? Si tratta di informazioni appese, e molte di esse sono l’ennesima ripresa di notizie che conosciamo già dai precedenti romanzi. Veltroni ci considera dei malati di Alzheimer, teme che non rinfrescarci la memoria sul fatto che la moglie di Buonvino se la fa con una donna, che la Viganò ha chiuso la saracinesca per molti anni, e che la poliziotta è fisicamente il sogno erotico di Buonvino porterà danni incalcolabili? Non capiremo più nulla del romanzo, altrimenti? Tanto non capiamo nulla lo stesso! Poi, dico io, se devi ricapitolare, almeno fallo bene: da Buonvino e il caso del bambino scomparso avevamo appreso che la morte del marito della Viganò era un incidente sospetto… insomma, sembrava l’inizio di un’ulteriore indagine, di una sottotrama… oh, fuck!, adesso il tutto è liquidato con un “ha stato la ’ndrangheta”! Non poteva dirlo subito, allora?!
Eh, come potete notare, le scelte narrative del nostro maestro sono alquanto cringe. Ed è un cringe che si aggiunge al cringe, perché, tolte le ripetizioni inutili, tutto il capitolo ha uno strano sentore di crisi di mezza età. Sì, quella alla Arminio. Buonvino riflette sulla sua storia d’amore, si sente vecchio, capisce che o gliela dà la Viganò o non lo farà nessun altro, riesce a concepire delle incredibili riflessioni sulla vita, grazie ovviamente all’esperienza (sessuale) che possiede (superpoteri da uomo maturo). Ehi, se volete appuntarvi una di queste riflessioni, si sa mai, per fare bella figura con la vostra ganza (o col vostro ganzo), che ne dite di questa? Leggete…
[…] non esistono i “tradimenti”, parola e concetto medievale, non esistono litigi che non possano essere ricomposti, quando due persone sono così dentro l’una all’altra.
Grande Veltroni, ammetto che non delude mai. Insomma, chi, se non un vero maestro, potrebbe considerare aulica e d’impatto un’espressione come “persone […] dentro l’una all’altra”, riferita a due innamorati?
Alter ego erotico
Oh, per farla breve, questo terzo capitolo è solo l’ouverture della mirabolante sexytà di Buonvino. Sì, di là dal delitto e dalle altre cacchiolate, il messaggio principale di C’è un cadavere al Bioparco è in fondo questo: Buonvino è un chad. Ah, sembra anche essere l’alter ego di Veltroni, ma non credo che ciò sia correlato. Be’, fatto sta che il nostro eroe è un magnete feromonico, e nei capitoli successivi Veltroni non perde occasione per sbattercelo in faccia. Tutti i personaggi, e intendo proprio tutti, sottolineano costantemente quanto sia sexy e invitante. Ad esempio, la prestanza fisica di Buonvino è la prima cosa notata da Barbara, appena introdotta e subito stregata dal mandrillone:
Fuori dalla porta della grande struttura dedicata ai rettili e agli anfibi, [Barbara] trovò un uomo sui cinquant’anni piuttosto piacente […].
Addirittura Veltroni di punto in bianco si inventa una certa Mara, un personaggio totalmente inutile ai fini della trama, la quale sembra servire soltanto a sollazzare l’ego erotico dell’incredibile commissario:
[…] [Mara si rese conto] di come quell’uomo, così lontano da lei, per età e per ruolo, le sembrasse improvvisamente molto affascinante. […] Ora con quel sorriso alla Hugh Grant in Notting Hill, le appariva sotto una luce diversa. […] La ragazza infatti sussultò di gioia all’idea che Hugh Grant si ricordasse di lei, e mentre si chiudeva la porta dietro le spalle si rese conto che un sorriso le tagliava il volto in preda a una crisi di rossore.
Ve lo giuro, di Mara possiamo scordarci e non cambierà nulla, non ci perderemo dei pezzi dell’indagine, non ci mancherà un indizio fondamentale, non avremo meno suspense, nulla del genere. Se Mara non ci fosse, sarebbe solo Buonvino a perderci; si perderebbe una specie di bambola gonfiabile di carne e già gonfiata.
