Una cura per gli anglicismi?
Difendere (da soli) chi siamo
A proposito delle mie osservazioni intorno a Difendere chi siamo, il fantastico saggio dell’altrettanto fantastico Diego Fusaro, qualcuno ha voluto farmi notare di essere stata troppo dura. Soprattutto, non sono piaciuti i miei commenti sullo stile del nostro autore: mi è stato detto di non insistere sulle brutture scritte nel libro, perché Fusaro è un filosofo, dunque “sia il [suo] linguaggio, sia il lessico sono comprensibilmente di stampo filosofico”. Inoltre, mi è stato spiegato che “parole auliche e arcaismi vari possono risultare alquanto stucchevoli, [ma sono] una forma di protesta in una Italia in cui sia i giovani sia gli adulti hanno rinunciato a parlare in modo preciso e colto, per esprimersi con il linguaggio volgare e limitato della televisione”. In conclusione, dovrei capire che “[l]a scrittura stessa e l’eloquio stesso di questo filosofo rappresentano […] una forma di subdolo contrasto alla cultura dominante”.
Ora, ringrazio il mio lettore, perché ha trovato meritevole di una risposta la mia recensione: è sempre una bella soddisfazione constatare che le proprie parole non si perdono nell’internet. E devo ringraziarlo anche per la pacatezza e per l’educazione dimostrate nel suo commento, non si tratta di qualità scontate. Ciò premesso, devo discutere un po’ sui due punti che ha messo in luce.
Non voglio dilungarmi sul primo, perché meriterebbe un saggio intero, da contrapporre agli obbrobri che ho recensito. No, Fusaro non è affatto un filosofo, e ciò si può capire proprio analizzando “il suo linguaggio”: un filosofo, per sua natura, può scrivere in modo complesso, difficile, perfino “oscuro”, ma non può esimersi dall’impostare il suo discorso in modo logico, attraverso una serie di tesi, di ipotesi e di dimostrazioni. Certo, so bene che qualcuno dà del filosofo perfino a Gesù, ma si tratta di un uso molto libero della parola: chi è un filosofo, propriamente e prima di ogni altra qualifica, è tale perché in lui possiamo riscontrare alcune caratteristiche peculiari, tra cui ciò che ho appena detto. E in Fusaro che cosa si trova? Niente di niente, come ho già avuto modo di sottolineare, il nostro eroe è totalmente incapace di imbastire un discorso razionale, non ho trovato nessuna dimostrazione (né elementare né complessa né chiara né confusa) in nessuno dei due saggi che ho recensito; mi sono imbattuta al massimo in qualche tautologia. Sarà che le tautologie non richiedono troppa fatica per essere comprese e (ri)proposte al pubblico.
E il lessico? Il mio lettore l’ha menzionato. Il lessico di Fusaro sarebbe filosofico? Be’, certamente per settori di studio specifici esistono dei “vocabolari” specifici, però direi che la filosofia fa eccezione. A differenza della fisica, della matematica (di alcune sue branche, almeno), della chimica, la filosofia non parte da un patrimonio concettuale condiviso dagli “esperti del settore”, bensì mette in discussione tutto: sì, se leggiamo di “essere”, di “modalità”, di “trascendenza”, possiamo immaginare di star leggendo l’opera di un filosofo, ma ci sono filosofi che non prendono mai in considerazione simili temi, e che non usano mai tali parole! Un lessico prettamente filosofico non esiste, è sufficiente considerare qualche testo di epistemologia, soprattutto se scritto da americani: difficilmente troveremo termini ed espressioni peculiari, soprattutto leggeremo parole “scientifiche”, a volte anche del linguaggio comune. Eppure si tratta di libri filosofici, scritti da filosofi. E, se non è necessario usare un certo lessico per fare i filosofi, dobbiamo pure osservare che per essere dei filosofi non basta riempire pagine e pagine con certe “superparole”. Appunto, Fusaro fa questo: si accontenta di seminare qua e là, senza troppo pensarci, i vari “Essere”, “ontologico”, “disvelamento”, “dialettica”, e quant’altro. Un lavoro che lo fa assomigliare più al contadino che al filosofo.
