Tasmania – Paolo Giordano

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IL GIUDIZIO:

tasmania romanzo di paolo giordano edito da einaudi

Diverse persone hanno scritto alla trasmissione per chiedere di ascoltarlo ancora. O almeno è quello che racconta lui.

Ci vuole un fisico bestiale

Ehi, che ci vuole a scrivere un romanzo fico? Basta avere i sentimenti, no?, quelle cose lì. Poi il sesso, la critica della società, un po’ di product placement. Tutto regolare, può farlo anche un tamarro. E infatti mi pare che gli store trabocchino di tamarri che scrivono romanzi. Bellissimi eh, per carità, un sacco di blog li lodano, perciò non ci si può sbagliare. Ora, se un vero e proprio tamarro riesce a scrivere un romanzo memorabile, immaginate che cosa può scrivere un fisico. No, non un fisicato! Un fisico… eddai, lo scienziato! Cioè, top del top, oltre ai sentimenti ci metterà anche le equazioni, la roba quantistica tipo, cose del genere.
È vero, è vero, ho già recensito il libro di un fisico di prim’ordine e non è che sia andata benissimo. Però quello era un saggio, il romanzo ancora mi manca, e… ehi, sarà un altro paio di maniche, suppongo. In fin dei conti, ho sostenuto spesso che la buona scrittura ha molto a che fare con lo studio, con gli esperimenti… con una sorta di metodo scientifico, insomma. Capite dunque da voi che questo Tasmania mi ha incuriosita da subito. È infatti la storia di uno dei Looney Tunes, che… oh… oh, no? Cacchio, no! Quello era Tazmania, con la “z”. Che cavolo ho grattato allora dal cassonetto della raccolta carta?! Uhm, sulla copertina, dopo il nome del produttore, Paolo Giordano, c’è la lista degli ingredienti: cambiamento climatico, genitorialità, omosessualità, femminismo, glutammato, E420, E967, tracce di frutta a guscio.
Sembra bello.

Occhei, bando alle ciance e iniziamo la lettura di Tasmania, via. Il protagonista è… Paolo?! Già, Paolo, un quarantenne. Un quarantenne che… ha studiato fisica. Ah. Fisica, fisica, solo che ora… proprio ora… fa il giornalista e lo scrittore. Aspetta: Paolo… laurea in fisica… giornalista… scrittore… ma certo! Il protagonista è quel tipo che ha inventato la gravità, vero?
Ehm, no, mi tocca fare meno la simpaticona, perché è ovvio che il romanzo emana immediatamente un odorino di autofiction. Che ci possiamo fare? Non dirò che l’autofiction è un genere rispettabile, se qualche autofiction valida esiste, temo sia una sorta di criptide ancora sconosciuto alla (seria) critica letteraria; nondimeno… mettiamoci una molletta sul naso e proviamo a non farci intontire dalla puzza.

Fossi in te ci andrei cauto

Paolo. Paolo è un fisico, ma ciò non gli impedisce di essere un uomo. È un uomo che attraversa un periodo di crisi. Perché? Be’, perché la moglie non riesce a sfornare un Paolo Junior che faccia da “mini me” all’ego del nostro eroe, e poi perché… uh… Paolone sta scrivendo un libro sulla bomba atomica, ma non gli va di finirlo.
Noi, invece, abbiamo già terminato. Abbiamo terminato con la trama, cioè. Gira che ti rigira è tutto lì, due cose. Ehi, autofiction, vi ricordate? Tasmania è geneticamente un gracilino, però è pompato da massicce dosi di steroidi, ossia da episodi di vita raccontati qua e là, tutti di dubbia utilità narrativa. Oh sì, lo confesso, sono stata tentata di fare il dito medio al romanzo, però… poi… sfogliando le pagine… ho notato qualcosa. Paolo descrive un suo stato d’animo:

Fossi in te ci andrei cauto, gli ho detto, senza sapere perché mi venisse fuori proprio quella frase.

Quell’aggressività l’ha presa alla sprovvista e in un certo senso ha preso alla sprovvista anche me.

Non sapevo bene come mi uscisse quel commento.

E cosa ci fa a Parigi esattamente?
Ho risposto che non lo sapevo bene e lei ha annuito, come se si vedesse.

Che hai?
Niente, cioè non lo so.

Non capisce le ragioni della mia riserva, e a dire il vero non le capisco neanch’io.

[…] guardo Giulio sentendomi chissà perché colpevole, infine taccio.

Chiaro, Paolo spesso agisce d’impulso, sembra ci sia in lui una separazione fra il corpo e la mente, per così dire. Strano. Perciò, ho dato un’occhiata alla sinossi di Tasmania:

La paura e la sorpresa di perdere il controllo sono il sentimento del nostro tempo, e la voce calda di Paolo Giordano sa raccontarlo come nessun’altra.

Ehi, mi sarò sbagliata? Non un’autofiction, bensì un’opera che solo superficialmente ricorda il genere più cool del momento; in realtà, Giordano ci costringe ad addentrarci in una sorta di saggio sulla natura degli impulsi incontrollabili, sulla dialettica (va ancora di moda questo concetto?) fra istinto e raziocinio.
Qui c’è finalmente qualcosa di interessante da leggere?
No.

Perché farsi illusioni? Meglio l’amara verità. Effettivamente, Tasmania lascia intendere che Paolo sia in conflitto con sé stesso: fin qui, nulla di male, anzi, è un ottimo canovaccio da sviluppare. C’è un unico problema che arresta lo sviluppo del canovaccio. Un problema che ha un nome e un cognome, anche se ora mi viene il dubbio su quale sia quale: Paolo Giordano.
Eggià, purtroppo Giordano non adotta un metodo scientifico, nel trattare dei suddetti impulsi di Paolo: non si domanda quale sia la loro origine, non fa analisi, non si riferisce a questa o a quella teoria, neppure inventa delle situazioni ad hoc, degli “esperimenti mentali”. Seguendo le orme di altri grandi del nostro tempo, Giordano riferisce come un robot.
A noi però piace giocare a fare gli scienziati, pertanto lasciate che vi sottoponga qualche prova e qualche ragionamento di contorno.

