Terroristi nella storia antica – Luca Montecchio

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IL GIUDIZIO:

terroristi nella storia antica atti di terrorismo nell'antichità romana saggio di luca montecchio edito da graphe.it edizioni

Nell’antichità, infatti, si verificarono guerre terrorizzanti.

Saggio esplosivo

Il terrorismo sta tornando a farsi sentire. Se dicessi soltanto questo, uomini di generazioni diverse reagirebbero in modo diverso. I giovani della mia generazione starebbero attenti (almeno spero, siamo un po’ ingenuotti) a volti mediorientali e accenti arabi, ma già i nostri genitori si preoccuperebbero anche di coloro che salutano col pugno chiuso o col braccio teso. Considerando poi non solo i tempi, a luoghi diversi corrisponderebbero reazioni diverse: in Irlanda del Nord si udirebbe un “chi va là?” rivolto a qualunque cattolico sospetto, in Sri Lanka si tornerebbe a sottoporre al microscopio ogni minimo gesto dei Tamil (tra l’altro, proprio le Tigri hanno inventato la cintura esplosiva). E se avessimo a disposizione una macchina del tempo, i francesi di fine Settecento saprebbero di doversi difendere dai giacobini.
Insomma, occorre essere precisi quando si parla di terrorismo. Ma, con ciò, si apre per noi la possibilità di riflettere un aspetto che solitamente ci sfugge: cambiano gli aggettivi, sì, una volta il terrorismo è islamico, una volta è marxista-leninista, però il nome è sempre quello. E attraversa la storia e la geografia. Perché, dunque, non approfondire la questione, spingendoci ai confini della conoscenza (niente Giacobbo, promesso)? È ciò che in effetti ci propone Luca Montecchio, con il suo breve saggio intitolato Terroristi nella storia antica. Avete ragione, lettori, il saggio è breve, ma il titolo è ampio e impegnativo: tranquilli, c’è un sottotitolo che giustifica il numero di pagine relativamente ridotto, ed è Atti di terrorismo nell’antichità romana.

Antiche affinità

Ecco, torniamo molto, molto indietro nel tempo, allontanandoci il più possibile dalle polemiche e dalle varie tendenziosità che infestano il dibattito sul terrorismo a noi contemporaneo. Dobbiamo anche allontanarci, si premura di chiarire il nostro autore, dalla tentazione di classificare l’antico con le categorie contemporanee: il saggio vuole infatti essere il più possibile scientifico, e se non seguissimo tale avvertenza finiremmo per dover ammettere a noi stessi di aver già abbracciato una visione del mondo, prima ancora di aver iniziato l’indagine. Montecchio, ovviamente, non cade in tentazione e dunque non leggeremo uno di quei libri, ad esempio, in cui tutto è postulato essere una lotta di classe: l’autore sceglie semplicemente di “sottolineare la presenza di affinità e/o divergenze con il mondo contemporaneo”. Però da qualche principio saldo bisogna pur partire, perciò Montecchio dà per certo (o, almeno, per estremamente plausibile) il fatto che…

Nel mondo romano un ciclo intero di guerre può, a buon diritto, esser definito “terrorizzante”. Il riferimento è alle guerre puniche, soprattutto alla prima e alla seconda che videro, dopo tanto tempo, armi straniere devastare la penisola italica.

È un primo dato interessante, perché sembra lottare contro la fatica che facciamo a immaginarci quegli eventi remoti: non vediamo, nella nostra mente, chiare immagini di sangue da associare alle guerre puniche, cosicché siamo piuttosto indifferenti. Ma dobbiamo andare contro il nostro naturale torpore e sapere che guerre “maligne”, totalmente distruttive e, appunto, “terrorizzanti”, non sono un’invenzione recente. Recenti sono alcuni modi di terrorizzare, la brutalità è storia vecchia. Ora, non lasciatevi ingannare, lettori, Montecchio ci ricorda sì di prestare attenzione alle guerre puniche, tuttavia ci fa capire che dobbiamo riservare la maggior parte della nostra concentrazione ad altri episodi, episodi che forse riusciremo ad associare con più scioltezza alla generica (e intuitiva) definizione che abbiamo del terrorismo. Si tratta di eventi circoscritti, a differenza delle guerre totali (di allora), e proprio per questo “portarono terrore soprattutto nell’animo popolare […] [e] vennero ricordati a lungo anche dalle generazioni successive”. Capite perché il paragone con ciò che definiamo “atto terroristico” è più facile, vero? O vorreste dire che la strage di Utøya (per non citare i soliti ovvi esempi avvenuti sul suolo francese) non sia un evento circoscritto, che ha portato terrore soprattutto nell’animo popolare e che sarà ricordato a lungo?
Ebbene, Montecchio concentra la sua analisi proprio su episodi simili. A cominciare da uno famoso, ma non famosissimo, la presa della città di Cirta da parte di Giugurta.