E che il nostro eroe si sia trasformato, nel vigore intimo e, come ho già detto in precedenza, nel carisma personale, lo dimostra anche il fatto che stavolta non è più lui a fare il guardone, compiacendosi del sesso altrui (come accadeva in Assassinio a Villa Borghese), bensì sono gli altri a smaniare per assistere alle sue performance. Oltre al già citato Portanova, infatti, pure il barista (e confidente di Buonvino) Ivano si rallegra moltissimo, quando vede il commissario e la Viganò:
Veronica e Giovanni erano all’inizio di qualcosa. Per Ivano questo era chiaro e la cosa lo rendeva allegro, facendolo sorridere tra sé e sé […].
Bello. Originale e sano, da un punto di vista psicologico. Oh, per essere originale, è originale, chi altri si è mai fatto pubblicare, proponendo personaggi e intrecci di tal fatta?
My anaconda don’t
Uhm, ho già speso un sacco di parole fin qui, me ne rendo conto, pertanto credo che ora sia meglio abbandonare l’analisi capitolo per capitolo. Cercherò di essere sintetica più che posso, nel presentare e commentare il resto della trama. Eh sì, perché sappiamo che nel romanzo c’è un qualche tipo di omicidio che sconvolge Villa Borghese (noto quartier generale di killer morbosi), un contrattempo che interrompe qua e là le avventure interne alla “Family” di Buonvino, le piacevoli divagazioni storiche, e i raffinati bollettini sulle fatiche amorose del commissario.
Allora, stringi, stringi, succede questo: i nostri eroi devono entrare in azione perché è stato ritrovato un un cadavere nel rettilario del Bioparco, precisamente nella teca dell’anaconda. Corbezzoli! Il corpo è… eh… nudo… ed è anche… eh… senza testa; è ovvio, stiamo leggendo Veltroni, può mai essere un poveraccio qualunque con una semplice ferita di coltello? Uno morto avvelenato? Colpito da un proiettile? Impiccato, addirittura? No, lo sapete. Ah, non è finita, anche questo è ovvio: il gore è ancora troppo poco, perciò sappiate che la testa, ehm… non è proprio andata perduta, è finita… dentro l’anaconda. Già. Tranquilli, Buonvino e i suoi non vivisezionano il serpente (almeno quello, e nonostante Buonvino proponga effettivamente di sventrare l’animale), semplicemente il rettile rigurgita la testa mozzata. Be’, incontriamo una deduzione: poiché i serpenti non sbranano le prede, gli agenti capiscono che il cadavere è stato gettato all’interno della teca già decapitato. Bla, bla, bla, in seguito si scopre che, prima di essere decapitata (con un’accetta, un po’ alla Shining, forse), la vittima è stata morsa da un’altra bestiaccia, dal mostro di Gila per la precisione; ecco, sapete che il mostro di Gila è velenoso, e quindi, be’, il veleno ha causato nel povero tizio uno shock anafilattico da manuale. Sentite che c’è qualcosa di strano, vero? Insomma, dov’è il sesso, eh? C’è, c’è: sulle gambe del cadavere la scientifica scopre tracce di sperma. Eh, eh, bello…
Occhei, too long didn’t read: Buonvino e i suoi scoprono l’identità dell’uomo perché… ah, questo aveva tatuata sotto l’ascella la propria data di nascita. Grazie a un altro escamotage, ossia il fatto che la data è un tantino particolare, il supercommissario identifica la vittima come Gino Maggioni, strozzino e spacciatore. E poi niente, è chiaro che Buonvino sospetta dei dipendenti del rettilario, anche perché non sono state rinvenute serrature forzate, un classicone, no? Non mi dire!, ci sono due addetti che avevano tutti gli interessi a far fuori Maggioni: uno è tale Giacomo Onor, guardiano del rettilario, il quale doveva a Maggioni un’ingente somma di denaro; l’altra sospettata si chiama Ilaria Fochesato, ed è la responsabile della comunicazione del Bioparco. Odiava Maggioni perché il figlio, un drogato, ci ha lasciato le penne a causa di una dose di eroina tagliata male. È tutto molto interessante, vero? Soprattutto perché voi avete capito già da un po’ chi è il colpevole (pur non capendo il movente); e se non me la sento di fare proprio uno spoiler pesante, vorrei almeno avvertire il maestro del thriller che… ecco… anche le scelte formali, sui capitoli e sull’impaginazione, comunicano qualcosa…
Vi state mettendo le mani nei capelli? Tranquilli, è tutto normale. Solo, adesso smettetela, sennò poi dovrete domandare a Berlusconi come ha fatto ad avere quella magnifica chioma da hippy.