Nella prima metà del romanzo, troviamo un viaggio. Paolo vola ai Caraibi, più precisamente a Guadalupa: non gli interessa granché di aprirsi alla cultura locale, vuole invece attizzare sua moglie Lorenza, perché, ehi, vi ricordo che fra i due è in corso una crisi coniugale. Ebbene, bla, bla, durante la vacanza, Paolone e consorte stringono amicizia con una coppia di olandesi… amanti dello scambismo. Eh, va bene, roba trasgressiva, ci può anche stare, per carità. Che succede, dunque? Succede che i quattro si ritrovano nella stessa camera da letto, succede che Lorenza è a suo agio, e succede che la disinibita olandese inizia a occuparsi dei “genitali” (sì, proprio così, non “palle”, non “uccello”: “genitali”, come su un atlante anatomico) di Paolo, esplorandoli “tutto intorno e dietro, con una dedizione speciale”.
Succede che Paolo sta vivendo la fantasia sessuale della stragrande maggioranza degli uomini etero.
Succede che Paolo si lascia andare agli impulsi più animaleschi e primordiali.
Succede che Paolo si getta a capofitto sull’olandese.
Sull’uomo. Olandese. Sull’uomo olandese.

Cono o coppetta?

Sì, avete capito bene. C’è praticamente il set della vecchia pubblicità Saratoga, quella con Giovanna e con la moglie bonazza del pappa, ma il nostro Paolo, che è sposato, che vuole un figlio, e che non ha mai avuto un’esperienza omosessuale… ignora Giovanna, ignora la moglie, e fa una fellatio:

Maaike adesso si dedicava ai miei genitali, li esplorava tutto intorno e dietro, con una dedizione speciale. A un certo punto è stato come se avessi pensato okay, questo è il momento in cui ti arrendi, questo è il momento in cui non puoi più controllare nulla, ma è solo come se l’avessi pensato, perché in realtà ero già sceso in un luogo dove non si pensava più a niente, dove esistevano solo il corpo e le sue azioni e un istinto cieco. Lorenza era lontanissima. Sono stati quella lontananza e quell’istinto cieco, credo, a farmi chinare su Otto. Ero rotolato sul fianco e mi sono sporto su di lui. Ho tenuto gli occhi chiusi mentre lo facevo, ma ho avvertito la sua sorpresa e ho avvertito, più remotamente, la sorpresa di Maaike e quella di Lorenza.

Ah, “Otto”, che bel nome per un can… ehm, per un germanico. Molto originale.

Andiamo, lettori! capite da voi che un episodio simile è una svolta sensazionale, mette in discussione l’equilibrio iniziale della storia, e inevitabilmente attira l’attenzione. C’è qualcosa di sbagliato in tutto questo, mi domandate? No, la struttura è valida, a prescindere dal solito trito contenuto di trasgressione sudaticcia. Quel che non va sono le mosse successive di Giordano. Infatti, ho detto che la scorpacciata di parti intime attira l’attenzione, sì, e… e poi il nostro autore non se ne fa nulla. Zero.
Costringendolo a praticare una fellatio, Giordano fa di Paolo l’enigma di Tasmania: cominciamo subito a domandarci perché il nostro protagonista si è lasciato andare così tanto, se è stato spinto da un’omosessualità latente, se è una risposta allo stress, o se è una semplice e irrilevante manifestazione di curiosità. Ora, se un autore vuole che il suo pubblico si ponga delle domande su un certo tipo di argomento, è perché vuole in un certo senso conversare su tale argomento. Per arrivare a una “teoria del tutto”? Ma no, ci si può anche confrontare per arrivare a un punto morto, a un’aporia. Attenzione, su questo: un’aporia, per quanto sia irritante, è un passo avanti, rispetto al punto di partenza. È una risposta non al problema, bensì al metaproblema: ci dice, in breve, che la questione affrontata, non avendo avuto soluzione, è difficile, o mal posta, o addirittura insolubile. È una situazione del tutto diversa, rispetto all’accantonare brutalmente l’enigma.
Ehi, indovinate un po’? Paolo si gusta il calippo e… e si parla subito d’altro! Appunto, l’ho anticipato, Giordano si dimentica del tutto degli impulsi sessuali di Paolo, e soltanto verso la fine del romanzo il nostro eroe si ricorda di aver preferito il würstel alle patatine. Incomprensibilmente, poi, a Lorenza confessa di vergognarsene:

[Lorenza] Si è inginocchiata sul materasso e mi ha preso la testa con la delicatezza speciale che usava in quelle ore e io le ho detto che mi dispiaceva, che mi dispiaceva molto, e che mi vergognavo. […] mi vergognavo di Guadalupa, soprattutto di Guadalupa, anche se non ce l’eravamo mai detto.

Tutto qui? Paolo si vergogna di aver fatto una fellatio? Che cazzarola dovrebbe essere, un colpo di scena finale? È fin da subito prevedibile che un quarantenne da sempre dimostratosi eterosessuale si vergogni di aver fatto sesso orale a un altro uomo. Noi vogliamo conoscere i lati oscuri e misteriosi della natura umana, vogliamo c-o-n-o-s-c-e-r-l-i! Che senso ha proporre alla fine un’intuizione che già ci è balenata appena introdotto l’episodio della fellatio? A che serve, nel mezzo, ribadire fino allo sfinimento che Paolo agisce d’impulso? Non è una spiegazione, come appunto avevo dichiarato in precedenza, è la forma “telling” di un qualcosa che nel romanzo è stato introdotto come “showing”. Che Paolo rifletta e dica di “non sapere” chi è, e perché fa ciò che fa, non ci aiuta, non è per noi un indizio di qualcosa. Se Giordano aveva in mente così di discorrere con noi, il suo pubblico, proponendoci le sue personali opinioni su un certo tema… ha fallito. È come se avesse voluto filosofare con noi sull’origine delle specie, raccontandoci che ha visto delle aperture branchiali in un embrione di pollo, e poi notando ripetutamente che… i pesci hanno le branchie. Wow, non mi dire!