Terrorizza i nemici e ancor più gli amici

Giugurta, legittimo (anche se adottato) erede al trono della Numidia, cinge d’assedio la capitale Cirta, in cui si è rifugiato il fratellastro Aderbale (figlio naturale del defunto re Micipsa). Non mi dilungherò, lettori, sulle fasi dell’assedio, anche perché ci interessa l’esito: Giugurta riesce nella sua impresa e una volta entrato in città… tortura Aderbale e uccide tutti gli assediati, compresi molti cittadini romani che si trovavano a Cirta per affari. Non una delle tante stragi che avvengono in tutte le guerre (civili e non), non “festeggiamenti” per il riuscito assedio sfuggiti di mano, bensì un’azione precisa, con l’obiettivo di fiaccare il morale dei romani, contemporaneamente eccitando quello dei numidi. Montecchio sostiene questa tesi senza ambiguità, preparando le basi della sua comprensione grazie a un dettagliato resoconto dei prodromi che portarono al massacro voluto da Giugurta: accompagnati da una puntuale rassegna delle fonti storiche, non sempre imparziali (utili forse proprio per questo) leggiamo dell’avidità romana, della corruttibilità del senato, della debolezza morale dei rivali di Giugurta, della durezza d’animo e dell’ambizione di quest’ultimo. Elementi capaci di amalgamarsi bene e di generare un contesto esplosivo di violenza.
Più di tutto questo, però, è da notare il principale motivo che rende la distruzione di Cirta un valido esempio di atto terroristico: lettori, vi ho detto che Giugurta intendeva eccitare i Numidi, e intendeva, doveva farlo, perché…

[…] quella numida era una popolazione divisa e per mantenerla unita e compatta contro un nemico comune sarebbe stato necessario mostrare crudeltà nei confronti dei nemici, così come la si doveva mostrare nei confronti degli amici. Sia l’eccidio di Cirta, sia i fatti immediatamente precedenti furono dettati per terrorizzare nemici e amici.

Capite? Ebbene, se una serie di fatti contingenti (senatori corrotti, guarnigioni romane rapaci e via dicendo) spiegano molto, non spiegano tutto: bisogna anche considerare una certa disposizione culturale, cioè un elemento che si potrebbe forse dire astorico. Nel nostro caso, i numidi sono una delle tante popolazioni legate dal sangue e dal territorio, ma non da un comune progetto politico: e, purtroppo, sappiamo che un modo facile e sempre efficace di superare un simile ostacolo è la creazione di un nemico comune contro cui combattere. Per fortuna di Giugurta, come abbiamo visto, i romani non si comportavano esattamente come buoni amici, perciò il nostro aspirante re non aveva molto da inventarsi: ma era ancora doveroso “mostrare i muscoli”, cioè mostrare, dopo aver indicato col dito il nemico, che cosa si è capaci di fare a quel nemico. A tal proposito, lettori, vi invito a riflettere su quel “nemici e amici”, ponendo l’accento su “amici”. Già, mi viene da dire che il terrorismo è sotto certi aspetti una forma di comunicazione, un modo di dire qualcosa a qualcuno: e, ovviamente, i primi con cui si parla sono gli amici, quelli che ci stanno più vicini.

Caccia all’italico

Montecchio, dopo averci presentato un assaggio, continua con la sua ricerca. Ci propone un nuovo caso, anche stavolta famoso eppure non così famoso. Non è così famoso, perché la distruzione di Ostia solitamente non ha a sé dedicato neppure un paragrafetto, nei libri scolastici di storia. La fama viene dal contesto, perché se parlo delle guerre mitridatiche sapete sicuramente qualcosa. Non sapete però (così come non sapevo io) che in queste guerre atti di terrorismo, o di terrorismo ante litteram, ebbero un’importanza notevole, ancor più che nella guerra contro Giugurta.
Mitridate è il solito nemico di Roma, re straniero invischiato con la politica e gli affari dell’Urbe, spregiudicato, scaltro, subdolo e feroce. E Roma è sempre Roma: corrotta e avida di conquista, strapiena di personaggi desiderosi chi d’oro, chi di fama, chi di potere, di potere assoluto. Sì, lettori, la faccio breve, ma il nostro autore nuovamente si impegna per delineare in maniera chiara i prodromi, cosicché ci si possa fare un’idea quanto più precisa e imparziale di quel “tutto” da cui poi nasce anche il terrorismo. Già, non nasce mica dal nulla, giusto?
Bene, capito il contesto, passiamo direttamente agli episodi. Prima della strage di Ostia, Montecchio ricorda il massacro dei romani e degli italici che vivevano in Asia minore: Mitridate, nel quadro di sollevazioni antiromane che si possono chiamare “vespri asiatici”, ordinò l’attuazione di omicidi indiscriminati proprio nei confronti degli italici. Così Terroristi nella storia antica descrive la situazione:

