Quando eravamo i padroni del mondo – Aldo Cazzullo
Roma non è mai caduta.
L’impero romano non è mai caduto davvero, né mai cadrà.
’Sti cazz… ulli di giornalisti
Lo ammetto, non ho le statistiche a portata di mano, però qualcosa mi dice che non sono in torto ad affermare che i giornalisti sono una delle categorie più odiate dagli italiani. Ah, sicuro, ci sono in ballo le emozioni, quindi si tratta di un atteggiamento poco serio, fondato su una brutta generalizzazione.
Ehi, c’è in ogni caso del vero nelle generalizzazioni, nel senso che esse non nascono sotto i cavoli. Per quel che riguarda i giornalisti, è abbastanza facile capire dove sta quel “vero” che permea la diffusa insofferenza nei loro confronti. Non avendo noi mai superato, culturalmente e nei fatti, il sistema clientelare, è destino che la nostra società permetta costantemente la formazione di classi “nobiliari” cui sono spontaneamente attribuiti potere, autorità e, di conseguenza, capacità di “elargire un aiutino”. Se giusto non molto tempo fa c’erano marchesi, conti e principi, oggi ci sono parlamentari (ovvio), avvocati, e, appunto, giornalisti. Interessante è notare, tra l’altro, che le precedenti professioni spesso si sovrappongono… uhm!
Vabbuò, tutto questo per dire che il giornalista, avendo un titolo nobiliare moderno, detiene appunto un certo potere: e laddove c’è il potere, avoja, cominciano ad affollarsi gli affamati di potere, i quali di solito non sono… non sono proprio il meglio del meglio, ecco. Per una sorta di legge naturale, va da sé che le qualità umane dei potentati tendono ad abbassarsi, a maggior ragione se: 1) c’è in effetti un accesso (semi)libero alla posizione di potere; 2) la posizione di potere è tutelata da una posizione superiore, già saturata da individui di scarse doti morali. Ecco, a proposito di quest’ultimo punto, in effetti i giornalisti hanno potere, sì, però hanno il potere dei baroni: devono in ogni caso sottostare a certe regole, e con “certe regole” intendo più che altro la volontà di alcuni pezzi grossi, molto più grossi di loro.
Ecco allora che noi, i lettori (o telespettatori) della gleba, ci ritroviamo sommersi da palate e palate di propaganda. Nella stessa giornata dobbiamo dolerci per i bambini morti in QUEL bombardamento, e dobbiamo fottercene dei bambini uccisi in QUELL’ALTRO bombardamento; dobbiamo sempre ricordarci che un aggredito ha il sacrosanto diritto di fare il culo all’aggressore, al contempo ricordandoci sempre che un aggredito non ha comunque nessun diritto di fare il culo all’aggressore; dobbiamo preoccuparci per il continuo massacro di donne indifese, rimanendo tranquilli perché le statistiche dicono che non c’è nessuna emergenza sicurezza.
Chiaramente, quando il tonnellaggio di propaganda che deve essere distribuito è così grande, il lessico è il primo a subire un abbassamento di qualità, essendo in fin dei conti null’altro che l’imballaggio della propaganda stessa. “Questione x? Sostengo che y”; “senza se e senza ma”; “quegli x che fanno le cose y”; “si sentono y, gli x”; “io, un x, che ho vissuto y”; “tragedia annunciata”; “l’unica democrazia di quella parte di mondo”. Sono solo alcune delle puttanate che ogni giorno molestano i nostri occhi (sotto forma di titoli stampati) o le nostre orecchie (sotto forma di parole pronunciate dalle talking heads). Purtroppo, essendo i giornalisti dei baroni moderni, le loro mancanze vengono prese a modello, giacché, dalla notte dei tempi, il contadinozzo arrivista e un po’ sociopatico sempre ragiona per analogia e per somiglianza. Ossia, se prende ad atteggiarsi come il barone, prima o poi avrà pure lui quel che ha il barone, che si atteggia in tal modo, no? Eh, eh, fa parte della nostra natura ragionare così, siamo ancora dei cannibali che pensano di ottenere la forza del guerriero ucciso mangiandogli il cuore.
Insomma, questo discorso ci interessa soprattutto perché… eh, come accennavo poc’anzi, alla fine qualche contadinozzo davvero riesce a diventare un barone(tto). E questo incentiva ancor più contadinozzi ad atteggiarsi come il barone; anzi, non solo i contadinozzi, prendono tali vezzi pure soggetti di maggior caratura (morale), perché, ehi, se una cosa sembra funzionare, se diventa una moda… non si può rimanere indietro, giusto? Anche solo l’impressione di essere rimasti indietro è insopportabile.
Risultato? Prendiamo un libro qualunque, di recente pubblicazione, che abbia pretese leggermente più serie di Ricco sfondato: nove volte su dieci è un pezzo de la Repubblica, de La Stampa, de Il corriere della sera, e via dicendo. Ossia, è una “bella montagna di merda” (cit. Jurassic Park), con tutti i difetti, e anche di più, menzionati fino a questo punto.
D’accordo, le malefatte dei giornalisti. E… e adesso mi tocca rimangiarmi tutto. No, insomma, non mi devo rimangiare proprio niente, però occorre che puntualizzi un paio di cose. La prima: lo schifo del giornalismo non è sempre colpa dei giornalisti, e nemmeno dei loro padroni (quando hanno dei padroni). È che la natura stessa delle notizie ha in sé qualcosa di storto. Per quanto si possano eliminare le incrostazioni venefiche e propagandistiche, alla fine della fiera si rimane con una grana intrinseca: sto parlando della decisione di dare una notizia e non un’altra. Eh sì, perché l’atto stesso di divulgare un certo fatto, prima ancora di ogni altra aggiunta, è propaganda: decidere che una notizia va considerata è dare a essa importanza, al contempo sminuendo tutto il resto che parimenti è accaduto. Eggià, ma questo implica che il giornalista avrà sempre il potere di indottrinare, stabilendo delle priorità, e ciò quand’anche non abbia alcuna intenzione di fare il lavaggio del cervello. Non si può uscire da questa situazione: le informazioni sono… uh… in una quantità per noi praticamente inconcepibile, e noi siamo soltanto delle macchine limitate, che possono interagire con una minuscola frazione del mondo. Pertanto, occorrerà sempre scegliere quali fatti riportare e quali ignorare, con tutto quel che di pericoloso è implicito in tale situazione.