Fuor di metafora, ci eravamo accorti che Paolo è stato alquanto impulsivo a prenderlo in bocca. Vorremmo di grazia almeno intuire una teoria che provi a spiegare che cosa ha spinto un uomo etero a fare il passivo. Invece no, ci becchiamo la vergogna. Che poi, questa vergogna da dove salta fuori? Sì, ho affermato che ci sembra naturale per il protagonista, però… Paolo si vergogna solo in quel momento! E ciò in palese contraddizione con quel “non ce l’eravamo mai detto”. Non l’aveva mai detto, ma evidentemente aveva contemplato l’idea di farlo! O sbaglio? Ebbene, il nostro autore, da veterano della scrittura, si premura di non far mai, mai, mai trasparire alcun segno dell’intima vergogna provata da Paolo. Tanto per cominciare, la mattina successiva all’episodio non pare che l’eroe sia turbato, anzi. Si sveglia e fotografa serafico le nuvole che vede in cielo:

Quando mi sono svegliato, alcune ore più tardi, gli olandesi se n’erano già andati dalla stanza. Lorenza dormiva, sdraiata lungo una diagonale del letto che testimoniava la stranezza della notte. Le ho coperto le gambe con un angolo di lenzuolo e mi sono alzato. La finestra era spalancata e sono uscito in terrazza. Una striscia sottilissima di rosa correva parallela all’orizzonte. Sopra, il cielo variava dal celeste al blu compatto. […] Sul mare era posata una nuvola circolare, spessa, immobile, straordinariamente liscia. Un disco volante gassoso che si restringeva appena verso il basso, come seguendo una spirale. Sono rientrato in stanza per prendere il telefono. Ho fotografato la nuvola e mandato l’immagine […] con una didascalia minima: Guadalupa.

Ah, è questo l’uomo che, ripresosi dal raptus, si sente smarrito, non si riconosce, ha… vergogna?
Bah, andiamo avanti. Nel corso della romanzo, capita che Paolo si ritrovi nudo o seminudo in compagnia di alcuni suoi amici. Lettori, ragionate con me. Se poi scopriamo che Paolo si vergogna per la fellatio, può darsi che in realtà sia l’idea (fondata o meno) di essere omosessuale a disgustarlo, o a spaventarlo. Se così fosse, il nostro protagonista si impegnerebbe per evitare qualsiasi occasione di fraintendimento, evitando con cura ogni minimo atteggiamento “da checca”. E, qualora non potesse sottrarsi a certe situazioni “intime” con altri uomini, dovrebbe ragionevolmente rivelarsi molto teso, attento in maniera maniacale a ogni più piccolo segnale inviato dal proprio corpo.
Tenendo presente quel che ho appena tratteggiato, ecco un brano in cui Paolo, al mare, fa un bagno in compagnia di un suo amico di nome Karol:

In spiaggia abbiamo indossato le mute con fatica, dovevamo apparire inesperti e goffi, ma non c’era nessuno a guardarci.
[…].
Per un po’ siamo rimasti sdraiati, la muta toglieva quasi tutta la fatica del galleggiamento. Osservavo l’addome di Karol coperto dal neoprene affiorare come il dorso di un mammifero marino. È bello, no? Mi ha chiesto. Bello, sì. Poi ha detto: Ho una domanda da farti, ma potrebbe sembrarti un po’ originale.
Vediamo se lo è davvero.
Volevo chiederti com’è la vita di coppia.
Gli ho buttato dell’acqua in faccia e lui si è raddrizzato, strizzando gli occhi.
Non c’era bisogno di venire fino a qui, ho detto. Puoi rassicurare Lorenza
[…].
In realtà Lorenza non c’entra. Te lo chiedevo per me.
Mi sono sforzato di restare impassibile mentre cercavo la domanda più appropriata da rivolgergli. Alla fine ho deciso che era la seguente: Uomo o donna?
Una ragazza. […]
Abbiamo attraversato la spiaggia con le mute grondanti. Le abbiamo sfilate accanto alla macchina, ci siamo asciugati alla meglio, scossi dai brividi, e ci siamo rivestiti dandoci le spalle. Ho intravisto solo per un attimo il suo corpo chiarissimo, quasi glabro, e mi è sembrato indifeso nonostante la muscolatura perfetta.

Poi ci siamo seduti su un muretto a bere il caffè dal thermos.

Ora, Karol è… ma dai, ma come si fa… è un prete. E che si sta innamorando di una donna, oltretutto… meh! Ad ogni modo, voglio sottolineare che dal brano non trapela alcun turbamento da parte di Paolo, benché si trovi vicino a un uomo seminudo. Non sembra assorto nella visione, non sembra eccitato, non sembra spaventato, non sembra stare sulle spine. Anzi, pare che il nostro sia al più pigramente divertito, sapete, di quel divertimento giocoso e scoordinato tipico degli adolescenti che hanno respirato fumo passivo di ganja: infatti troviamo che Paolo fa paragoni stupidi, come quel “dorso di un mammifero marino”. Quando poi Karol decide di portare la conversazione sulla vita di coppia, Paolo risponde con prontezza: è ovvio pensare che non si sia distratto nemmeno un secondo, e che i suoi pensieri siano perfettamente lucidi. Insomma, chi si sente a disagio a proposito di un certo tema ha forse la battuta pronta? Davvero?

Be’, volete farmi notare che qualche indizio c’è, a proposito delle turbe sessuali di Paolo. Appunto, quelle osservazioni sul “corpo chiarissimo” e sulla “muscolatura perfetta” di Karol. Sì, ma sono io a farvi ora notare che se non sapeste già che Paolo ha “assaggiato il salame”, per così dire, prendereste le sue parole su Karol come irrilevanti ed estemporanei commenti. Null’altro nel testo, infatti, sottolinea un particolare stato d’animo del nostro protagonista: la situazione non è diversa da quando al mare vi capita di pensare “quello fa palestra, eh?”, o “ guarda quella che gambe!”. Che cosa c’è da dedurre, che siete interessati sessualmente, che siete sotto sotto dei gay, delle lesbiche, dei non so cosa? Solo considerando che avete pensato simili osservazioni, non si può dedurre niente, magari avete una punta di invidia, magari prendete a modello quei soggetti, o magari notate semplicemente che… che sono fatti nel modo in cui sono fatti. Ecco, prendete il testo nella sua purezza: dello stato d’animo di Paolo possiamo affermare qualcosa di certo?
L’unico vero indizio è che, immediatamente dopo averci informato sul corpo di Karol, il nostro protagonista… continua a raccontare com’è andata la giornata, concentrandosi su un particolare neutro e secondario, ossia il caffè. Pare un racconto tranquillo, no? E allora, se proprio vogliamo trarre una conclusione a proposito di Paolo, possiamo giudicarlo… uh… tranquillo. Sì, non turbato, dai.

