Ad Auschwitz c’era un’orchestra – Fania Fénelon
Sento una gran pena per quelle donne che nemmeno sollevano il capo, che sfilano amorfe, incapaci d’amore come di odio, che se ne vanno così verso la morte. Ma sono quelle che sorridono che mi fanno soffrire di più. La loro solidarietà mi riesce penosa: è una complicità che non merito.
Terribili privilegi
Ad Auschwitz c’era un’orchestra è una testimonianza della musicista Fania Goldstein, che assunse lo pseudonimo di Fania Fénelon dopo la guerra.
Fania Goldstein era una cantante e pianista, nata a Parigi da padre ebreo e madre francese. Nel 1940 entrò a far parte della Resistenza francese, fino a quando fu catturata e deportata nel ’44 ad Auschwitz.
Fania, rispetto a tantissime altre deportate, fu una “privilegiata”: venne catturata tardi, giusto un anno prima della fine della guerra, e per di più entrò a far parte dell’orchestra allestita dalle SS ad Auschwitz.
Mozart all’inferno
Ebbene sì: ad Auschwitz vi era un’orchestra femminile, voluta dalle SS per rilassarsi e per scandire il ritmo di marcia e lavoro nel campo.
Le musiciste erano deportate (ebree di varie nazionalità e prigioniere di guerra ariane) che, in virtù del loro compito, erano nutrite meglio (ma non poi così tanto) rispetto alle altre nel campo, erano esentate dai lavori pesanti, avevano vestiti più caldi e meno logori, la possibilità di lavarsi ogni giorno, e perfino di fare sporadiche scampagnate. L’orchestra femminile era in breve un piccolo angolo di paradiso nel più profondo inferno.
Più tardi, avrei capito che questo mondo è una sorta di sandwich: una fetta di musica tra due fette di miseria.
La letteratura e la cinematografia sull’Olocausto ci hanno abituati, negli anni, a immagini terribili, privazioni disumane e sofferenze atroci, e per questo Ad Auschwitz c’era un’orchestra può apparire come una testimonianza meno tragica e toccante di tante altre che ci sono pervenute da quegli anni.
Prima il corpo, poi la mente
In realtà ciò che rende questo racconto interessante e speciale nel panorama letterario è il tipo di sofferenza raccontata, meno fisica (sebbene anche le musiciste soffrissero di fame, tifo e attacchi di dissenteria) e più psicologica. La consapevolezza di godere di determinati privilegi investì le giovani musiciste di atroci sensi di colpa, acuiti quando erano costrette ad esibirsi davanti ad altre deportate, che da lì a poco sarebbero state condotte alla camera a gas.
Non solo: la controversa sensazione di gratitudine nei confronti di chi faceva sì che l’orchestra esistesse, aggiungeva ai sensi di colpa un profondo senso di vergogna.
Fania e le sue compagne suonavano, in cambio della propria sopravvivenza, per il piacere di personaggi come Mengele e Kramer, dei quali certo non ignoravano le atrocità commesse. L’istinto di sopravvivenza, che le spingeva a suonare e cantare meglio che potessero, prevaricava e schiacciava il senso dell’onore e l’amore per se stesse.
In testa alla sua cricca, Kramer avanza sotto il mitra spianato dei soldati inglesi. Ha la camicia dell’uniforme, è disarmato, senza berretto. […] C’è forse qualcuna fra di noi che essendo stata risparmiata ha voglia di dirgli grazie? Lo sguardo gli si accende quando si posa su di noi, la sua orchestra. A noi ha fatto solo del bene. Immobili, silenziose, godiamo di averlo sotto gli occhi.
Ad Auschwitz l’essere umano è annientato, e con esso la sua morale: non rimane che il tentativo di rimanere in vita, a costo di qualunque cosa. È questo che all’autrice preme raccontare: così veniamo a conoscenza della gerarchia del campo, di deportate che “fanno carriera” e che aiutano le SS, che diventano Kapo, ebree che danno il proprio contributo nell’uccidere ebree, così ci sono rivelate le nefandezze fra prigioniere, la desensibilizzazione al dolore altrui, l’atrofizzazione dell’empatia.
Prima torturo, poi mi premuro
Ma Fania Fénelon non mette a nudo i sentimenti contrastanti delle musiciste di Auschwitz, ma anche quelli sorprendentemente contraddittori delle SS nel campo, capaci di premure che, nel quadro di crudeltà estrema del campo di concentramento, risultano grottesche. D’altra parte, la stessa presenza di un’orchestra in un teatro di morte è un ossimoro grottesco e mostruoso.
Infine, Sul bel Danubio blu. La musica si dispiega nei suoi movimenti romantici. Tra i deportati, alcune donne canticchiano; senza dubbio si tratta di ebree tedesche. È una cosa inaudita, inconcepibile. Qualche ufficiale si volta. Penso che, scandalizzati, cerchino i colpevoli; ma mi sbaglio. Non intendono punire, ma compiacersi di quella intemperanza. Con soddisfazione, sorridono alla massa dei deportati.
– Vedi – dice la piccola Irene – sono contenti che finalmente si apprezzi la loro liberalità.
È interessante, infine, il confronto che l’autrice fa fra se stessa e un altro importante membro dell’orchestra, quello della direttrice violinista Alma Rosé. Se per Fania e per tutte le altre musiciste l’orchestra non era altro che un mezzo per uscire vive dal campo di concentramento, per Alma invece la musica è sempre e comunque il fine ultimo, tutto ciò che conta, indifferentemente dalle circostanze. Fania delinea così il rapporto fra vita e arte senza mai banalizzarlo, ma anzi mostrandone tutte le imprevedibili e insospettabili sfumature.
Non piangete per me
Ad Auschwitz c’era un’orchestra è un racconto, nel suo genere, straordinario: l’autrice non chiede compassione, ma con una schiettezza pratica e perfino solare dispiega davanti ai suoi lettori tutte le verità sulla psicologia umana, anche quelle più scomode. Suo interesse non è far commuovere, non è intristire, solo raccontare perché non si dimentichi assolutamente niente di quanto successo, perché nulla di simile possa più, in futuro, ripetersi.
Per una più completa comprensione dell’Olocausto, consiglio la lettura di Opinioni di un clown di Böll, narrante l’ipocrisia dei tedeschi che in passato aderirono al nazismo, e che in seguito alla sua caduta si rivestirono di perbenismo e finto altruismo. Un romanzo chiave per non fermarsi all’Olocausto, ma per comprendere anche il “dopo”.
Buona riflessione.