[…] le popolazioni romana e italica vissero le ultime ore con angoscia totale, soprattutto perché sostanzialmente impossibilitate a difendersi. L’attacco alle loro vite giunse improvvisamente. Sembrava non ci fosse alcun indizio di un fatto così clamoroso, anche se l’attenzione del re del Ponto per quelle zone, considerata anche la contingenza, poteva lasciare presagire rappresaglie. Un conto però sono rappresaglie sulle proprietà, un conto assassinii di massa.

Fa un certo effetto, forse perché siamo più abituati a sentir parlare dei pogrom, e degli “italici” massacrati ci sembrano un’idea estranea alla nostra forma mentis: sta di fatto che semplici “civili” furono stanati, identificati e uccisi senza alcuna pietà. E se credete che l’ordine di Mitridate fosse estemporaneo, dettato da un clima di frenesia e di ebbrezza, all’interno della più generale sollevazione contro Roma, dovete tornare sui vostri passi. Montecchio infatti ci spiega senza mezzi termini che…

[…] Mitridate ordì e fece in modo si realizzasse quello che sarebbe scaturito da un ordine segreto. Esso si sarebbe abbattuto come una scure sui romani e sugli italici […]. L’aspetto inquietante è che tale ordine fu inviato tempo prima. Ma, anche supponendo pochi giorni di preavviso, crediamo tuttavia fosse necessaria una qualche preparazione, se non altro per pianificare il tutto mettendo in preallarme chi avrebbe dovuto agire materialmente.

Il fine, anche questa volta, è comunicativo, e riesce: perfino a Roma si sente l’eco delle grida, e non ci vuole molto prima che cominci a serpeggiare “una sorta di terror regius diffuso […] [che] non si limitava a terre lontane, sconosciute ai più”.

Foreign fighters dell’altroieri

Come diremmo oggi, le guerre mitridatiche contengono delle asimmetrie. E a questo punto voglio parlarvi dell’asimmetria che sopra ho annunciato, cioè la distruzione di Ostia. Più che lo sterminio degli italici in Asia, infatti, mi pare che sia questa l’azione terroristica decisiva nell’ambito delle guerre mitridatiche. Sì, perché gli omicidi in Asia avvengono alla “periferia” di Roma, e Mitridate “gioca in casa”. In modo brutale, mi verrebbe da dire che il re del Ponto abbia semplicemente eliminato dei corpi estranei. Ma con Ostia è diverso, perché la violenza viene esportata: esportata, e trasportata fino alle porte di Roma. Davanti all’ostinazione dei romani, che non avevano minimamente cambiato rotta, anzi avevano continuato a mantenere nel Ponto e in Asia in generale uno “«spietato sistema di sfruttamento» che permetteva di «finanziare la lotta politica interna»”, molto probabilmente (afferma il nostro autore) Mitridate si servì dei pirati per colpire di nuovo il nemico. Una forza mercenaria, certo, però non del tutto, perché i pirati erano cilici, asiatici proprio come il loro “datore di lavoro”: e dunque, oltre al denaro, l’odio contro i romani (contro i romani in quanto tali, non in quanto sfruttatori) garantiva la disponibilità dei pirati ad attuare i piani di Mitridate. Alcuni passi del saggio credo possano spiegare meglio di qualunque mia parafrasi che cosa furono per Roma i pirati di Mitridate:

Le azioni piratesche sono affatto simili a quelle portate da truppe di guerriglieri. Si trattava di manovre belliche rapidissime, improvvise, capaci di portare il massimo scompiglio nelle file di un nemico pure superiore, molto organizzato ma impotente di fronte alla guerriglia.