Ho capito, proseguiamo. Altri bagni, altri uomini: stavolta Paolo e consorte si trovano in Sardegna, a trascorrere una vacanza insieme alla famiglia di un vecchio amico. Quest’ultimo è un bel tipo, lettori: è fisico, pure lui. Un fisico che ha lavorato a lungo in Francia. Già. E si chiama… Novelli. Il fisico Novelli, che ha lavorato a lungo in Francia. Eccallà, e chi cazzarola potrà mai essere questo qui?! Cioè, si tratta comunque di un personaggio inventato, ma ditemi voi se non viene subito alla mente il buon Rovelli! Dove siamo finiti, a Paperopoli, quel posto in cui ci sono cloni di personaggi famosi, che hanno però nomi storpiati, come Paperacciuolo o Gerri Biscotti?! Oh, davvero un’ottima mossa, Giordano: ogni volta che compare Novelli, a me viene in mente il faccione pacioccone sale e pepe del nostro amatissimo saggista. Il piccolo problema è che mi ricordo anche di quella sua mania di sniffare i libri, e così non riesco proprio a considerare Novelli un personaggio serio e rispettabile! Dannate autofiction, vi odio!
Uff, mi ricompongo. Allora, in Sardegna… uh, uh… Paolo fa un bagno notturno in compagnia di Novelli. Solo loro due, mogli e figli (di Novelli) dormono. Eggià, lo so, sembra un po’ l’inizio di un pornazzo gay, e infatti…

Ahhh, che cazzo sto leggendo?! Paolo e Novelli si limitato a parlare amabilmente delle loro famiglie, come due boomer qualunque al baretto del paese! E, neanche a dirlo, ancora una volta il nostro protagonista è perfettamente calmo e a proprio agio, al pari di un tricheco che si gode la banchisa sgombra di qualsivoglia orso (mi sono lasciata ispirare, è vero):

Lui e io abbiamo preso l’abitudine di fare un ultimo bagno notturno, quando tutti erano già a dormire. A confronto con l’aria rinfrescata, l’acqua sembrava tiepida e si resisteva in ammollo a lungo. In quella calma abbiamo avuto alcune delle nostre conversazioni più concentrate. […]
Credo che Carolina [moglie di Novelli] sia arrivata al capolinea con Parigi, ha detto Novelli un po’ incupito. Se la prende tanto coi francesi, ma la verità è che non ha trovato nulla da fare lì. Ormai si è fissata.

In un’altra occasione, addirittura, Paolo e Novelli fanno il bagno completamente nudi, però insieme a Carolina, e… e il nostro eroe descrive così l’equivoca e pruriginosa vicenda:

Novelli si stava già incamminando verso la moglie, sentivo lo sciabordio dei passi e ho intravisto le sue natiche bianche come palloncini sospesi.

Ehi, ma Paolo riesce a pensare ad altro che non sia una similitudine puerile, quando è in compagnia di un uomo? Chissà che cosa ha realmente pensato durante il blowjob, “ehi, questa roba sa di Aia pollo e tacchino!”, o qualcosa del genere. Sul serio, le descrizioni che Paolo fa degli uomini con cui trascorre il suo tempo non tradiscono né desiderio né repulsione: Tasmania ci parla di un protagonista che semplicemente annota quanto gli succede, aggiungendo innocenti sfumature giocose. Paolo è un uomo dall’invidiabile distacco, sembra quasi un alieno asessuato che prova una serafica curiosità a proposito delle strane forme di vita che ha incontrato.
Ebbene, per concludere la lunga disamina sull’orientamento sessuale del nostro eroe, affermo che Giordano non si serve affatto della fellatio per pungolarci, per far nascere in noi un senso di sfida, o una voglia di riflessione; e neppure se ne serve per poter poi rivelare a poco a poco la psicologia di Paolo. Insomma, “è successo ’sto fatto” e basta, l’avventura a Guadalupa è soltanto un episodio appeso, e, se fosse rimosso dalla trama, non ce ne accorgeremmo nemmeno.

La paternità (di un bel romanzo) non faceva per lui

Pazienza, che ci possiamo fare? Muoviamoci, via. Consideriamo adesso un’altra situazione, che dimostra… anzi, no… che dovrebbe dimostrare un ulteriore istinto emotivo di Paolo. A un certo punto della storia, il nostro e Lorenza hanno questa discussione:

[Lorenza] Ci pensava da un po’. […] [A]vremmo preso un appartamento più piccolo, magari con uno spazio fuori, e io avrei avuto finalmente uno studio.
Insomma la risolviamo così, ho detto, con l’immobiliare.
Quell’aggressività l’ha presa alla sprovvista e in un certo senso ha preso alla sprovvista anche me.
Risolviamo cosa?
Il terrazzo al posto di un figlio, tutto risolto, geniale. Va bene, compriamoci una casa nuova.
Eravamo molto vicini fino a un attimo prima, ma dopo quella frase lei si è slacciata dall’intreccio che formavamo.

Be’, sfido a giudicare irrilevante una scena così. Prima della suddetta discussione, Paolo si mostrava praticamente rassegnato all’idea di non avere figli; bum! improvvisamente, ecco che esplode in una frustrazione aggressiva. Da notare: di nuovo Paolo si sente colto di sorpresa, non si conosce davvero, si ritrova ad essere uno dei tanti fenomeni enigmatici del mondo, di quelli che sfuggono di quando in quando alle leggi meccaniche da noi supposte definitivamente valide.
Nel brano, con altre parole, emerge un impulso primordiale che, ragionevolmente, il nostro protagonista ha tentato (in maniera conscia o inconscia, non si sa) di reprimere per molto tempo. È la manifestazione di un conflitto, no? Una lotta fra la parte razionale di Paolo, che in ogni caso ama Lorenza e non vuole abbandonarla, e quella irrazionale, il bisogno animalesco di lasciare una discendenza. Va da sé, Tasmania ci introduce a un dibattito sempre avvincente: l’uomo è un animale non diverso dalle lucertole e dai vermi, oppure con il raziocinio può elevarsi, può in effetti essere “altro”?
Da un lato, il dilemma ci tenta direttamente, e offriamo le nostre risposte. Dall’altro lato, ci tenta in maniera obliqua, perché instilla in noi la curiosità di capire che cosa Giordano pensa a tal proposito. L’autore crede che l’uomo possa vincere i propri impulsi? Crede che ne resti sempre e comunque schiavo? Come si tradurranno nella narrazione simili posizioni filosofiche? Paolo riuscirà a scacciare definitivamente l’idea di avere un figlio, o comincerà a comportarsi da drogato, mandando in malora la sua vita, guidato da un desiderio ultimo e bruciante?