Facciamo i seri, su: la trama è, ancora una volta, un enorme e stantio emmental. Nel commentarla, mi va di cominciare con qualche osservazione zoologica. L’omicidio avviene nella notte del 21 giugno, e, secondo Veltroni, l’anaconda avrebbe aggredito il corpo della vittima perché l’assassino gli avrebbe “tirato addosso” il corpo:
Roveta [il capoveterinario] pronunciò la risposta con aria grave e al tempo stesso dubbiosa: «C’è una sola spiegazione, credo. Qualcuno potrebbe avergli tirato addosso il corpo e la testa, e a quel punto l’animale avrebbe assecondato il suo istinto di difesa.»
Io non sono proprio un’esperta, però so almeno che i grossi boidi, e in particolare gli anaconda, non sono come li ritraggono i film con Jennifer Lopez. Sono schivi, soprattutto nei confronti degli umani, e la loro prima scelta di difesa è la fuga. Inoltre, sono decisamente lenti: la nostra immagine popolare dell’anaconda non è realistica, è un miscuglio delle caratteristiche dei serpenti che più ci affascinano. La mole del costrittore e il temperamento attivo, aggressivo, delle vipere, in altre parole. Se davvero “l’animale [avesse] assecondato il suo istinto di difesa”, probabilmente si sarebbe rintanato adagio adagio in un angolo; tanto più che un corpo morto è inerte, e l’anaconda l’avrebbe inteso più come un frutto o un ramo cadutogli addosso, mica come un giaguaro in cerca di preda; e vi pare che, nella giungla, l’anaconda debba aggredire ogni singola noce che gli rimbalza sulla schiena? E andiamo, su! Quello di Veltroni è il solito animalaccio da film horror, il mostro de Lo squalo o, appunto, di Anaconda; e va bene se si vuole fare una trama di quel tipo, ma in un giallo, in un thriller, che c’azzecca? È ancora un elemento esagerato che stona tantissimo con gli elementi realistici, questi sì indispensabili in un thriller che si rispetti. Oh, che volete, per Veltroni l’importante è divertire Veltroni, e quindi becchiamoci queste ulteriori precisazioni sul conto del bistrattato serpentone:
[Roveta] «C’è un particolare che ho notato guardando la scheda dell’alimentazione del serpente. La somministrazione di cibo era prevista per oggi. Era passata una settimana dall’ultima volta che gli avevano fatto mangiare un coniglio, e quindi l’anaconda doveva essere assai affamato […].»