[…] i pirati della Cilicia erano ferocissimi e abilissimi nel condurre navi veloci, con caratteristiche dunque essenziali sia per gli abbordaggi, sia per le incursioni nelle zone costiere.

La città costiera [Ostia] era stata conquistata, saccheggiata ferocemente e, infine, data alle fiamme. Il che, come è comprensibile, creò scompiglio, non solo tra la popolazione locale che per prima subì le enormi conseguenze della violenza pirata, ma anche tra quella romana che, invece, subì le conseguenze psicologiche di quel fatto di sangue.

[…] Cicerone, benché non amasse la scelta di affidare un vastissimo potere a un unico individuo, comprese la necessità di avviare una ferma opposizione [ai] pirati. Pertanto, convenne sulla scelta di affidarsi [a] Pompeo […]

Lettori, vedete da voi la grande analogia col terrorismo a noi più vicino. E possiamo quindi immaginare senza troppi sforzi l’effetto psicologico che ebbero sulla mente dei romani le guerre mitridatiche. In particolare, i “vespri asiatici” dovettero essere percepiti in maniera vagamente simile a come noi percepiamo certe stragi ai danni di ambasciate, di cooperanti, di residenti in luoghi lontani: un senso di ribrezzo, di sconcerto, ma non esattamente la paura, l’urgenza e il sudore freddo che scatenano i pirati, giunti di punto in bianco nei luoghi della vita quotidiana.
Benché alcuni insistano con un atteggiamento da “leoni” (e la mattina dopo sappiamo che cosa saranno), una strage al centro o in periferia, comunque in città, in un giorno qualsiasi, contro gente qualsiasi, muove qualcosa negli istinti più profondi. E appunto, Terroristi nella storia antica ci dice che dopo Ostia, significativamente non dopo il massacro degli italici in Asia, perfino Cicerone cambiò radicalmente opinione, incoraggiando una “linea dura”. Durezza che Pompeo effettivamente fu capace di mostrare:

Pompeo era solito agire come il sovrano del Ponto, cioè senza grandi scrupoli, con intelligenza, rapidità. […] il solo modo per mettere in un angolo un nemico non regolare come la pirateria era di ridurgli vieppiù [sic] il raggio di azione, imponendole di disperare di trovare rifugio alcuno. […] Fare terra bruciata poteva apparire una strategia semplice, quasi banale, ma ancora nessun comandante romano aveva avuto l’impudenza di adottarla per ottenere lo scopo prefissato.

In questo, forse, troviamo una certa differenza fra noi e i romani. Sembra che i nostri pirati, almeno alcuni, non debbano al momento disperarsi troppo di trovare un rifugio: però, lettori, questo può dipendere da molte cause. Ad esempio, pur se il terrorismo di oggi è lo stesso di allora per la sostanza, può essere mutata in parte la reazione ad esso: può essere diventata una paura totale, non soltanto di ciò che i terroristi potrebbero fare, ma anche di ciò che si dovrebbe fare ai terroristi, per risolvere definitivamente la questione. Nessuno ha più l’impudenza di Pompeo, insomma. Oppure sto dando per scontato che oggi come ai tempi di Cicerone si vogliano togliere di mezzo i pirati una volta per tutte.

Pagliuzze filosofiche

Lettori, non posso e non voglio addentrarmi in una polemica politica, ho già detto troppo. Anche perché Montecchio ha molto altro da discutere: i druidi, la distruzione delle legioni di Varo, il banditismo e le rivolte in Giudea. Il nostro autore segue il solito schema, fatto di fonti, di prodromi, di fatti riportati e discussi, di conclusioni. Capitoli densi e precisi, che certamente regalano informazioni difficili da trovare per i non specialisti. Le somiglianze e le differenze fra la guerriglia druidica e giudaica, ad esempio, o la frammentazione “fisiologica” delle tribù germaniche, fatto da tenere in conto quando si riflette sui moventi e sull’esito dell’impresa di Arminio. E poi delle autentiche gemme, come la breve descrizione dei “sicarii” giudei, descrizione capace di farli quasi apparire in carne ed ossa dalle pagine del saggio:

L’azione di questi assassini professionisti avveniva in mezzo alla folla per potersi mescolare meglio. Ma c’era di più. Essi, una volta raggiunta la vittima, non si allontanavano dal corpo […], bensì rimanevano là vicino […] mostrando sgomento. In buona sostanza agivano subdolamente al fine di evitare la cattura.