“Green pass” linguistico
Mi spiace dunque non condividere l’opinione del mio lettore: Fusaro è un bluff (oh oh, che cosa ho scritto?), non è un filosofo. Ma se non ho molto altro da dire su questo, la seconda parte dell’obiezione che ho riportato mi spinge a riflettere un po’ di più. L’amico de Il pesciolino d’argento ha sollevato un grosso problema: nel nostro Paese, “sia i giovani sia gli adulti hanno rinunciato a parlare in modo preciso e colto”, rinunciando, aggiungo io, alla loro stessa lingua. Ovviamente, giovani e adulti rinunciano all’italiano per mettersi in bocca qualcos’altro: la lingua inglese, specialmente nella versione parlata negli Stati Uniti. Già, ecco come stanno le cose. Lettori, vogliamo essere un po’ filosofici? E allora bisogna proprio domandarsi se questo guaio esiste davvero, non trovate?
Non la faccio più lunga del dovuto, sì il problema esiste. Gli italiani non parlano volentieri la lingua italiana. Come molti problemi, l’enunciato è alquanto semplice, ma la sostanza è più complessa. In che senso, dobbiamo domandarci, gli italiani non parlano volentieri l’italiano? Lasciamo da parte la trascuratezza che dimostrano molti nostri connazionali, gli errori sintattici, grammaticali, logici, stilistici. Tutti possono notare che gli italiani sono più contenti di usare parole inglesi, rispetto alle equivalenti italiane, che pure conoscono e sanno adoperare. In effetti è così: ci piace più il suono di “design” che quello di “disegno” (nonostante il primo derivi dal secondo), ci piace “babysitter” più di “bambinaia”, “business” più di “impresa commerciale”, “computer” più di “elaboratore”, e potrei andare avanti fino a farvi perdere la cognizione del tempo.
Quando poi siamo a corto di idee, ci sono politici, attivisti e presidenti di associazioni varie a darci una mano. Anche in questo caso gli esempi si sprecano: dalla “spending review” al “collect waste walk”, dai “no vax” alle “fake news”, dagli “hub vaccinali” al recentissimo “green pass”. Ah, a proposito del “green pass”, è buffo che in Francia (primo Paese a seguire una linea “dura”) si chiami con un espressione francese, “pass sanitaire”, e che nel Regno Unito si usi un nome inglese, che però… non è “green pass”! Si chiama “NHS COVID pass”. Eh sì, il “green pass” è all’estero noto come “italian green pass”: ciò per segnalare che il nome è inglese, ma riguarda solo l’Italia. Ossia: altrove spiegano che in tutte le nazioni del mondo i governi chiamano il certificato con parole indigene, tranne in Italia, dove il governo usa un’espressione unica al mondo in una lingua non autoctona.
Se ora state pensando che sia in sostanza questo l’inquinamento della nostra bella lingua, vi invito a riflettere meglio. Il proliferare dei forestierismi non è limitato a un mucchio di parole e di slogan (oh, che ironia, questa). Ditemi, lettori, avete mai letto il libro di Giampaolo Pansa Il sangue degli italiani. 1943-1946 una storia per immagini della guerra civile? No? Nemmeno io, tranquilli. In effetti il contenuto del libro non importa, anche perché credo non sia nemmeno così interessante: no, a noi interessa il titolo. Notate niente di strano? Una storia per immagini della guerra civile: ah, perché, è una di tante storie? Lettori, vi dirò una cosa: questo titolo non è in italiano. Eh no, “una storia di…” è la traduzione fedele, fedelissima, dei titoli che di solito gli americani danno ai loro saggi storici. Consultate la vostra biblioteca privata: se avete la fortuna di possedere libri di storia un po’ datati, contate quanti hanno un titolo simile a quello dato al saggio di Pansa. Neanche uno, scommetto. Certo, perché in italiano non si dice “A History of the Civil War”, ma “Storia della guerra civile”. E così, in effetti, si è sempre scritto, finché un giorno qualcuno (più di uno) ha deciso che era più “figo”, più “sexy” (ahi, di nuovo) fare come fanno in America. Ed ecco, “una storia della guerra civile”. “Per immagini”, eh. Sapete, ci manca solo che iniziamo a usare anche le maiuscole per i sostantivi e per i verbi: le minuscole denotano un ritardo non da poco, rispetto al modello americano.