Il peccato originale dei giornalisti, dunque. Che però non è davvero simile alla tentazione di Eva, essendo quello intrinseco e ineludibile, e questa invece un deliberato (sì?) gesto di passione. La seconda osservazione che mi sento di dover fare è questa: be’, certe facce le vorremmo calpestare, ma… ma non tutti i giornalisti sono stupidi e odiosi! Un nome esemplare, che suppongo metterà d’accordo grandi e piccini: Piero Angela. Gli vogliamo bene, e ha fatto del bene, non ci piove: ecco, s’è formato come giornalista, e ha sempre vissuto come giornalista. Gianni Brera, un altro nome: poco sopra mi sono lamentata dei luoghi comuni giornalistici, tuttavia c’è da essere grati a Brera per aver introdotto, anche nel nostro parlar quotidiano, moltissime espressioni efficaci e belle. Non dico un nuovo Dante, ma sicuramente non c’è da dolersi ad avergli lasciato in mano carta e penna, vero?
Nomi ormai, del passato, oggi è tutto finito. Uhm, mi sembra troppo pessimista questa considerazione. Forse attualmente ci sono più stronzi, e urlano più forte, ma… non ci sono solo stronzi. Ci sono dei bravi giornalisti. Giornalisti intelligenti, perfino. Oppure, semplicemente, ci sono giornalisti simpatici, dei pagnottoni con cui è impossibile essere adirati. E adesso, finita questa lunghissima introduzione, vi parlo di Aldo Cazzullo, un giornalista. Poi tirerete voi le somme sulla categoria, fra quelle che ho appena elencato, in cui andrebbe idealmente annoverato.
Eravamo forti, eravamo cazzu… lli
L’abbiamo già conosciuto, perciò un’idea di cosa aspettarci dovremmo averla. A riveder le stelle è stato un… gn… gne… gnì! Non malissimo: non bene, però non quel “chi me l’ha fatto fare”. Era un tantinello più su della gramellinata tipo, via. Cazzullo adesso ci riprova, cambiando argomento. Per risollevare un po’ lo spirito della nazione, alle stampe ha dato Quando eravamo i padroni del mondo, un… uhm… non vorrei chiamarlo “saggio”… uh… un “non cretino”, mettiamola così… il cui tema è la storia della civiltà romana. Il bignamino dell’uomo qualunque desideroso di aggiungere un quarto di idea al quarto che ha già, così da ottenere una mezza idea sull’argomento. Devo dire che, al netto della probabile esistenza di un Bignami effettivamente dedicato ai Romani, l’intenzione cazzulliana non mi dispiace. Anche se, come avete già intuito, quel “risollevare lo spirito della nazione” proietta un ombra sul libro: per quanto scarno, pure un bignamino può essere “scientifico” nella sua impostazione, raccontando stringatamente i fatti nudi e crudi, però se c’è un obiettivo ulteriore, uhm, la scientificità va a farsi benedire.
Nel nostro caso, le perplessità sulla natura scientifica di Quando eravamo i padroni del mondo non sono affatto di poco conto, soprattutto perché il timore è di ritrovarsi con una sorta di meloniana autocelebrazione, ossia un cringissimo “fascio moderno” (perfino più moscio del fascio originale) che in sostanza confonde noi e i nostri “antenati”. Ma… ma… per fortuna nell’introduzione leggiamo questo:
Noi italiani non siamo i discendenti diretti degli antichi romani: ci siamo mescolati con molti altri popoli, dai barbari agli arabi. Ma dei romani possiamo rivendicare l’eredità. Non soltanto abitiamo la stessa terra, viviamo nelle città da loro fondate, percorriamo strade da loro tracciate; Roma vive nella nostra lingua, nei nostri palazzi, nei nostri pensieri. Nel nostro modo di parlare, di costruire, di pensare, qualcosa dell’antica Roma è rimasto. E se oggi siamo cristiani, è perché Roma diventò cristiana.
Occhei… bravo Aldo, mettiamo le cose in chiaro. Non c’è molto da aggiungere, lo spirito del libro è tutto lì, e inoltre l’avvertenza è decisa: il pubblico non deve ricostruire una storia fantasiosa sulla base delle nozioni che il nostro autore esporrà, idealmente dovrebbe accontentarsi di una riflessione sul “come siamo arrivati fin qui”. Voglio nondimeno essere proprio pedantissima, anche a rischio di sembrare odiosa: la costruzione della prima riga non è corretta. O, meglio, così com’è scritta presuppone che ci sia un’italianità antecedente la contaminazione con arabi e barbari; in sostanza, Cazzullo dice che noi Italiani non siamo Romani, e subito dopo presuppone che… be’, che lo siamo. Infatti, se noi “ci siamo mescolati con […] barbari [e] arabi”, allora “noi” esistevamo già, altrimenti non ci saremmo mescolati proprio con nessuno: però, ai tempi della mescolanza c’erano i Romani, perciò noi siamo Romani. Ovviamente, Cazzullo avrebbe dovuto scrivere non “ci siamo mescolati”, bensì “siamo il risultato della mescolanza”.
Difettuccio, bazzecola? Sì, ci mancherebbe, è una pagliuzza. Tuttavia è anche un segnale, che si riallaccia a quanto ho scritto nell’introduzione a proposito del modus operandi giornalistico, e che si manifesterà ancora, talvolta sotto forma di autentiche travi, quindi… non mi sento in colpa per aver fatto la maestrina.
Non mi va ancora di guardare al brutto, però. Voglio concentrarmi sugli aspetti positivi. Quando eravamo i padroni del mondo è tutto diviso in due parti (LOL, capite che ho fatto qui?). Nella prima Cazzullo si occupa, appunto, di srotolare i settecento e passa anni di sviluppo dell’Urbe, fino all’Impero, insomma; nella seconda invece si dedica prima a informarci su Costantino e sul predominio del cristianesimo, poi sul lascito della civiltà romana. Ricordate quel che ho detto sulla scelta delle notizie? Ecco, il nostro autore non ci dice tutto, non tratta ogni aspetto della storia di Roma con eguale dignità: si concentra maggiormente su alcune cose, di altre si compiace di un trafiletto, altre ancora sono ignorate e basta. Questo avviene nella prima parte, ci mancherebbe, ma anche nella seconda, in cui gli esempi sull’immortalità dei Romani strizzano quasi sempre l’occhio all’anglosfera (oltre che all’italosfera, però questo è scontato), che è, con tutta evidenza, il “mondo che conta davvero”, per Cazzullo.