Ma non mi dilungherò riassumendo e discutendo quest’ultima parte di Terroristi nella storia antica, la recensione finirebbe per annoiarvi e smorzerebbe un po’ la vostra curiosità, la vostra voglia di scoprire tutte le restanti analogie e le restanti differenze fra il mondo di oggi e quello di ieri.
Concludo, non prima però di avervi messo a parte di un paio di osservazioni critiche. Sì, perché Terroristi nella storia antica è un saggio bello e meritevole, e come molte cose belle ha qualche piccolo difettuccio. Non preoccupatevi, lettori, non si tratta di travi, sono pagliuzze, pagliuzze che nascono dalla stessa radice. In effetti il lavoro di Montecchio è immacolato dal punto di vista storico, la ricerca è condotta a regola d’arte: è dal punto di vista filosofico che si trova qualche sbandamento. Ad esempio, all’inizio del saggio il nostro autore dà una calzante definizione di “terrorismo”, su cui non c’è molto da dire, ma poi, introducendo l’episodio di Cirta, si lascia andare a un’osservazione meno precisa:

non sempre l’essere umano ha assunto comportamenti “equilibrati” rispetto al potere altrui. Al contrario, spesso ha reagito in modo attivo ed energico. E non per una questione di scontro di civiltà – come, a torto, si è soliti affermare oggi –, ma per la mera salvaguardia delle proprie tradizioni culturali e politiche.

È meno precisa perché manca un “non sempre”: spesso l’essere umano ha reagito al potere altrui, e non sempre per una questione di scontro di civiltà. Omettere i due avverbi può portare a un’incomprensione e all’errata conclusione che uno “scontro di civiltà” non possa mai essere alla radice di “reazioni energiche”, e pure “terroristiche”, al dominio (hard oppure soft) straniero. Sì, può darsi che nella maggior parte dei casi non ci sia alcuno scontro di civiltà, e che neppure oggi ci sia: ma con ciò non si può escludere a priori. Uno scontro di civiltà può essere accaduto, potrebbe accadere. Chissà?

Chi è l’autore di Terroristi nella storia antica?

L’altra pagliuzza con radici filosofiche è meno evidente, ma crea un certo disturbo. Ho notato che Montecchio tende a usare perifrasi e le cosiddette “descrizioni definite” al posto dei nomi propri: spinto probabilmente dal timore di ripetersi in modo eccessivo, il nostro autore prova a percorrere strade alternative, che però non sono così agevoli…

[…] Sallustio descrive il minore dei figli dell’appena defunto sovrano numida come natura ferox.

In questo brano, uno dei tanti simili, si fa riferimento a Iempsale (il minore dei figli) e a Micipsa (l’appena defunto sovrano numida): ora, la scelta delle parole è scorretta da un punto di vista logico ed è infelice dal punto di vista stilistico. È scorretta, perché la persona, l’entità “Iempsale” non è la stessa cosa che “il minore dei figli di Micipsa”: sì, Iempsale è proprio il figlio minore di Micipsa, ma abbiamo un “è” di predicazione, non di identità. Iempsale è Iempsale in ogni mondo possibile, invece immaginiamo che in un qualche mondo possibile “il minore dei figli di Micipsa” è Jeff Bezos. Pertanto, se non c’è identità, a rigore non è corretto sostituire le due espressioni come fossero sinonimi. Il discorso ovviamente è lo stesso per “Micipsa” e “l’appena defunto sovrano numida”: se avete qualche nozione di semantica dei mondi possibili, capite bene ciò che voglio dire. E la scelta di Montecchio, dicevo, è pure infelice dal punto di vista stilistico: sì, perché la sostituzione si può anche fare, solo che si tratta di una figura retorica, di un’antonomasia. E le figure retoriche richiedono un piccolo sforzo per essere comprese, un piccolo sforzo che, se ripetuto, diventa pesante. E siccome la prosa di Terroristi nella storia antica è già, per la natura del tema che tratta, densa e impegnativa…

Ma si tratta di sottigliezze, come ho detto. Sono sincera, tolgono al saggio la possibilità di dirsi perfetto, tuttavia non lo rovinano. Sono anzi sicura che voi lettori sarete talmente interessati alla capillare esposizione storica, da non notare neppure le macchioline che ho segnalato. E dunque, che cos’altro posso aggiungere? Procuratevi questo saggio interessante e godetevelo… facendo, ovviamente, una buona lettura!

Sara

Ciao! Sono la fondatrice del blog letterario "Il pesciolino d'argento", amo profondamente i libri, l'arte e la cultura in generale.

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