Cazz ne so io, scusate?!
Come quello omoerotico, anche il tema della paternità viene gettato subito nel gabinetto. Vi giuro, Giordano lo introduce, e poi se ne sbatte per tutto il prosieguo romanzo. Toh, ma guarda un po’! Ancora una volta, quando è prossima la fine di Tasmania, il nostro autore si ricorda che forse doveva riprendere il discorso, ed ecco dunque che possiamo gratificarci con le seguenti parole:

All’aeroporto di Orly, dopo aver lasciato decollare l’aereo, avevo preso un’auto a noleggio da Thrifty, […] avevo collegato il telefono e ascoltato Skeleton Tree nel tragitto in autostrada. Nick Cave aveva pubblicato quel disco dalla copertina nera dopo la morte del figlio Arthur, precipitato da una scogliera bianco gesso a picco sulla Manica. […] Si trattava di una specie di cura. Se nel generare un figlio era implicita la possibilità di una separazione così traumatica, allora la paternità non faceva davvero per me. Non ero stato privato di un’occasione: ero stato risparmiato.

Grazie al cielo, gli scrittori hanno un amico che c’è sempre quando hanno bisogno. Ma sì, è lui, il deus ex machina! Eddai, il riferimento a Nick Cave è proprio un escamotage, inserito giusto per chiudere in qualche modo la parentesi aperta sulla paternità: davvero, dobbiamo farci andar bene che di punto in bianco, ascoltando qualche canzone mentre guida, Paolo si ricordi di avere un certo tema su cui riflettere? Sì? Nonostante non l’abbia fatto per tutto il restante arco temporale della narrazione? Oh, e poi è fenomenale, bastano due note per arrivare a una conclusione metafisica, spirituale. Intendiamoci, può anche essere raccontata così, la risposta arriva dopo uno stimolo che giudichiamo insignificante; ma l’autore deve allora premurarsi di farci capire che il protagonista ha rimuginato (pure inconsapevolmente) sul suo dilemma per molto, molto tempo! Eh già, perché la risoluzione è fulminea solo nel suo apparire: la canzone fa sì che divenga conscia una decisione, o una convinzione, che la psiche di Paolo ha composto, portato in grembo lungo una sorta di “periodo di gestazione”. Peccato che, ehi, non ci sia traccia di tale gestazione, nemmeno un’allusione; e noi che possiamo fare? Niente, prendiamo atto del deus ex machina e ci lasciamo abbracciare dal sospetto che Giordano non sapesse bene cosa dire, a proposito della mancata paternità.

Oh be’, almeno è un discorso che è stato portato a termine, è qualcosa da non sottovalutare. Alla fine del romanzo, Paolo domina l’istinto di riproduzione, e la morale è che la ragione, il self control, l’umanità che ci rende umani, o che so io, può portarci davvero a una posizione che non sia solo passiva, nei confronti della natura. Ce la raccontiamo così, via.
Peccato che sia un nostro racconto, totalmente slegato da Tasmania. Giordano ha concluso un tema, ho affermato. No, il nostro autore non arriva da nessuna parte. Infatti, qualche pagina dopo il viaggetto in compagnia di Nick Cave, Paolo pensa al rapporto stretto con Eugenio, il figlio che Lorenza ha avuto da una precedente relazione (non ve ne avevo parlato? Pazienza, adesso lo sapete), e ci racconta che…

Stavo pensando a quella volta in treno e non solo: anche a tutti i piatti di pasta che avevo cucinato per lui e alle attese in macchina fuori dalle feste e ai moduli compilati e alle raccomandazioni superflue e al vaporizzatore cangiante che da bambino teneva nell’angolo della stanza e ora non sapevo che fine avesse fatto. E stavo pensando che tutte quelle cose […] forse erano state una paternità.

Ma porca p*ttana, questa riflessione di Paolo non c’azzecca nulla con quella ispiratagli da Nick Cave!
Paolo sembrava aver preso sul serio l’idea che non avere figli sia una fortuna, che non avere un marmocchio sia l’unico mezzo che abbiamo per difenderci dalla devastazione del lutto (e ciò, dopotutto, è un insight nemmeno così male, è il contrario di quel che si pensa normalmente, che l’unico modo per vincere la morte sia lasciare degli eredi).
Ecco, e allora mi spiegate voi perché in seguito il nostro Paolo tenta ancora di consolarsi, stabilendo che tutto sommato lui è già un padre? Non dovrebbe ricordarsi che, amando Eugenio come un figlio, si espone al rischio di soffrirne per la possibilità stessa che Eugenio muoia?

Ora, i più ottimisti di voi stanno fantasticando su un Giordano che voleva trasmettere questo concetto: trascorriamo la nostra esistenza ingannandoci di continuo, senza cedere alla nostra parte irrazionale e al contempo senza vincerla del tutto. Non arriviamo mai a un punto, viviamo una specie di fatica di Sisifo.
D’accordo, interpretazione dignitosa. Io però ho delle riserve, che faccio mie dopo aver meditato un po’ di più sulla forma di Tasmania. Già, la forma… quando ci si fa caso, è di solito analizzata a parte, quasi avessimo difficoltà a comprendere che essa stessa ha un potere semantico. Rileggete il brano in cui Paolo si persuade di essere a suo modo un padre. Come vi sembra il tono? Le frasi sono ampie e lunghe, interrotte raramente dalla punteggiatura. Il discorso disteso, fluido e lineare, perciò suggerisce un preciso stato emotivo: sollievo, beatitudine. Sembra insomma che il nostro protagonista si sia finalmente liberato di un peso, no? Ditemi se vi immaginate che in lui si stiano dibattendo la parte razionale e quella istintiva. Nah, calma, nirvana.
Sarebbe stato diverso se Paolo avesse espresso lo stesso concetto in una forma più nervosa, ad esempio in questo modo:

Dopotutto ero stato un padre, per Eugenio. L’ho aiutato con i compiti, gli ho preparato da mangiare, sono pure andato a prenderlo alle feste. Non sono queste le cose che fanno i padri? Perché allora non avrei potuto considerarmi un padre anch’io? Sì, io sono un padre.