In totale coerenza con me stessa, non ho da recriminare su una simile impostazione, che è oltretutto calzante con la natura divulgativa e popolare del libro. Forse ho qualcosina da ridere sulla decisione di concentrarsi su argomenti che sono notoriamente dei luoghi comuni: sì, Cesare e Augusto sono sempre interessanti, tuttavia dedicare loro la maggior parte delle parole spese nella sezione storica è un po’ uno spreco. Avrei giudicato più coraggioso insistere, che so, sulle guerre sociali, o su imperatori non troppo famosi (come Tito, Massimino il Trace, Filippo l’Arabo). Va be’, poteva andare peggio. Un piccolo plauso lo concedo per il primo capitolo, dedicato alla fondazione di Roma, e… svolto come un concentratissimo sunto dell’Eneide. Chi la conosce l’Eneide, a chi frega dell’Eneide? Ebbene, di sicuro manifestando quella passione per Dante già incontrata in A riveder le stelle, a Cazzullo frega dell’Eneide, e le sue parole sono benvenute, se non altro perché fanno da PR al poema. Non che in futuro mi aspetti di sentire gli ospiti di Donna Imma recitare qualche verso, ma può darsi che almeno ne menzionino occasionalmente il titolo, magari storpiandolo.
Cielo!, può pure darsi che prima o poi quei tamarri si mettano a discutere della loro pietas! No, sul serio, lasciate che dia a Cesare quel che è di Cesare (ehm…), il nostro autore spiega molto bene il concetto…
Enea non è il più astuto, né il più forte. È il più pietoso. Il suo epiteto è appunto “pio”. E la pietas è la più romana delle virtù. Significa forza morale. Devozione agli dei, agli antenati, alla patria. Capacità di riconoscere il proprio dovere, e di farvi fronte.
Ho reminiscenze scolastiche in proposito, le due colossali palle che mi venivano ad ascoltare per ore ’sta menata della pietà. Era sufficiente metterla in tal modo: “forza morale”, “riconoscere il proprio dovere”. D’accordo, i puristi vorranno linciarmi e riabilitare la colossale rottura di palle, essendo “pietas” un termine più complesso di quanto voglia farci credere Cazzullo; a me però, lettrice qualunque che segue la corrente, va benissimo quel che mi racconta Quando eravamo i padroni del mondo.
E mi stanno altrettanto bene i salti temporali sparsi lungo il libro (in special modo nella seconda parte, ho precisato), concisi flash che permettono di avere sott’occhio sia le nozioni storiche sia i loro strascichi sulla cultura (occidentale). Un esempio per tutti, ancora riferito all’Eneide:
I padri fondatori americani citano spesso l’Eneide nelle loro lettere. Lo fanno Franklin, Jefferson, Hamilton: anche loro si ritrovano a dover costruire l’unità nazionale dopo un periodo di conflitti esterni e interni, a dover creare una grande nazione dalle avversità. Dopo la prima guerra mondiale, invece, l’enfasi viene posta sull’Eneide come un’epica contro la guerra.
Shakespeare attinge da Virgilio come fonte per la mitologia classica. Enea e Didone sono il modello per il suo Antonio e Cleopatra. Enea è la guida morale di ogni eroe romano che mette in scena. E Shakespeare definisce l’Inghilterra «like little body with a mighty heart», un piccolo corpo con un cuore valoroso, proprio come Virgilio descrive le api: «Ingentes animos angusto in pectore versant».
Tennyson si ispira a Virgilio per comporre un poema sul mito delle origini della monarchia britannica, “Idylls of the King”; come Virgilio, è in bilico tra il celebrare l’impero e ammettere quanti lutti comporta.
Chiaro, siamo ancora in un bignami, non si troverà nulla a complemento di quel che ho riportato. Non è approfondito il motivo per cui Shakespeare “attinge” proprio da Virgilio, non sono discusse le implicazioni e i limiti di tali “ispirazioni”, non viene spiegato esattamente come l’Eneide fu usata dai pacifisti. Ma… è sufficiente, lo ribadisco ancora a gran voce. Quando eravamo i padroni del mondo è in sostanza pensato per il lettore di Bruno Vespa, e Dio solo sa quanto un simile soggetto abbia bisogno di qualche idea in più: la semplice iniezione intracranica di Franklin&Co. che citano un poema latino vecchio di millesettecento anni è già qualcosa di positivo. E quindi, approvo e basta.
Approvo anche il seguente ristrettissimo brodino, con cui ho la possibilità di richiamare alla memoria lo scontro fra Cicerone e Catilina:
Cicerone capisce di avere la partita in pugno. Fa arrestare i congiurati rimasti. Un capo emergente della fazione dei popolari, Caio Giulio Cesare, tenta di salvare loro la vita, con un’argomentazione un po’ capziosa: la morte è una pena inefficace, perché coincide con la fine delle umane sofferenze; il carcere sì sarebbe una punizione adeguata. Ma Cicerone fa strangolare i congiurati in cella, senza processo. Una violazione del diritto che gli costerà cara: cinque anni dopo sarà condannato all’esilio proprio per questo. Ma sul momento Cicerone trionfa. Dà notizia alla folla dell’esecuzione con una sola parola: «Vixerunt», vissero; quindi sono morti.
Ho parlato in precedenza delle parole come donnine PR. Bell’immagine del cacchio, eh? Tuttavia, e ritengo che già a questo punto ve ne siate accorti, è un’immagine in fin dei conti molto calzante, perché effettivamente la prosa del nostro autore è l’elemento migliore del libro. Cazzullo riesce a colorare il discorso con tinte prese in prestito direttamente dalla pura narrativa: osservate infatti il ritmo serrato e deciso del brano appena citato, molto adatto a raccontare gli ultimi sprazzi della partita fra Cicerone e i congiurati. Sembra quasi un estremo tambureggiare, con i colpi che convergono fino a quello definitivo, bello forte, nel testo corrispondente a “sono morti”. Sì, il nostro autore ci sa fare sotto questo aspetto. Non lo celebrerei quale pilastro della letteratura, però si discosta quanto basta dagli stilemi del quarto potere, proponendoci una scrittura gradevole e coinvolgente, ancor più di quanto riescono a fare certi “narratori”, inconsapevolmente fottuti proprio da uno stile appreso guardando passivi ore e ore di talk show e di news24.