La regola è: esagerare, esagerare sempre… fino all’estremo! Ora, è vero che i serpenti possono alimentarsi di cadaveri, e che negli zoo di tutto il mondo si somministrano conigli e roditori “decongelati”, diciamo così, però… però la descrizione fatta da Veltroni è davvero sopra le righe. Ad esempio, io non so se il maestro ha visitato il Bioparco, se ha parlato con gli inservienti, se davvero gli anaconda lì vengono nutriti una volta a settimana, ma cercando un po’ nell’internet, ho imparato che di solito i boidi mangiano un leprotto una volta al mese (questa è la prassi dello Smithsonian National Zoo, se vi interessa). E neanche dopo un bel po’ dal pasto… meh, non è che agli anaconda venga l’acquolina guardando chi c’è nelle altre teche, mettiamola in questo modo. Inoltre, le pratiche di alimentazione (eh, eh, eh) sono un po’ più complicate di quanto faccia intendere Veltroni: sovente si svolgono di sera, dopo la chiusura, e i serpenti sono costretti insieme al cibo in uno stretto catino, per far sì che, volenti o nolenti, si sforzino di mangiare. Non proprio un avventarsi sulla carne, eh? Bene, e allora per quale motivo C’è un cadavere al Bioparco ci propone l’anaconda di Anaconda? Mi ripeto: a Veltroni piacciono queste cose pulp, splatter e anche un po’ hentai. Sì, dà qualche giustificazione, ci fa capire che non è tutta una sua fantasia adolescenziale, che è possibile, ma ciò che gli preme è il contenuto estremo. Eh, che dovrebbe fare, evitare un tale contenuto perché è esagerato? Quando uno scrive un libro, deve amare ciò che sta scrivendo, altrimenti se si incaponisce di fare un qualcosa di artistico o di bello per il suo pubblico, non ha più senso. Nel caso, mi preme precisare che non giudico i gusti del nostro autore, solo io dico che se per lui il massimo sono le storie pulp da appassionato pubblicato occasionalmente su una rivista specializzata di quart’ordine… uff… ehm, forse dovrebbe scrivere per tale rivistaccia, e non per una casa editrice che immette nel mercato un bel tometto tutto agghindato. Dai, almeno potrebbe rinunciare al titolo di “maestro del thriller”, non pensate?
Ce la potrebbe fare chiunque (lo giuro)
Va be’, vediamo un altro buco (nessun doppio senso). Non ci allontaniamo tanto dall’anaconda, infatti… uhm… ma insomma, soltanto io trovo tutto l’omicidio inutilmente complicato? Vale la pena che vi riporti lo spiegone finale (sì, i gialli di qualità devono sempre avere uno spiegone finale, non lo sapevate?), così sarà per voi più semplice giudicare:
«[Parla Buonvino] Insomma, il buon cattivo va nel corridoio di servizio, con l’idea di trascorrere una serata, forse non la prima, tra erotismo e morte. Magari, per eccitarlo, chi sta per ucciderlo apre qualche teca e, dopo averlo costretto o convinto, lo fa sdraiare sulle scalette che sono proprio all’imbocco di quella del mostro di Gila, che è molto vicina al sito dell’anaconda.
«Maggioni nel frattempo si è masturbato, oppure viene masturbato. Fatto sta che ha un orgasmo, come abbiamo potuto constatare in maniera inequivocabile. Ma forse in quel momento, senza che potesse rendersene conto visto lo stato di eccitazione in cui si trovava, viene attaccato al viso dall’Heloderma suspectum, che qualcuno aveva portato fuori dalla teca. C’è chi dice che basterebbe un uovo crudo per attirare quegli animali in modo irresistibile. Di notte, dopo il crepuscolo, quel rettile sviluppa la sua vocazione predatrice, ed è più agitato. […] L’assassino, che lo [Maggioni] conosce da tempo, sa che la sua vittima ha un sistema immunitario devastato da un’infinita quantità di allergie. E quindi, dopo l’attacco dell’animale, che nel frattempo è tornato nel proprio habitat, l’uomo ha uno shock anafilattico. A quel punto è uno scherzo trascinarlo lungo il corridoio, verso la teca dell’anaconda. Ce la potrebbe fare chiunque, uomo o donna. Forse è meno uno scherzo prendere un’accetta – magari quella che, tempo prima, era stata sotterrata nel giardino antistante – e con un colpo violento, sferrato con una rabbia feroce, tagliargli la testa. E poi spingere il corpo dentro la teca, davanti all’anaconda che, avvertito l’odore del cadavere ancora caldo, lo stritola, e infine lanciargli la testa insanguinata, che il serpente scambia per un lauto coniglietto e divora, salvo poi vomitarla. […] Chi ha ucciso Maggioni non ha lasciato tracce né impronte. Sapeva come fuggire, forse l’ha fatto scavalcando il cancello che affaccia su viale dell’Uccelliera, proprio di fronte all’ingresso del rettilario […].»