Notate la differenza? La mia riscrittura contiene frasi brevi e spezzate, segno che il protagonista sta ragionando “a scatti”, come accade appunto quando si è agitati, tormentati. Oltretutto, Paolo fa a sé stesso delle domande, come se ci fossero più personalità in lui, intente a battibeccare. E poi, abbondano le ripetizioni, a indicare che Paolo sta davvero cercando di convincersi di qualcosa, ripetendoselo a mo’ di mantra.
Ecco, se avessimo incontrato un brano simile in Tasmania, sarei stata d’accordo con voi: effettivamente Giordano voleva comunicarci che la lotta fra raziocinio e istinto è logorante e probabilmente infinita. Ma, ahimè, siamo costretti a constatare quel che c’è effettivamente nel romanzo. E, dunque, facciamo di questo giudizio il nostro mantra: Giordano non sapeva bene che cosa dire… eh, eh…

“Che cazzo c’entra?”

Ancora un’altra prova, perché a noi piacciono le prove. A un certo punto, Paolo è in una macchina, insieme a un’amica giornalista, Curzia, la quale balla sulle note di una canzone araba:

Curzia muoveva le mani in aria, sinuosamente. Ho detto: Non ti sono bastati gli attentati? Hai ancora voglia di musica araba? Non sapevo bene come mi uscisse quel commento. Fermandosi di colpo, lei ha risposto: Ma che cazzo c’entra?

“[C]he cazzo c’entra?” lo pensate pure voi? Be’, be’, secondo me è di nuovo un episodio potenzialmente importante. Dovete infatti considerare che il cuore del romanzo è ambientato negli anni fra il 2015 e il 2021, e ricordiamo bene che il periodo è stato segnato da molti attentati, perlopiù rivendicati dalla CI… ehm, dall’ISIS.
Ora, sappiamo tutti, dopo ogni attentato c’è un preciso rituale da seguire: conta dei morti, salutavano sempre, e poi ci vuole qualcuno (possibilmente un giornalista) che metta un freno, che ricordi che i musulmani non sono tutti uguali, che non tutti vogliono farsi esplodere, che quelli erano pazzi, che si sono radicalizzati, e che cagarsi addosso è sbagliato perché “non cambieranno mai il nostro stile di vita”.
Tutto giusto eh, per carità (di sicuro, e lo dico senza nessuna ironia, non tutti i musulmani sono terroristi, e non tutti i terroristi sono musulmani, anzi), però si tratta di “rassicurazioni” che lasciano un po’ il tempo che trovano, perché cozzano contro le nostre disposizioni animali, primordiali: già per natura siamo diffidenti nei confronti di chi “non è esattamente come noi”, figuriamoci poi quando “uno che non è esattamente come noi” ci attacca!
Ebbene, negli anni di Tasmania, non era così semplice affidarsi alla logica e seguire le rassicurazioni “politically correct”: l’animale che c’è in noi ci comandava di lasciarci andare alle risposte pronte che milioni di anni di evoluzione hanno gentilmente incorporato nel nostro design. Pertanto, il fatto che Paolo a un certo punto sbotti con Curzia perché lei, apparentemente, è uno strano animale che apprezza il “nemico”, è senza dubbio un’occasione carica di potenziale. Per essere esplicita, a me pare proprio l’occasione ideale per imbastire un discorso magari politicamente scorretto, magari scomodo, magari “di pancia”, ma di sicuro autentico e non scontato.

Sì, dev’essere proprio come ho detto: ed è per questo che, pure dell’apparente razzismo di Paolo, non leggeremo più niente. Anzi, leggeremo l’esatto opposto di quel che avremmo dovuto leggere.
Ancora ci tocca aspettare la fine del romanzo, per essere investiti dalla (non) bravura e dalla (non) sensibilità artistica e filosofica di Giordano. Nell’ultimo capitolo di Tasmania, ambientato nell’agosto 2022 (ossia nel pieno della quinta ondata della pandemia), Paolo fa un viaggio in Giappone. Sapete, per quella storia del libro su Hiroshima, ne ho accennato al principio della recensione. Ehi, il COVID-19 l’hanno sparso quei musi gialli eh, quei cinesi del cacchio, che poi sono la stessa cosa dei giapponesi, dico bene? No, per voi dico male, e giustamente, ma per uno come Paolo… be’, dovrei dire bene, considerando il suo exploit a proposito degli “arabi”. Ecco, appunto: anziché essere paranoico e manifestare insofferenza nei confronti di quelli con gli occhi a mandorla, Paolo apprezza affascinato l’eleganza delle giovani giapponesi, come un qualsiasi sfigatissimo e stereotipatissimo fanboy denoartri:

Le ragazze sono munite di ventilatori portatili che tengono con eleganza davanti al viso oppure al collo.

Ah, questi giappi, impossibile essere in collera con loro. Da manuale, proprio. Tra l’altro, ora che ci penso, pure Abatantuono anni fa si presentava sempre a Quelli che il calcio con un ventilatore portatile: che eleganza, porcaccia l’oca!

Oh, insomma, non ce la faccio più: sembra sempre che Giordano stia per iniziare un profondo discorso introspettivo… e poi molla tutto, passa ad altro. Si è quasi tentati di fare un paragone con quei cartoni animati sexy che promettono di far vedere le grazie esplosive della protagonista: giunti all’ultima puntata, ciccia! E non la ciccia che voi uomini avreste voluto, nevvero?
Ora, nel caso del nostro autore, la sua impostazione narrativa, cioè il suo… non sapere… che cosa… dire… può aver avuto solo due cause: o Giordano non ha avuto il coraggio di andare fino in fondo con certe questioni spinose, oppure non ha saputo riconoscere i potenziali spunti di riflessione, i temi che meritavano di essere approfonditi. Ad ogni modo, si è perso a raccontare cretinate di nessuna rilevanza.

E si mise in bocca le noccioline

Non vi lascio col dubbio, lettori. Riflettendo a fondo, credo di avere una risposta. Giordano non è un tipo pauroso. Dalla prima all’ultima pagina di Tasmania, gli episodi e i dettagli rimangono appesi, sono delle specie di monadi indipendenti fra loro, nondimeno tale struttura è perfettamente funzionale a riempire lo spazio cartaceo. Il romanzo risulta in definitiva una specie di lista, però solo se lo consideriamo dal punto di vista artistico, altrimenti, dobbiamo ammettere che soddisfa appieno l’obiettivo di raggiungere un numero prestabilito di cartelle. E se l’opera fosse nata per quello, che c’è da farla lunga? Sì, sì, d’accordo, i riscontri testuali.