Giusto per portare qualche altro esempio a sostegno della mia opinione, ecco le descrizioni di alcune figure storiche, a cominciare da Virgilio:
Balbettava, e il suo amico Orazio lo prendeva in giro per questo. Augusto lo pregava di leggergli l’Eneide davanti ai cortigiani, e lo metteva in imbarazzo. Virgilio doveva essere un uomo adorabile.
[Cesare] […] a differenza del suo grande estimatore Napoleone, era alto e bello; il che nella vita può sempre aiutare.
[…]
Si macchiò di crudeltà spaventose, di massacri inauditi: gli storici moderni gli attribuiscono quasi un milione di morti […]. Poi la sua accortezza e la sua sensibilità potevano ispirargli gesti nobili e generosi, o anche reazioni inattese.
Quando gli egiziani per ingraziarselo gli mostrarono la testa mozzata del suo grande nemico, Pompeo, Cesare pianse. Eppure era appena arrivato in Egitto per uccidere Pompeo.
C’è però quel bestione di Marco Antonio, che si farebbe uccidere per difendere Cesare: il senatore Trebonio ha l’incarico di trattenerlo fuori dalla Curia, con vaghi e lunghi discorsi.
Cleopatra gli [ad Antonio] si presentò su una nave, non a prua come Kate Winslet in Titanic, ma a poppa, mollemente sdraiata sotto un baldacchino d’oro. Resisterle non era facile; e Antonio non ci provò neppure.
[Ottaviano] [e]ra malaticcio, freddoloso – d’inverno indossava maglie di lana e quattro tuniche sotto la toga –, piccolo di statura: portava i calzari con i rialzi, come Berlusconi.
[…]
Il giorno in cui Giulia venne al mondo, Ottaviano divorziò. Voleva una donna più giovane: Livia, un’aristocratica che aveva solo diciannove anni. Però era già sposata, aveva già un figlio, Tiberio Claudio Nerone, e ne aspettava un altro. Ottaviano la obbligò a divorziare e la sposò incinta di sei mesi. Quando nacque il bambino, Druso Claudio Nerone, lo fece riportare al padre, dicendo sprezzante: «Non è roba mia».
Insomma, avete capito. A parte quell’infelice rimando al povero Silvio, purtroppo un tentativo finito male di strappare una risata senza usare vituperi e parolacce (oh, Aldo, fai come me, sbattitene), in generale sembra di passare in rassegna una sfilza di personaggi. Intendiamoci, è positivo, stavolta: sono proprio i personaggi di un romanzo, ben caratterizzati, “a tutto tondo”. Non ci sono cattivi soltanto cattivi, non buoni soltanto buoni; e c’è dovizia di particolari gustosi, mettiamola così. Grazie al cielo Cazzullo sorvola su eventuali “fece questo con la mano destra”, non risparmiandoci però quel che ci può intrigare, come lo sprezzante “«Non è roba mia»” pronunciato da Ottaviano.
Certo, il nostro autore è avvantaggiato dai pettegolezzi accumulatisi nel corso del tempo: praticamente s’è trovato con personaggi già belli e fatti. Ma almeno ha avuto cura di attenersi al modello, non cedendo né a improbabili “virtuosismi” che avrebbero fatto del povero Cesare un rimbambito tratto di peso da Punto pieno, né a una scarna e asettica trattazione da dipartimento di studi storici. Perfetto, Quando eravamo i padroni del mondo si dimostra in linea con le intenzioni e con le aspettative del pubblico cui si rivolge.
Cazz… ullate
Appunto, il livello è pari a quello raggiunto da A riveder le stelle, nulla da recriminare. Però, però, però. Non è tutto rose e fiori, lo sapete, ve l’ho anticipato. E adesso mi sembra giusto dilungarmi alquanto su qualche caveat (uh, parlo latino… nah, in realtà sto parlando inglese, come al solito… storia lunga, lasciamo stare), così da permettervi di gustare il piacere della lettura, senza correre (troppo) il pericolo di farvi infinocchiare.
Prima cosa: ci sono degli errori palesi, lapalissiani, irredimibili.
Ad esempio, Quando eravamo i padroni del mondo sembra convinto che “cives” sia nominativo singolare, ma è plurale: “civis” è la forma corretta. Poi: per qualche motivo, menzionando la famosa profezia del “puer” virgiliano, il libro ci informa che essa è inclusa “nelle Georgiche”, benché sia il tema centrale della IV Egloga. C’è poi uno strano passaggio, che riporto con qualche innocuo taglio:
Roma era sua; restava da capire che farne. Dopo quattro anni, la guerra civile era vinta.
[…].
A Roma Cesare si concesse un altro trionfo, violando l’ennesimo tabù: stavolta si festeggiava apertamente una vittoria su altri romani. Cicerone fece finta di niente, e lo accolse nella sua villa sul mare, a Pozzuoli, presso Napoli. La cena fu gradevole, anche perché non si parlò di politica ma di letteratura.
[…]
[…] [L]a passione di Cesare per l’oratoria e la poesia era autentica: invitò a cena Catullo, che pure l’aveva insultato in versi che oggi definiremmo omofobi.
Leggendo, pare che Catullo sia ospite di Cesare dopo la fine della guerra civile. Il problema è che Catullo era già passato a miglior vita da un pezzo. Ora, quest’ultimo “errore” credo sia tale solo perché il nostro autore s’è lasciato andare a un’ingenua associazione di idee: siccome si stava parlando di una cena con Cicerone, ah, ecco!, pure Catullo aveva mangiato insieme a Cesare (questo è vero, lo riporta Svetonio, il quale dice pure che Catullo si scusò, evidentemente non riferendosi ancora a Cesare con “frocio infame”), ’spetta ’n po’ che mo’ me lo segno. Il risultato è appunto un quid pro quo, che non fa comunque una buona pubblicità al libro.