Ah, ah, ah, ah! Occhei, occhei, un paio di chiarimenti: sì, il tipo si era “sburado nei pandalloni” non a caso o per via del rilassamento degli sfinteri, ma perché è un feticista dei rettili, e si eccita da morire in loro compagnia; e sì, avete capito bene, non ci sono né tracce né impronte, la scientifica è sempre impotente. O C.S.I. o niente, va bene? Ad ogni modo, messo da parte questo, le continue giustificazioni che accompagnano il gore (di nuovo un “no, no, non sono morboso, cioè, è plausibile che succeda”) e i piccoli aggiustamenti che provano a puntellare la struttura stessa del giallo (eh, che sarà mai trascinare un corpo e spingerlo dentro la teca dell’anaconda, “ce la potrebbe fare chiunque” eh, chiunque, ah, ah, non sareste mai riusciti a scoprire il colpevole se non ve l’avessi detto io col mio spiegone! Ed è un colpevole plausibile!), so che state febbrilmente pensando: ma se Maggioni era in shock anafilattico, che cacchio di bisogno c’era di spostarlo, mutilarlo e farlo ingoiare dall’anaconda?! Lo shock anafilattico è già di per sé molto pericoloso, al più l’assassino avrebbe potuto “aiutare” un tantino la vittima a morire, magari assicurandosi che ingoiasse la lingua o causando l’asfissia in qualche altro modo. Più facile, più sicuro, più diabolico. Tanto, come appunto avviene, si sarebbe scoperto che Maggioni era un pervertito scopalucertole, perciò avrebbe avuto senso la sua presenza al rettilario: eh, il maniaco era andato lì per sollazzarsi coi lucertoloni e… zac!, fatalità un mostro di Gila, per non farsi violentare, lo morde. Dagli esami della scientifica si scopre che era un tipo allergico a tutto, quindi… tombola! Un incidente: morte causata da reazione acuta al veleno dell’eloderma, avvenuta nel corso di un gioco di autoerotismo. Poi l’eroe non è convinto, c’è qualcosa che non torna, e via così, abbiamo un thriller che non farà la storia, ma che almeno non farà cagare. Vi dirò di più, ci sarebbe stato un modo ancor più elementare per sviluppare la trama: poiché l’assassino conosce bene Maggioni, e sa delle sue gravi allergie, gli sarebbe stato sufficiente contaminare un pasto della vittima con uno degli allergeni noti, di nuovo causando alla stessa un fatale shock anafilattico, però in circostanze di gran lunga meno sospette!
Ah, tutto molto ragionevole, solo che ci sono dei piccoli problemi. L’ufficio burocratico del terzo piano mi ha mandato una lista degli stessi, che ora riporto per voi. Problema numero uno: con l’impostazione suggerita dalla titolare del blog, non è proprio necessario che la vittima si sporchi i pantaloni, e invece è indispensabile che lo faccia, anche se, alla trama effettivamente pubblicata di C’è un cadavere al Bioparco, non aggiunge nulla. Problema numero due: con l’impostazione suggerita dalla titolare del blog, non è possibile inserire una testa mozzata, ingoiata e sputata. Problema numero tre: con l’impostazione suggerita dalla titolare del blog, non è opportuno inserire animali mostruosi. Problema numero quattro: con l’impostazione suggerita dalla titolare del blog, l’assassino è un soggetto di basso profilo, probabilmente posato e machiavellico, mentre è tassativo che sia una specie di Jason Voorhees. Problema numero cinque: con l’impostazione suggerita dalla titolare del blog, è necessario escogitare indizi che dapprima scalfiscano la ricostruzione ufficiale della morte, e che poi guidino il commissario verso la soluzione del caso.