Nel seguente stralcio, Paolo incontra per la prima volta Novelli:

Ciò che non mi aspettavo era di essere convocato da Novelli quella sera stessa, in una birreria di rue Monge. […]
Non l’ho aspettata per ordinare, mi ha detto Novelli, senza l’aria di sentirsi minimamente colpevole. Avevo calcolato che ci avrebbe messo meno tempo. […]
Ha seguito il mio sguardo verso il suo piatto invece, verso la montagna di roba che c’era dentro.
Notevole, eh? Ci vengo apposta. Anche se non si dovrebbero mangiare hamburger di queste dimensioni. Per le emissioni di CO2 ovviamente. Ma soprattutto per le arterie. Solo che questi sono davvero irresistibili.

Ora lettori, vi domando, che idea vi fate sul personaggio di Novelli, basandovi soltanto su ciò che avete appena letto? Be’, il passo che ho riportato ci suggerisce che Novelli è un tipo che non sa aspettare. Si gode il momento (e il suo hamburger) senza pensare troppo alle conseguenze. Del clima o del suo colesterolo gli frega meno di niente.
Eppure, subito dopo troviamo che…

Si è succhiato della maionese dall’indice prima di prendere il telefono e cercare un’immagine. […]
Ha ruotato l’hamburger, aggredendolo ancora sul bordo. Forse voleva lasciare la parte centrale, più succosa, per la fine.

… mangia l’hamburger partendo dai bordi e tenendosi la parte più gustosa per ultima. Insomma, improvvisamente irrompe un dettaglio che tradisce un’intima attitudine ansiosa, incline a rimandare un immediato godimento. Perché? Perché forse sotto sotto il nostro Novelli è un neuroide un po’ depresso, e non crede che un tale piacere (per quanto insignificante) sia reale, o che sia alla sua portata, o che in fondo lo potrà sperimentare ancora, quando vorrà. Magari è l’ultima volta volta che gli è concesso gustare un hamburger: meglio allora elevare al massimo il piacere della carne succosa, lasciando il boccone per ultimo, conferendogli una sorta di posto d’onore. Bello, però… è un dettaglio che contraddice la prima nostra impressione. Ma perché Giordano vorrebbe farci cadere in una simile contraddizione? Lo spaccone Novelli è una posa, in realtà il fisico è un tipo che… naaaah!
Ovviamente, si tratta di una leggerezza, di un errore.
Nel corso della storia, infatti, Novelli è praticamente sempre uno spaccone “carefree”, e non si fa problemi a mostrarsi tale nemmeno di fronte a un vasto pubblico. Per giunta, durante un aperitivo che Giordano ci racconta… eh, indovinate… verso la fine di Tasmania… Novelli ha un particolare incontro intimo con noccioline e olive:

Il cameriere ha posato i bicchieri di vino insieme a due coppette metalliche, una di olive condite e una di noccioline. Novelli ha ignorato quella con le olive, ma ha tirato a sé l’altra, cominciando ad attingerne delle piccole manciate frenetiche. […] Si è appoggiato allo schienale, scosso dalla sua stessa spiegazione. Ha ricacciato le dita nella ciotola delle noccioline e quando l’ha scoperta vuota l’ha messa da parte per ripiegare sulle olive.

Visto? Stavolta Novelli mangia prima ciò che gli piace di più, e solo quando ha terminato le scorte si accontenta. Per carità, coerente con la sua propensione a godersi l’attimo senza rimuginare troppo, con la sua personalità da “arrivo io e non ce n’è più per nessuno”. Eh, ma allora a che cosa è servito riportare quel particolare dell’hamburger mangiato a partire dai bordi? Non crea manco un po’ di confusione, perché Novelli irrompe sulla scena in un modo, e in nessun altro episodio esce dal suo personaggio. Insomma, non si può sostenere che quello dell’hamburger sia un dettaglio con cui Giordano tenta di depistarci. È semplicemente una nota di colore irrimediabilmente stonata.
Altra cacchiolata, e in questo caso ritorniamo sul luogo del misfatto, dove tutto è cominciato, a Guadalupa. Paolo rievoca l’incredibile avventura…

Verso metà settimana ci siamo iscritti a una gita per visitare l’entroterra. Non ci andava veramente, ma era un modo di alleviare il senso di colpa per non esserci quasi mossi dalla spiaggia dell’hotel.
Siamo partiti il mattino alle nove su un van, insieme a una coppia di olandesi. Abbiamo seguito un sentiero dolce, fatto di saliscendi, all’interno della foresta tropicale, circondati dai versi degli uccelli. […] Mi sono appassionato alla spiegazione della guida su un albero nativo dell’Africa occidentale che stava rapidamente sostituendo la vegetazione autoctona. Dichrostachys cinerea era il nome scientifico, ma in Africa lo chiamavano «albero di Natale». […] Devo aver esagerato con le domande perché gli olandesi hanno cominciato a dare segni di impazienza e Lorenza ha sospirato come faceva a volte quando mi comportavo da primo della classe.
Siamo tornati sulla costa. Il pranzo era allestito in una zona d’ombra fra le mangrovie.

Ah, siamo a Guadalupa? Sì? Meno male che vi ho avvertiti. Perché credo che, senza indicazioni, vi sarebbe difficile capire dove cavolo si è ficcato Paolo: potrebbe essere in un qualunque luogo tropicale, potrebbe fare il vacanziero in Messico, nelle propaggini più meridionali della Florida, a Cuba, addirittura nel sudest asiatico. Invece no, si trova in Francia! Be’, che c’è? Paolo si trova in un dipartimento francese, eh…
Sottigliezze amministrative a parte, soffermatevi su quel “circondati dai versi degli uccelli”: ebbene, quali uccelli? Che tipo di versi? Come cantano gli uccelli tropicali? Fra loro, c’è qualcuno che emette il verso sgraziato della cornacchia? O quello quasi sghignazzante della gazza? O quello lungo e cadenzato della tortora? Mi dite come faccio io, stracciona qualunque che non prende un volo a settimana come Paolo, a vivere le sue stesse esperienze? Oh, Sei Shōnagon, mi manchi!