A essere onesta, sono convinta che pure gli altri esempi siano dei quid pro quo, o dei lapsus, o una qualsivoglia altra espressione latina. Cazzullo non è un cazz… u… llo… scusate, scusatemi tanto… senz’arte né parte che ha voluto buttare il suo nome su una copertina: i compiti li ha certamente fatti, solo che, ahimè, le sviste e gli attorcigliamenti capitano, specie se si deve lottare con i marchi a fuoco che il giornalismo imprime nel cervello. Come in tante altre occasioni, mi sento di stabilire che i suddetti scivoloni, benché non scusabili nel giudizio complessivo sull’opera, sono più che altro sintomo di un editing scadente.
Non ci sono però solo gli errori palesi, eh no. Il nostro autore sembra spesso in difficoltà, quando si tratta di proporre ragionamenti, osservazioni metastoriche e simili. Considerate questo stralcio:
Viene da chiedersi perché, dovendo inventarsi una storia comune, un grande popolo come i romani raffigurasse i propri antenati come assassini e stupratori. Tuttavia accade che all’origine di una grande storia ci sia il delitto: è così anche nella Bibbia, dove Caino uccide Abele.
Uhm, non vedete nulla di strano, mi sa. Caino e Abele, Romolo e Remo: il parallelo, c’è, no? In effetti… no. Innanzitutto, ci sarebbe da dibattere su chi considerare fondatore (mitico) di Roma: Romolo, o Enea? Già questo… meh. Ad ogni modo, prendiamo per buono che il mito vero, fondamentale e popolarmente sentito sia quello di Romolo. Ebbene, se i Romani avevano davvero il concetto di un capostipite fratricida (che però non era un comune fratricida, ma un esecutore della volontà celeste, uno che sin da subito ama la comunità più della sua stessa famiglia, eccetera), gli Ebrei… manco p’ ’a capa. La discendenza israelitica non origina né da Caino né da Abele, bensì da Set, che viene concesso da Dio a Adamo come rimpiazzo per gli altri due figli degeneri: uno degenere, appunto, perché assassino, l’altro degenere perché troppo debole e… morto. Insomma, il parallelo può anche starci in termini molto generici, però non è che sia proprio azzeccato.
Altro esempio, altrettanto sottile. Cazzullo scrive queste parole:
Eppure qualcosa di particolare dovevano averlo, questi abitanti di una cittadina come tante che divennero padroni del mondo conosciuto senza un re, senza una dinastia, senza una casata dominante.
[…]
I sanniti che sconfiggono i legionari e anziché sterminarli, come avrebbero fatto i romani, si limitano a umiliarli, costringendoli a passare sotto le forche caudine (che però potrebbero essere solo una metafora per celare una violenza sessuale), e finendo per stimolare la loro sete di rivincita.
D’accordo, voi che pensate, lettori? Be’, suppongo pensiate quello che penso io: Quando eravamo i padroni del mondo si fa una domanda e si dà una risposta. I Romani erano sterminatori efficienti (ma, a differenza di altri ferocissimi, come i Mongoli o i Giapponesi, di solito si fermavano quando il nemico era ormai sicuramente sottomesso) e forse è proprio tale caratteristica ad aver assicurato, nel lungo periodo, il successo della loro civiltà.
Ebbene, Cazzullo appunto accenna alla brutalità latina, e lo fa in più punti, però… però sembra che svicoli, e che non ne tragga le dovute conseguenze. Tanto per dire, nefandezze e crudeltà sono principalmente associate a singoli individui, come abbiamo visto en passant (Cesare e Ottaviano, Marco Antonio…), mentre la mentalità in sé dei Romani ne esce pressappoco pulita. Anzi, quando il libro parla di “cultura violenta” o “prevaricatrice” in generale, ne fa quasi una “curiosità” da Settimana Enigmistica, una nota a margine: va bene, va bene, i Romani erano anche terribili, adesso concentriamoci sui loro poemi, sulle loro istituzioni, su Asterix e Obelix.
E sì che le fonti antiche non sono dello stesso avviso, in particolare quelle greche, le quali si concentrano molto sulla crudeltà dei Romani tutti, tanto da considerarli i più brutali e pericolosi barbari mai affrontati (avendo i greci combattuto contro i Persiani, ben noti per non essere dei santi, fa riflettere).
I Romani erano buoni. Seee, col cazz… ullo
Non mi è chiaro il motivo per cui il nostro autore ha deciso di non insistere troppo nell’analisi delle (scarse) qualità morali dei Romani e, soprattutto, nell’analisi della loro cultura bellica, tuttavia posso azzardare un’ipotesi. Tali “brutture” potrebbero danneggiare l’immagine di una Roma accogliente, generosa, quasi “umanitaria”: e una Roma così, in effetti, compare abbastanza prepotentemente in molti luoghi di Quando eravamo i padroni del mondo. Volete i riscontri testuali? Eccone alcuni:
L’impero americano, proprio come quello romano, si è costruito stringendo alleanze e patti diversi con diversi popoli […].
Perché si poteva diventare romani qualunque fosse la propria origine, qualunque fosse il colore della propria pelle, qualunque fosse il proprio dio.
[…] del mito fondativo fa parte anche l’idea dell’accoglienza, dell’integrazione, di un popolo che nasce da una commistione di sangui, di fedi, di etnie.
[…] Roma teneva a bada i barbari con eserciti composti e comandati da barbari, che spesso potevano mantenere il loro grido di guerra.
E va ricordato che i romani, per quanto intimamente convinti della propria superiorità, non erano razzisti; tranne che con i goti, presi in giro perché troppo alti e troppo biondi.
Ah, qui siamo in piena attualità, altroché! Perfino il più sprovveduto e analfabeta nel pubblico cazzulliano riconoscerebbe allusioni alle relazioni internazionali e, in special modo, alla crisi migratoria che l’Europa (degli Stati Uniti si parla sempre poco, e i migranti messicani vengono puntualmente definiti “clandestini” o “irregolari” dai tiggì… chissà perché?) da molto sta affrontando (o subendo, dipende dalle interpretazioni).