Volete un altro esempio, lo so. Ebbene, se avete un animale domestico, provate a leggere l’imballaggio del suo cibo. Io ho un sacco di cibo per gatti che mi rassicura dicendo che i croccantini sono “ricchi in pollo”. Uhm. Notate niente? Esatto, in italiano, all’aggettivo “ricco” segue la preposizione “di”: un solo vocabolario, fra tutti quelli che ho consultato, riporta come accettabile “ricco in”, ma solo se si sta parlando di una miscela chimica (e in ogni caso, “miscela ricca di…” è corretto). Non ci sono né “agrumi ricchi in vitamina C” né “aria ricca in ossigeno” né, evidentemente, “croccantini ricchi in pollo”. Ma ehi, in inglese la preposizione che (solitamente) segue “rich” è proprio “in”, e dovete sapere che è “in” imitare gli anglofoni.
E avete notato come si esprimono i giovani (come me, LOL… oh no, ancora)? No, non mi sto riferendo a parole e a espressioni come “friendzonare”, “killare”, “bro”, “my friend”: capita che molti adolescenti, nei loro sconclusionati discorsi, usino l’intercalare “voglio dire”. Ah, be’, che c’è di male, due parole italianissime! Sì, le parole sono italiane, ma il vezzo linguistico no: per prendere fiato e riordinare le idee si è sempre detto (e già era fastidiosissimo) “cioè”, al massimo “insomma”. “Voglio dire” è la traduzione pari pari, senza usare il cervello, di “I mean”, che è il “cioè” intercalare degli americani.
Be’, sì, insomma, cioè… avete capito che cosa voglio dire. Non bisogna stare attenti solo alle “w”, ai “th” e agli “-ing”, l’italiano mostra sintomi d’infezione anche quando i fonemi sono tutti quelli del suo DNA (accidenti). C’è un problema, questo è chiaro. Almeno, se si ama l’italiano si deve ammettere che c’è. Altrimenti si può continuare a fare quello che si stava facendo, magari in “smart working”. Che non è un’espressione inglese, è un’altra scemenza italiana. Un inglese, o un americano, direbbe “remote working”.
Non c’è nulla di male in una bistecca
Ah, ma qual è questo problema? No, lettori, non mi sono rimbambita di colpo. Il quadro che ho tratteggiato non è di per sé un problema, è uno stato di cose che sottende un problema. Ora che abbiamo chiarito so che cosa volete rispondere: il problema è l’uso delle parole inglesi, il loro intrufolarsi senza controllo nella nostra bella lingua. No, sbagliate. I prestiti e più in generale le contaminazioni (nel significato letterario della parola) linguistiche ci sono sempre stati, e non solo per ciò che riguarda l’italiano: sono alcuni mezzi con cui una lingua viva si adatta, si evolve. Se ci pensiamo, persino l’ebraico biblico ha molti prestiti (dall’aramaico, dall’accadico) e l’ebraico è una lingua sacra, “intoccabile”: figuriamoci se non può averli l’italiano! “Ricco”, che ho menzionato sopra, ha origini longobarde, ed è imparentato (non “cognato”, come dicono gli inglesi) con il tedesco “Reich”. E poi “pizza”, “baruffa”, “zuffa”, tutte parole longobarde. “Zero”, “magazzino”, “albicocca”, arabe. “Bistecca”, inglese. I forestierismi non sono aberrazioni, rispondono spesso a precise esigenze linguistiche: colmano vuoti, appagano l’udito, fanno risparmiare fatica. Conveniamo tutti sul fatto che “bistecca” è molto più facile da pronunciare (e da scrivere) rispetto a “larga fetta di carne di manzo, con l’osso, tagliata nelle parti pregiate della schiena”. Ed è anche più piacevole e divertente da udire, sono sincera.
Ora, se siete accorti, vedete una differenza tra i forestierismi che ho riportato in precedenza e quest’ultima lista. Eh sì, il problema è tutto lì: i prestiti linguistici sono sani se i parlanti trasformano le parole straniere, adattandole alla propria cultura, e alla forma della propria lingua. Un italiano ode “beefsteak”, capisce il significato, trova che sia utile avere una breve espressione con cui significare quella cosa, adatta i suoni al suo gusto: “bistecca”! Sillabe melodiose (per noi italiani… ma non solo per noi) e un nuovo utile strumento per comunicare. Ma quando si usa “my friend” al posto di “amico mio” o “computer” al posto di “elaboratore”… che cosa si sta facendo? Nulla di utile, nulla di bello. Abbiamo già i mezzi per comunicare, non c’è alcun guadagno; inoltre quei suoni stonano terribilmente con le altre espressioni che pronunciamo. Spesso stonano pure con le altre espressioni inglesi!
