Il nome della rosa – Umberto Eco
Il bene di un libro sta nell’essere letto. Un libro è fatto di segni, i quali a loro volta parlano di altri segni, i quali a loro volta parlano delle cose. Senza un occhio che lo legga, un libro reca segni che non producono concetti, e quindi è muto.
Esordiente famoso
Parlando de Il pendolo di Foucault, ho detto di come questo sia distante da Il nome della rosa, sia per stile, sia per contenuti, ma adesso è giunto il momento parlare proprio del romanzo d’esordio di Umberto Eco!
Eco pubblicò questo libro quasi per gioco, per mettersi alla prova: proprio per questo nello scrivere il romanzo attinse a diverse fonti, dando origine a una miscellanea di temi e generi, a un romanzo più complesso di quanto sembri. Infatti, a quale genere possiamo definitivamente ricondurre Il nome della rosa? Di sicuro al romanzo storico, al giallo, ma anche a quello filosofico, forse anche al romanzo del terrore, infine al romanzo allegorico.
Un bel Medioevo
È ovvio che sia un romanzo storico perché è ambientato nel Medioevo, in particolare in quella delicata fase in cui la cultura non è più appannaggio delle abbazie, ma il suo centro diventa il comune, dove si producono libri e fervono nuove idee. Per questo i monaci protagonisti del romanzo sono ritratti come dei fantasmi di loro stessi, gelosi del loro sapere che assolutamente non va divulgato: i monaci contro i laici che vivono in città, gli Italiani contro i bibliotecari stranieri, e i bibliotecari contro tutti. In questo Eco è molto scrupoloso: descrive un Medioevo che non rassomiglia all’epoca bigotta e ignorante che gli storici, per molto tempo, hanno propinato. Per dimostrarlo cita alcune grandi menti di quel tempo, come Marsilio da Padova e Ruggero Bacone, ma allo stesso tempo mette in luce la crisi che caratterizza il passaggio dall’Alto al Basso Medioevo.
Sherlock medievale
Appare poi ben chiaro a tutti perché sia definito anche romanzo giallo: il protagonista, Guglielmo da Baskerville, viene incaricato dall’abate di indagare su alcuni omicidi avvenuti all’interno dell’abbazia. All’inizio è facile individuare nel protagonista e nel suo fido Adso uno Sherlock Holmes e un Watson medievali (analogia voluta da Eco, il nome di Guglielmo ricorda l’opera di Conan Doyle Il mastino dei Baskerville, e Adso ha un’evidente assonanza con il nome “Watson”) ma, leggendo attentamente, si può ben vedere come questa somiglianza sia solo apparente: Sherlock Holmes si presenta come un personaggio intelligentissimo, e dotato di un intuito formidabile, e per queste sue doti si pone al di sopra di tutti gli altri e riesce nelle sue imprese e Guglielmo allo stesso modo sfoggia una grande intelligenza (si veda l’episodio di Brunello, posto proprio all’inizio del romanzo), eppure ciò non basta per far sì che risolva subito il mistero degli omicidi nell’abbazia. Si trova a seguire delle piste false che lo conducono lontano dalla soluzione, e alla fine riesce a capire chi è l’artefice dei delitti solo grazie a un sogno che Adso per caso gli racconta. Eco distrugge il personaggio di Sherlock Holmes che tutto riesce a capire e a risolvere, così lontano dal reale.
Metagiallo
Inoltre, Il nome della rosa non è semplicemente un giallo, ma anche un giallo che riflette su se stesso:
«Adso,» disse Guglielmo, «risolvere un mistero non è la stessa cosa che dedurre da principi primi. E non equivale neppure a raccogliere tanti dati particolari per poi inferirne una legge generale. Significa piuttosto trovarsi di fronte a uno o due, o tre dati particolari che apparentemente non hanno nulla in comune, e cercare di immaginare se possano essere tanti casi di una legge generale che non conosci ancora, e che forse non è mai stata annunciata […] tu devi provare a immaginare molte leggi generali, di cui non vedi ancora la connessione coi fatti di cui ti occupi; e di colpo ti si profila un ragionamento che ti pare più convincente degli altri.»
Guglielmo spiega ad Adso qual è il giusto modo di condurre un’indagine, non per deduzione (non è la stessa cosa che dedurre da principi primi), non per induzione (non equivale neppure a raccogliere tanti dati particolari per poi inferirne una legge generale), bensì per abduzione (raccogliere tanti dati particolari per poi inferirne una legge generale). Si approda cioè alla soluzione con una sorta di illuminazione di tipo intuitivo.
Infine, Eco tramite Guglielmo introduce una discussione sui segni, ed è infatti la semiotica l’unico filo conduttore tra Il nome della rosa e Il pendolo di Foucault: in breve, i segni possono essere utilizzati tanto per dire la verità quanto per mentire, e seguendo i segni non si può quindi essere assolutamente sicuri di giungere alla soluzione. Cosa bisogna fare? Guglielmo suggerisce di utilizzare i segni come una scala: una volta arrivati ad un punto di conoscenza sicuro, il segno bisogna buttarlo via, non considerarlo più… cosa che né Guglielmo né i personaggi di Il pendolo di Foucault hanno fatto durante le loro ricerche, e sarà proprio tale atteggiamento verso i segni la causa della loro sconfitta.
San Francesco e il PCI
Eco ha attinto a diverse fonti, sfociando in un aperto citazionismo (basti pensare al linguaggio del Cantico dei Cantici utilizzato durante l’innamoramento di Adso, o ancora allo stile tipico del flusso di coscienza adoperato nel sogno sempre di Adso, e in generale a tutti i riferimenti colti che ricorrono lungo il romanzo), ma ci sono due cose completamente personali: la riflessione sulla semiotica, e l’allegoria degli anni Settanta italiani. In realtà l’allegoria è molto velata, quasi come se Eco fosse indeciso se esporsi così tanto o meno, ma alla fine non ha resistito a lanciare una frecciatina all’irrazionalismo e alla violenza del Settantasette bolognese identificandolo nell’estetismo sfrenato del movimento ereticale dei dolciniani, e associando invece la volontà di San Francesco di reintegrare i poveri e gli esclusi con la strategia del “compromesso storico” del PCI.
Siamo postmoderni, suvvia
È un romanzo sotto molti aspetti impeccabile, anche se può a volte risultare irritante il continuo citazionismo; bisogna però tener conto che si tratta a tutti gli effetti di un romanzo postmoderno e quindi il citazionismo serve proprio per ricordare al lettore la vecchia letteratura, sottolineando così la distanza che separa quest’ultima da quella nuova. È proprio con quest’ottica che si capisce che Guglielmo da Baskerville e Adso non sono la mera imitazione di Sherlock Holmes e Watson, non sono il frutto di un autore privo di fantasia, bensì sono la loro satira, la loro versione moderna, la dimostrazione di come il superuomo sia stato definitivamente sostituito dall’inetto.
Buona lettura!