Ora, guardare al passato può aiutarci ad agire nel presente, su questo non ci piove. È però sempre in agguato il pericolo di deformare il passato affinché faccia da sostegno a un’opinione, o pregiudizio, che noi già abbiamo a proposito del presente. Ecco, non dico che Quando eravamo i padroni del mondo sia da cima a fondo un bell’esempio di “passato deformato”, nondimeno… è innegabile che le suggestioni dei succitati estratti siano troppo in linea con una certa politica di oggidì e troppo poco in linea con la realtà dell’altro ieri. E che io abbia ragione, o almeno “non torto”, lo dimostrano le seguenti parole del nostro autore, le quali contraddicono bellamente le varie idee messeci in testa dai passi sulla tolleranza romana:
Oggi per i popoli dell’Occidente appare ovvio che tutti gli esseri umani abbiano gli stessi diritti e doveri. Poi certo ci sono i ricchi e i poveri. Ma nessuno vale più o meno di un altro per il colore della sua pelle, per la condizione dei suoi genitori, per il posto da cui viene, per il nome che porta, per il Dio in cui crede. Eppure è un’idea recentissima. Che in molti Paesi ancora non viene riconosciuta.
Occhei, a parte il fatto che secondo me molti abitanti, che so, di Detroit (ma anche di Roma stessa, eh) avrebbero da ridire sul fatto che oggi in Occidente “nessuno vale più o meno di un altro per il colore della sua pelle, [o] per la condizione dei suoi genitori”, se una simile idea di superamento delle differenze intrinseche (fisiche, etniche e culturali) è “recentissima”, allora che ci dobbiamo fare con l’affermazione che per i Romani non erano importanti le origini, la pelle e il dio? Ci facciamo, ovvio, quel che ci avremmo fatto istintivamente, la buttiamo nel cesso: perché non è mai stato così. Del resto, di che Roma stiamo parlando? Basterebbe soltanto considerare il rapporto fra l’Urbe e il cristianesimo: inizialmente, i cristiani furono perseguitati in quanto cristiani; poi i Romani divennero essi stessi fedeli di Gesù, e di niente e di nessun altro, per legge. Ebbene, Cazzullo ricorda a grandi linee sia la persecuzione dei cristiani (prova perfino a dare una spiegazione, suggerendoci che furono le inedite aspirazioni universalistiche della nuova religione a impensierire Roma), sia quella, in seguito, dei pagani: chi gliel’ha fatto fare di mantenere la dichiarazione secondo cui a Roma non importava a quale dio si offrivano sacrifici? I martiri, e i seguaci di Giove giustiziati, se potessero farlo, mostrerebbero il loro disappunto.
Precisate voi: il nostro autore parla di “cittadinanza”, non ha sostenuto che tutte le religioni erano accolte, bensì che la religione, per quanto osteggiata, non era di per sé un impedimento per il singolo, almeno per quel che riguarda l’acquisizione di una piena identità giuridica. In fin dei conti, san Paolo era cittadino romano, vero?
Sì, allora… intanto Paolo era cittadino per nascita, e… e inoltre non è chiaro come la sua famiglia avesse ottenuto tale status. Ci sono diverse ipotesi, dalla concessione del potentato di turno (per ragioni di propaganda), ai meriti militari di qualche antenato; da una lontana parentela illustre, all’affrancatura dalla condizione di schiavo di un bisnonno o di un trisavolo. Beghe da storici. A noi interessa soffermarci su due aspetti: il primo è che nessuna ipotesi contempla una cittadinanza ottenuta soltanto “per dovere morale” o per “umanità”; il secondo è che dobbiamo tenere a mente l’origine di Paolo. Era ebreo. Non proprio uno qualunque, insomma: e quindi, non possiamo davvero prescindere dai suoi natali, dalla sua pelle o dalla sua religione. O meglio, questi aspetti importavano ai Romani perché sulla base di essi potevano discriminare gli esseri umani in due categorie: quelli conquistati e quelli non conquistati.
Ora, questo è un punto fondamentale. Ribadisco, dai passi che ho citato, e da molti altri, Quando eravamo i padroni del mondo sembra inserirsi in un filone divulgativo alquanto recente, che tende appunto a presentare i Romani in particolare, e in generale l’Antichità, sotto una luce di tolleranza e di inclusione. Ma si tratta di un’interpretazione molto, molto tirata. La questione della cittadinanza, specialmente, è emblematica: non bisogna cedere all’idea che i Romani dibattessero come noi oggi, a proposito di applicazione di principi universali di solidarietà, di “ius soli”, o di centri di accoglienza per stranieri richiedenti asilo. I Romani distruggevano e conquistavano: i famosi “stranieri” erano in realtà “stranieri a casa loro”. Eh sì, a un certo punto i legionari erano entrati in terre abitate, avevano massacrato chi si opponeva, e avevano decretato che lì c’erano nuovi padroni. E chi da generazioni era stanziale in quei luoghi, di punto in bianco era considerato (e trattato da) straniero. In generale, non tanto gli stranieri si presentavano alle porte di Roma, bensì Roma si presentav… anzi, sfondava le porte degli “stranieri”.
Certo, poi ci fu l’editto di Caracalla, il quale è esposto da Cazzullo in un paragrafetto striminzito:
[…] Caracalla, nel 212 dopo Cristo concesse la cittadinanza romana a tutti gli abitanti liberi dell’impero. Più di trenta milioni di provinciali diventavano a tutti gli effetti romani. Caracalla non era un buono: l’anno prima aveva fatto assassinare il fratello Geta; e lui stesso cinque anni dopo sarebbe stato ucciso da una guardia del corpo. Semplicemente, Caracalla fece quello che riteneva insieme giusto e conveniente. In fondo stava replicando, su scala incomparabilmente più vasta, quello che quasi mille anni prima aveva fatto Romolo: trasformare gli stranieri e i senzapatria in romani.
“[T]rasformare gli stranieri e i senzapatria”, sì? Non proprio. Per non cadere in una facile e dannosa confusione, bisogna riprendere quel “gli abitanti liberi dell’impero”. L’editto di Caracalla può pure essere considerato epocale (e solo di recente ha acquisito tale fama), ma a noi, oggi, serve a ben poco rifletterci su, perché appunto esso si riferiva ai “conquistati”: i “senzapatria”, di cui parla il nostro autore, una patria in realtà l’avevano eccome, solo che era stata strappata loro di mano proprio da Roma. Roma, che nel 212 concedeva generosamente il privilegio (tra gli altri) di non essere torturati in caso di arresto.