I prestiti non sono più prestiti, le contaminazioni diventano infezioni. Insomma, per farla breve, il forestierismo non è più scelto per migliorare la comunicazione, o per abbellire la lingua: è scelto per altri motivi, extralinguistici. Volete che sia schietta? I motivi sono psicologici: ci si uniforma, prima di tutto nel parlare, a chi si sente superiore, a coloro cui ci si sottomette. Sì, gli italiani hanno un complesso di inferiorità soprattutto rispetto agli americani, ed è questo il motivo per cui non si adattano più le parole inglesi, anzi si inventano nuove inutili espressioni, come i già citati “green pass” e “smart working”. È un modo di compiacere, un modo di mostrare il ventre a chi si ritiene più forte, un po’ come fanno i cani. E ho detto che la “psicologia delle masse” italiane ha un complesso di inferiorità soprattutto nei confronti degli americani: soprattutto! Sì, perché noi italiani siamo in generale esterofili, ma intendendo questa come una parafilia: ad esempio, subiamo il fascino di spagnoli e giapponesi, facendo gli spavaldi con esclamazioni come “soy guapo” e lodando la capacità dei giapponesi di avere certe parole che significano certe cose (evidentemente certe parole italiane non significano certe cose).
Se le cose stanno così, se il problema è “psicologico”, da dove nasce? È una questione difficile, lettori. Posso tentare qualche ipotesi, ma non pretendete troppo. La mancanza di una filosofia di cui andare fieri può essere una delle cause: se ci pensiamo, non abbiamo mai avuto un filosofo come Cartesio, o come Kant. Non riusciamo a trovare un sistema filosofico originale, che presenta un’avvincente visione del mondo, proposto in lingua italiana. I codici di Leonardo? No, c’è una bella differenza con il sistema di Cartesio; stesso discorso per Galileo, i suoi scritti hanno avviato una rivoluzione scientifica, non culturale nel senso più ampio, perché non prendono posizione su temi cari agli uomini di qualunque classe. Romagnosi, Vailati, Croce, Gentile…? Tutti nomi che si rifanno ad altri, che non “rompono” per ricostruire: chiariscono, ampliano, ma si appoggiano a basi gettate altrove. Gettate usando altre lingue.
Un ulteriore ipotesi che mi va di proporvi è quella della “lingua sacra”: a differenza dell’ebraico, che ho già menzionato, l’italiano non è una lingua sacra. In senso più ampio, non c’è un testo sacro che abbia dato dignità all’italiano. Se consideriamo il tedesco, vediamo che le cose sono diverse: uno dei primi atti rivoluzionari di Lutero fu la traduzione della Bibbia, un modo per dire ai suoi conterranei che il tedesco era una lingua perfettamente adatta, e sufficiente, a esprimere le cose più importanti. Lo stesso vale per le traduzioni della Bibbia in inglese. Non parliamo poi, cambiando continente, del prestigio che il Corano ha conferito all’arabo. La lingua italiana invece non è stata mai né lingua “originale” di una religione né lingua sufficiente per una religione: anche se nella seconda metà del Novecento ha sostituito il latino nelle messe celebrate per gli italofoni, non ha ottenuto la dignità conferita al tedesco da Lutero. L’italiano è un semplice strumento, si usa per farsi capire dai più, ma se questi parlassero all’improvviso un “itanglese”, allora l’itanglese sarebbe usato al posto dell’italiano, senza particolari problemi.
Queste sono un paio di idee, però tenete a mente ciò che vi ho detto, non hanno alcuna pretesa. Magari è importante anche il fatto di non aver avuto un impero coloniale, al contrario di spagnoli, francesi e inglesi (l’impero di Mussolini non conta, non era niente).
È ora di superare il Ventennio
So che vi state domandando perché sostengo che Fusaro non sia di nessun aiuto all’italiano; dopotutto, ho appena parlato di filosofia. Ecco, appunto: ma vi ho detto che non è un filosofo! Ho letto soltanto due suoi libri, è vero, ma in nessuno dei due ho trovato qualcosa di vagamente filosofico. Almeno Croce e Gentile qualche novità da aggiungere all’idealismo tedesco classico l’avevano; il nostro Fusaro, invece, vive di citazioni e basta, senza neppure parteggiare per una certa scuola! Ve l’ho spiegato già ai tempi di Pensare altrimenti, tutto ciò che fa è ritagliare parole altrui (a volte neppure scritte da filosofi) incollandole poi per creare un “frankenstein” cartaceo. Se all’italiano può giovare un sistema filosofico audace, di sicuro rivolgerci a Fusaro è una perdita di tempo.