E noi lasciamo stare le scarse capacità descrittive di Giordano. In fondo, è proprio quel passo in sé di Tasmania che non funziona. Un simile resoconto di viaggio può essere emozionante giusto se a farlo è un bambino ai suoi nonni. Cioè, è emozionante per il bambino, per i nonni al più è un aiuto ad accettare l’imminente momento del trapasso. È una palla mostruosa, in pratica. Ma a noi che ci frega di che cosa ha visto Paolo, e del luogo in cui ha pranzato? Sono informazioni del tutto ridondanti, prive di un ruolo all’interno della trama. Magari avremmo preferito che in questa parte del romanzo emergessero i segnali di una crisi sostanziale fra Paolo e Lorenza. Che importa sapere che i due fanno una gita nell’entroterra perché stanchi di stare in spiaggia? Meglio sarebbe stato sapere che Paolo e consorte desideravano aggregarsi a una comitiva, perché stanchi di trascorrere il tempo in reciproca compagnia… o sbaglio?
Lorenza sbuffa quando Paolo fa il nerd con la guida turistica. Embè? Tanto lo fa di tanto in tanto, precisa Giordano, che notizia è? Non si poteva leggere invece che in passato Lorenza si mostrava orgogliosa dell’atteggiamento intellettuale del marito? Così sarebbe stato chiaro che il matrimonio… be’, si è evoluto, anzi, si è alquanto deteriorato. No, scusate, così sarebbe stato scrivere benino un romanzo quasi decente: inaccettabile.

L’eventodelcacchiochenonserveaunamazza!

Inaccettabile davvero, se consideriamo l’apoteosi dell’inutilità di Tasmania. Apoteosi che la gagliarda autofiction raggiunge… eccallà, nei dintorni della fine. È sempre quel viaggio in Giappone. Ve l’ho detto, non si tratta di una vacanzina, è un business trip: Paolone deve intervistare qualche hibakusha, i sopravvissuti ai bombardamenti atomici. Uhm, il nostro eroe comincia a entrare nel mood assistendo a una cerimonia commemorativa in onore delle vittime di Hiroshima, e poi a un rituale con lanterne di carta rilasciate sull’acqua. A un certo punto, si accorge di una figura singolare

Via via che la luce cala, vengono rilasciate in acqua le prime lanterne di carta, dalle barche ormeggiate e dalla scalinata. […] Tutti quanti scattiamo in effetti, con i telefoni sollevati in aria per migliorare la prospettiva. Mando le mie immagini più decenti sul gruppo che ho con Lorenza ed Eugenio. Nel frattempo la polizia ha accerchiato un uomo che urla a squarciagola e si dispera, inginocchiato sull’asfalto.
Arriviamo a Fukuoka con l’ultimo treno. È molto tardi e ho l’impressione di aver sudato ininterrottamente, così tanto che mi sembra una forma di purificazione, ma Giulio vuole a ogni costo provare lo street-food della città.

Ohi, non ho tagliato, non ho tagliato, cazzo! Lettori, vi assicuro che riderei, ma non posso, perché evidentemente sto partecipando al funerale dello spirito di osservazione di Giordano, e non è bello ridere quando c’è un cadavere.
Eddai, non so se è stato ucciso o se si è suicidato, però lo spirito di osservazione di Giordano è di sicuro passato a miglior vita, altrimenti mi spiegate voi come è possibile che il nostro superautore abbia completamente trascurato un uomo che è circondato dalla polizia perché sta manifestando la propria disperazione?
Secondo voi, non è opportuno capire perché l’uomo si dispera? È uno dei sopravvissuti alla bomba atomica? Be’, ma allora ha una storia molto interessante da raccontare… e conosco qualcuno che sarebbe molto interessato ad ascoltarla. Parlo di me, ovviamente, a Paolo fottesega, lui si preoccupa del sudore e di dover andare a “street-food”.
E se il tizio misterioso non fosse anziano? Fico, ancor più intrigante: che cosa spinge un uomo a sentirsi tanto straziato per un evento da lui mai vissuto? Che cosa percepisce, o che immagina?
Ah, quasi dimenticavo: perché interviene la polizia? L’uomo è già noto alle forze dell’ordine, o la sua unica colpa è proprio quella di lasciarsi andare così platealmente al dolore? E se fosse quest’ultima la ragione… non potrebbe essere anche questo uno spunto interessante? Chi ha vissuto la tragedia della bomba atomica come ha potuto esprimere la propria sofferenza in una società che fa di tutto per reprimerla? E chi la reprime? I giapponesi stessi, o la lunga mano dello Zio Sam?
Basta domande, anche perché non so indicarvi un libro che possa dare qualche risposta. C’è un giapponese che grida e la polizia lo circonda: non è nemmeno l’attacco di una barzelletta, è solo un trade mark di Giordano, l’eventodelcacchiochenonserveaunamazza™!

Lettori, qui concludo. Concludo l’ennesima recensione dell’ennesima autofiction. Con l’ennesimo giudizio: questo genere fa cagare. O, meglio, forse non è tanto il genere, forse sono gli autori. In Tasmania, l’abbiamo visto e rivisto, c’erano degli spunti per scrivere una grande storia: erano lì, a portata di mano… niente, Giordano ci è passato a fianco, e probabilmente s’è detto fra sé e sé che sarebbe ora il governo facesse qualcosa per evitare che i marciapiedi letterari si riempiano di occasioni narrative homeless che puzzano di immondizia.
Siamo seri, se si ha l’intento di scrivere un romanzo che meriti, che lasci un segno anche piccolo nella nostra letteratura, non basta tirare in ballo le ultime del momento, come l’omosessualità, l’attenzione per il clima, la crisi della mascolinità e delle relazioni famigliari. Se l’autore non sa farci sbirciare (perché probabilmente non sa farlo lui stesso) dietro quel velo che protegge le “verità sconvolgenti”, qualunque cosa scriva sarà una mezza porcata, al massimo. Al contrario, chi non difetta della giusta sensibilità e della giusta arguzia, potrà anche elaborare un romanzo su rane e topi, e… e il suo lavoro resterà, nella storia della letteratura e nei cuori di chi legge.
Ehi, che ci possiamo fare? Abbiamo studiato Tasmania, l’opera di un fisico che fa il giornalista, di uno che ha lavorato per conoscere la natura e per conoscere la verità! Niente male, niente male davvero, ecco. È stata una bella prova. E a questo punto non sono sicura che me ne servano altre, per consolidare la mia idea sulle proposte letterarie che le suddette categorie di geniacci ci propongono. Nah, che dico, di prove ne servono sempre. E fino alla prossima che analizzeremo insieme, vi accompagni il mio augurio di buona lettura!

Sara

Ciao! Sono la fondatrice del blog letterario "Il pesciolino d'argento", amo profondamente i libri, l'arte e la cultura in generale.

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