Be’, capite che qualunque paragone, palese o insinuato, con l’attualità non regge: è come se noi oggi discutessimo sì della possibilità di estendere la cittadinanza italiana, che so, ai ghanesi, ma dopo aver spremuto per decenni… no, per secoli… il Ghana stesso. E tale discussione avrebbe come fulcro non il bene dei ghanesi, ma il vantaggio dell’apparato statale che li domina. Forse, mi viene da pensare, se Israele concedesse i pieni diritti ai Palestinesi potremmo avere una Roma contemporanea: ma, appunto, perché Israele si comporta in un certo modo molto romano, con i Palestinesi.
Ehi, che dico?, ci sono già gli Stati Uniti, ancora loro (non parlo della Russia perché… ma chi mai vuole finirci, in Russia?!). Eh sì, poiché danno con gioia la green card a chi è ferrato nelle materie STEM e a chi si presenta con la tasche piene di piccioli, lasciandola praticamente sognare a tutti gli altri (specie a coloro che soffrono di personali difficoltà, o che provengono da “paesi ostili”, ossia grossomodo “non ancora conquistati”), sono una bella manifestazione up-to-date dell’antica “inclusività” romana. Se pensate che stia esagerando, sappiate che mi è capitato di sentire chiaramente, in una puntata di 90 giorni per innamorarsi (solito show-cazzata da “estrogeno network”), un avvocato dichiarare tranquillo a un povero (semidelinquente) moldavo che, non essendo cittadino americano, egli non aveva alcun diritto. In particolare, doveva aspettarsi di essere buttato giù dal letto in piena notte e ricacciato a pedate in Siberia, senza neanche poter appellare la decisione. E perché? Be’, perché l’FBI poteva avere “dei sospetti” di qualche tipo su di lui. Ah, l’Occidente! Ah, Roma!
Si sentono proprio sto cazz… ullo
Vabbè, non voglio divagare, e non voglio neanche farla troppo lunga, tanto immagino abbiate capito il mio discorso a proposito delle sottili insinuazioni di Quando eravamo i padroni del mondo. Aver menzionato gli Stati Uniti, però, mi dà occasione per riflettere su altre suggestioni cazzulliane. Correttamente, l’abbiamo visto di fretta, il nostro autore tratta dell’interesse che di là dell’Atlantico hanno per Roma, soprattutto per la Roma imperiale. Un caso di emulazione, di ammirazione, di identificazione, di…? Cazzullo sembra propendere per la genuina ammirazione. E gli Stati Uniti non sono l’unico esempio, anche la Gran Bretagna è spesso tirata in ballo. A dire il vero, stando alle parole del libro, qualunque altra nazione potrebbe andar bene, perché…
Ogni impero della storia si è creduto e si è presentato come l’erede dei romani.
Ecco un bel difetto, direi, da giornalista. La generalizzazione assoluta, l’iperbole incontrollabile. Andiamo, la frase sarà anche a effetto, però non è vero che ogni impero ha fatto i conti con Roma. In precedenza ho parlato di Mongoli e Giapponesi: ecco, che all’Impero di Gengis Khan fregava qualcosa di Roma? E agli shōgun dell’Impero giapponese? Forse ad Augusto o a Cesare si sono esplicitamente riferiti… uh… Dario I, o Qin Shi Huangdi?! Eppure, si tratta di imperi e imperatori della storia (inzommma…), no? Per non parlare dell’Impero britannico!
Cosa?!
Occhei, capisco le vostre perplessità. L’Impero britannico è appunto stracitato fra gli eredi di Roma, Cazzullo gli dedica pagine e pagine… Shakespeare e gli altri… che succede? In effetti, quel che dice il nostro autore è vero, non si inventa nulla. Tuttavia credo si sia lasciato trasportare un po’ troppo dal sentimento: non è affatto sicuro che riferirsi a una civiltà, riprenderne stilemi e peculiarità, rappresenti una forma di amore, di ammirazione, di continuità. Del resto, la storia stessa di Roma dovrebbe insegnarlo: “Graecia capta, ferum victorem cepit”, sì, ma Roma rimase Roma, non si definì mai “erede di Atene”, e, soprattutto, tenne ben saldo il potere terreno, continuando a schiacciare la Grecia fino all’ultimo giorno. Per l’Impero britannico, il discorso è simile: non c’è dubbio che la romanità classica abbia affascinato gli inglesi, ma… gli inglesi colti, innanzitutto. I riferimenti culturali alla civiltà latina, a ben guardare, sono come i trofei degli animali esotici: un argomento di conversazione, uno sfoggio di status, un… un contorno, ecco. Lo spirito nazionale britannico, se esiste una cosa del genere, s’è invece tenuto ben lontano dal rivendicare un’eredità: ha pensato sé stesso come un unicum storico, come una novità assoluta e scelta dal destino. L’apice della creazione, per così dire, non una semplice continuazione di ciò che è stato, o una sua riproposizione. A sostegno di quel che affermo, vi riporto la prima strofa della tradizionale marcia The British Granadier:
Some talk of Alexander, and some of Hercules
Of Hector and Lysander, and such great names as these.
But of all the world’s great heroes, there’s none that can compare.
With a tow, row, row, row, row, row, to the British Grenadiers.
Ah, vedete? Tanti parlano di Alessandro, di Ercole, dei grandi nomi dell’antichità, ma chi di loro può reggere il confronto con… i granatieri britannici? Queste parole, non un’esaltazione di Roma (o di altri, per quel che importa) esprimono la mentalità inglese, la mentalità che ha permesso agli inglesi di diventare un impero, ancor più spettacolare di quello, che so, dei tempi di Traiano.
D’altronde, già l’adozione dell’inglese come lingua del cerimoniale d’incoronazione (al posto del latino!) è indice della costruzione di un’identità (o si tratta di autostima?) nazionale solida e sana, slegata da un senso di sudditanza e di inferiorità riferito agli illustri precedenti. Senso, quest’ultimo, pericolosamente insito anche nell’idea di aver “raccolto un’eredità”. Cazzullo ricorda la supremazia della lingua inglese, però, ancora una volta, non si decide a espandere l’analisi, lasciando a noi il compito di trarre le dovute, e interessanti conseguenze.