Ahi, ahi, niente, mi sa che la mia proposta sarà cestinata; sono delle grosse magagne, specialmente l’ultima. Sì, sapete, forse Veltroni potrebbe anche fare un grossissimo sforzo ed evitare per una volta gli elementi morbosi e sopra le righe, però degli indizi sottili e intricati… andiamo… questo mai! LOL (sì, proprio così, LOL), lettori, so che li avete già notati: i deus ex machina, loro, gli inimitabili, gli amici del giallista fico. C’erano in Assassinio a Villa Borghese, c’erano in Buonvino e il caso del bambino scomparso, ci sono in C’è un cadavere al Bioparco. Sembrano essere l’unico mezzo con cui il maestro del thriller riesce a uscire dai suoi stessi pastrocchi. Andiamo, già è ridicolo che la scientifica non riesca a risalire all’identità dell’uomo attraverso, che so, il semplice confronto delle impronte digitali o l’analisi del DNA (sono risaliti a “Ignoto 1”, porca vacca!), ma che ci riesca Buonvino solo perché… la vittima si era tatuata la data di nascita sotto l’ascella è troppo! Anzi, no, non è solo troppo: quella data di nascita è pure una sorta di unicum nella storia anagrafica di Roma, quindi il nostro è un deus ex machina doppio carpiato (e mortale). Ah, voglio anche farvi notare questo: l’assassino stacca senza problemi la testa dal corpo, ma poi non riesce a eliminare il tatuaggio (ai polpastrelli manco ci pensa… va be’), e sì che conosceva molto, molto bene la vittima, come abbiamo visto, avrebbe dovuto premunirsi per cancellare tutti i tratti distintivi. Addio alle buone intenzioni di tutti quelli che “no, ma Veltroni gli fa mozzare la testa perché è un tentativo di nascondere l’identità della vittima”, baggianate! Tra l’altro, il maestro del thriller non spiega mai, mai, mai e poi mai perché Maggioni, un settantenne, si è fatto tatuare, perché il tatuaggio è la sua data di nascita, e perché si trova proprio sotto l’ascella. Insomma, noi possiamo fare delle ipotesi, però nessuna è veramente capace di risolvere tutti i quesiti. Ad esempio, se Maggioni fosse stato più giovane, sarebbe stato immediatamente concepibile che avesse una data tatuata sul corpo (benché in genere sia di moda tatuarsi la data di un anniversario, o della nascita di un figlio), tuttavia continuerebbe a essere un mistero la scelta dell’incavo ascellare.
Che poi, sempre a proposito di deus ex machina, un modo facile di evitarne qualcuno c’era eccome, dico io! Ad esempio, se si stabilisce che Maggioni soffre di molte allergie, è improbabile che nella sua camera non siano stati ritrovati antistaminici o dosi di adrenalina, no? E se è vero che si accompagna al suo assassino, anzi, se è vero che è intimo con quest’ultimo, non è forse scontato che almeno una volta abbia chiesto proprio all’assassino di conservare degli antistaminici? Ritengo che, seguendo queste idee, avremmo potuto leggere di Buonvino che nota fra gli effetti personali del colpevole una confezione di antistaminici scaduti, ossia un segno che il cattivo non li usava da tempo. Il commissario avrebbe quindi potuto imbastire un interrogatorio, domandando se soffriva di allergie, e l’assassino sarebbe stato costretto a mentire; poi la verità sarebbe venuta a galla. Come? Be’, Buonvino avrebbe potuto scoprire che il cattivone è in realtà goloso di burro d’arachidi, o che convive con un gatto. È comunque robaccia, me ne rendo conto, ma in ogni caso si tratta di una trama più logica e un tantinello più complicata, rispetto a quella che ci ha proposto Veltroni. Giusto un tantino, eh, e solo perché anche stavolta il colpevole sostanzialmente si rivela da sé. Già, nel primo romanzo l’assassino lasciava in giro una prova schiacciante con sopra il suo nome, nel secondo il cattivo veniva ripreso in un video, in questo nuovo capitolo della saga… ah… i dipendenti dell’albergo in cui alloggiava Maggioni riferiscono a Buonvino di aver visto l’omicida accompagnarsi proprio alla vittima, addirittura sette anni prima del delitto. Memoria strabiliante, eh? Plausibile, plausibile, come no. Vero, stavolta i “testimoni” non sono oggetti assolutamente affidabili, però, insomma, il concetto è lo stesso.