Ma Fusaro, al contrario di ciò che crede (sicuramente in buona fede) il mio lettore, è nocivo per l’italiano anche perché lui stesso, nei propri saggi, dimostra quei vizi psicologici di cui discutevo sopra. Non usa molte parole inglesi, questo sì, però non ha importanza, perché compensa con vocaboli (e a volte con intere frasi) in latino, in greco e, soprattutto, in tedesco. È ovvio che la sua non è una venerazione dell’inglese, come quella dell’uomo comune cresciuto a pane e televisione, ma è comunque una forma grave di esterofilia. Tanto più che i suoi non sono saggi filologici: le parole straniere che riporta non servono a nulla, non dicono nulla che non si potrebbe dire semplicemente in italiano. Insomma, o Fusaro inserisce forestierismi nei suoi libri per mostrare che “lui sa”, oppure li inserisce per portare avanti una certa tradizione che si impara in molte università della Penisola, ossia ossequiare coloro che hanno già conquistato una certa fama.
L’ultimo motivo per cui l’eloquio di Fusaro non è affatto utile per “contrastare la cultura dominante” è la forma stessa di tale eloquio. L’ho detto in entrambe le recensioni, Fusaro non sa scrivere in modo forbito, il suo stile è ridicolo, è una vaga scopiazzatura della parlata in voga ai tempi del fascismo. Se torniamo a Difendere chi siamo, vi domando: a che cosa serve usare il verbo “appellare” al posto di “chiamare”? Non è che “appellare” è più italiano di “chiamare” solo perché è un verbo meno comune. E non riesco proprio a capire perché dovrebbe essere più gradevole sostituire “appellare” a “chiamare” in ogni possibile occorrenza: dopo averlo letto tre volte di fila comincia a stufare, non essendo un verbo che usiamo normalmente, la sostituzione scriteriata sa proprio di artificiosità. Non si percepisce come una finezza, diventa una rottura di scatole. Se si vuole scrivere bene, con uno stile aulico, bisogna fare molta pratica, conoscere le regole, affinare il proprio orecchio: bisogna darsi da fare con la poesia (quella giusta, difficile), con la bella prosa, non andar dietro alle mode di ottant’anni fa. Anche perché il fascismo, pure per la nostra bella lingua, è stato un nemico insidioso. Non è con i mezzi scelti da Mussolini che si difende una lingua, non si può proibire l’evoluzione e l’adattamento. Organizzare censori cui affidare il compito di approvare, scartare e sostituire i vocaboli è un’impresa sciocca, che porta a risultati ridicoli (perché innaturali) e che spinge i parlanti nella direzione contraria. Se diciamo a un bambino che non può toccare un martello, improvvisamente il bambino vorrà toccarlo, anche se non l’ha mai considerato prima, non è vero? Ecco, più o meno lo stesso è accaduto con i forestierismi; inoltre, non dimentichiamoci che se oggi la voglia di parlare un bell’italiano è considerata una mostruosità nazionalista lo dobbiamo soprattutto alle sagge ed equilibrate politiche fasciste. Perciò, non dico che Fusaro sia un fascista, lungi da me, ma che scriva (più o meno) come si scriveva nel Ventennio è un fatto: ed è male.
Lettori, siamo arrivati alla fine di questa sommaria indagine sullo stato di salute dell’italiano, e sui suoi “nemici”. È una chiacchierata che non dice tutto e che, sicuramente, non risolve nulla, ma almeno (spero) vi ha dato un’idea della situazione. Tuttavia, so che c’è ancora una domanda che volete farmi: se amo l’italiano, come mai uso spesso parole inglesi nelle recensioni? Be’, sarò sincera, non posso pretendere che il mondo si adatti di colpo a me, devo adattarmi io al mondo, il più possibile, senza snaturarmi. E poi c’è anche questo: a volte mi tocca leggere dei libri talmente scemi, che ho bisogno di parole adeguate per descriverli…