Ma Bio parco!
C’è davvero una tonnellata di altre scemenze che dovrei discutere, a partire dal movente del delitto, una cavolata totalmente nonsense, ma temo che farei spoiler ben più pesanti di quelli che ho fatto finora, forse rovinandovi un certo divertimento. Perciò, mi fermo qui, tanto potete immaginare che cosa c’è da dire a riguardo. Concludo con alcune osservazioni finali. Innanzitutto, con un certo sollievo vi assicuro che in C’è un cadavere al Bioparco i bambini sono assenti: grazie al cielo!, dopo due libri un po’ da maniaco, be’… ehm… ma sapete come si dice, no? “Tre indizi fanno una prova”… e niente prova, quindi, meno male! Secondariamente, se sentite la mancanza di qualcuno, avete ragione: Cecconi, dove sei?! Via, il mulatto è stato messo in un angolo a prendere polvere. Ha fatto il suo dovere, cioè da miccia per gli esplosivi sermoni “umanitari” e “di sinistra” del prode Buonvino, ma ora ha un po’ rotto le palle, pertanto, meh… probabilmente continua a farsela con l’agente Robotti. Peccato, avrei voluto seguire ancora l’evoluzione del personaggio: dopo essere stato un “nero” in Assassinio a Villa Borghese, e un “mulatto” a pieni voti nel secondo romanzo, forse questa era la volta buona che Veltroni lo promuoveva a “bianco”. Eh, pazienza.
Almeno mi consolo con un finale stile Buonvino e il caso del bambino scomparso, ossia un colpo di scemo tostissimo. Oh, non ci crederete, sparano a uno dei fedelissimi del commissario, e pure in un momento molto importante per Buonvino. Cioè, si tratta di una scena completamente esagerata e “out of nowhere”, ma, ehi, tutto il romanzo è così, quindi…
Solo, mi preoccupa che il finale sia aperto: segnale che ci sarà un Buonvino IV? Cielo, è uno di quei misteri da non dormirci la notte, soprattutto dopo aver letto i tre precedenti. Per completezza, vi dico che non è l’ultimo mistero: nei ringraziamenti, Veltroni scrive questo…
Ringrazio […] Chiara Valerio […].
Oddio, quella Chiara Valerio? Se sì, perché la ringrazia? Che diavolo sa fare, Chiara Valerio? Ma poi, Chiara Valerio non è pappa e ciccia (lei è pappa) con Michela Murgia? Michela Murgia, che ha stroncato senza pietà Assassinio a Villa Borghese, deridendo il genio del maestro del thriller? Mah, che niente niente l’editoria è diventata come la politica, fra ccani nun se mozzicheno?
Non lo so, lasciamo che alcuni misteri restino tali, ché in fondo danno gusto alle nostre vite. A questo punto, vi saluto caldamente e mi congedo permettendomi di…
«Bio parco!» ripeté Buonvino, stavolta sorridendo. «A ben pensarci sembra una bestemmia ecologista…»
Co… cosa diavolo era quello?! Ho letto bene? C’è davvero scritto…
«Bio parco!»
Non ci posso credere, l’hai fatto! Brutto figlio di puttana (disclaimer: sto citando Ian Malcolm di Jurassic Park)! Lettori, basta, non ho più parole, in C’è un cadavere al Bioparco troverete anche quello. Molti l’hanno pensato, solo uno ha osato. Adesso sì, adesso capisco perché lui è il maestro e io sono solo una mezza bookblogger. Oh, e spero di avervi fornito la prova decisiva che dimostra… sì, che dimostra la grandezza del romanzo. Dovete leggerlo, su questo non c’è alcun dubbio; poi sarete diversi, sarete delle persone nuove. E dunque, se volete trasformarvi, cominciate facendo una buona lettura!
Penso che con l’acume che ti ritrovi potresti benissimo scriverlo tu,un thriller! Mi sono divertita molto (e sicuramente non lo leggerò)!