No, perché, dico, magari una robusta identità nazionale, un senso di “noi siamo noi, e siamo stocazzo”, è quel che serve per garantire una certa prosperità al proprio sistema socioculturale, no? Eh, purtroppo no. Almeno, “no” è quel che sembriamo pensare qui in Italia. Ribadisco che Quando eravamo i padroni del mondo, a partire dal suo titolo, intende risollevare il nostro morale: ma lo fa appunto parlandoci di quanto gli altri, quelli col coltello dalla parte del manico, siano innamorati di Roma, e nel far ciò si concede pure di stiracchiare una realtà ben più modesta. Però, mi domando, se abbiamo appreso che noi non siamo proprio quei Romani “ammirati” da sorridenti inglesi e da statuari americani, in che senso dovrebbe farci star bene ricordare che c’era quello Shakespeare lì che copiava Virgilio, che parlava di Antonio, di Cleopatra…?
E se poi non fosse vero un cazz… ullo?
Mistero, mi sa, mistero che la mia povera mente da non giornalista si rifiuta di elaborare. Ehi!, il nostro autore invece la mente da giornalista ce l’ha ancora bella arzilla, e benché, come ho specificato, per questo saggio si sia sforzato di tenerla a freno, essa emerge qua e là, oltre che nei luoghi che ho finora esaminato. Ad esempio, riflettete su questo stralcio:
[…] le voci sulla sua [di Ottaviano] crudeltà l’avrebbero sempre perseguitato. Si diceva che amasse cavare personalmente gli occhi ai nemici.
[…]
[Durante il secondo triumvirato] [c]i furono scene raccapriccianti, come neppure ai tempi di Silla. Lepido fece ammazzare il fratello, Antonio lo zio, Ottaviano torturò di persona i nemici.
Ahi, ahi, ahi, ahi, il vizietto di costruire le notizie sul sentito dire! Dal “si dice” al “lo fece”, facile, no? Quando eravamo i padroni del mondo riporta che di Ottaviano ci sono voci, che si sospetta(va) delle sue torture a danno dei nemici, e d’accordo: ma poi, di punto in bianco, i sospetti diventano una certezza assoluta, un fatto storico granitico e non un device letterario (quale è, alla fine della fiera, nel “racconto” che ci espone il saggio). Va bene che eliminare ogni traccia di dubbio rende la narrazione più lineare e gradevole, però Quando eravamo i padroni del mondo è ancora un saggio nella sua essenza, e un saggio non dovrebbe lasciarsi andare, neppure per ragioni di “docere delectando”. Il “docere” deve sempre avere la precedenza. Non si fa così, è davvero un brutto atteggiamento: il lettore occasionale assimila, più che l’informazione, il modo di costruire tale informazione, e in definitiva si convince che va bene fondarsi su un sentito dire, purché esso sia interessante, originale. E, ovviamente, si abitua a ignorare le contraddizioni, col risultato che libri strapieni di stronzate (D’Avenia… sto guardando te) gli sembreranno acqua fresca, anzi dei capolavori.
Va be’, mi sa che parlo un po’ a vuoto, per quanto encomiabili nelle intenzioni, gli sforzi del nostro autore non hanno potuto molto, contro lo spirito del giornalismo che ormai s’è impadronito della sua anima. E quale manifestazione estrema dell’esiziale possessione spiritica, vi presento un altro must del giornalista (stereotipato), la leccata di culo! A onor del vero, essendo il protagonista deceduto da tempo, le leccatine di Quando eravamo i padroni del mondo sono assolutamente innocue, ma un sorrisino cringe lo strappano comunque:
Giulio Cesare – forse il più grande uomo che sia mai esistito – […].
Se fosse stato soltanto uno scrittore, o un comandante militare, o un leader politico, Caio Giulio Cesare sarebbe comunque passato alla storia. Essendo stato tutte queste tre cose insieme, possiamo considerarlo uno dei più grandi uomini che siano mai vissuti, in ogni luogo e in ogni tempo.
Eddai, cala. D’accordo che Cesare ha lasciato il segno, però di scrittori/comandanti/politici quanti ne abbiamo avuti? Churchill? Stalin? Hitler? Cacchio, addirittura Mussolini, giusto per citare i soliti noti. Che poi, Cesare mica era tutto ’sto granché come scrittore, e come politico… Cazzullo stesso ricorda che c’ha rimesso le penne, quindi…
Il più grande uomo che sia mai esistito… seeee… e Elly Schlein dove lo mettiamo, eh?
Basta, passo alle conclusioni.
Eddai, cazz… ullo! In fondo non è tanto male…
Dunque, cosa dire in definitiva? Be’, che ci sarebbero molte altre cose da esaminare, sia nel bene (molti disparati riferimenti, dall’imprenditoria digitale alle lettere classiche; etimologie; eventi storici minori) sia nel male (Arminio, non Franco, genericamente definito “capo dei cherusci” e non cittadino romano prefetto di coorte; “[l]’idea dell’uguaglianza tra gli uomini si affaccia il 4 luglio 1776, con la dichiarazione di indipendenza degli Stati Uniti d’America […]”, mentre già è presente almeno nella Lettera ai Galati). D’accordo, però anche a esaminarle non si otterrebbe un responso diverso da quello che s’è formato nelle nostre teste con tutto e solo quel che ho esposto nel corpo della recensione. Quando eravamo i padroni del mondo è sospeso, senza infamia e senza lode. O, meglio: la sua lode e la sua infamia dipendono dal contesto cui è di volta in volta indirizzato. Il contesto è colto? Be’, infamia. Il contesto è grossolano? Allora lode.
Sì, non è un libro più stupido di tanti altri perfino più pompati, e intendo pompati come fossero dei saggi colti, di grande caratura logica e didattica. Cazzullo, tutto sommato, fa un buon lavoro, e le distorsioni che propina, seppur presenti e di peso, non è che rappresentino chissà quale tremendo pericolo. Se non altro, perché il suo libro al più le consolida, non le introduce ex novo nel comune bagaglio culturale. Si poteva far meglio, sicuro, ma si poteva anche far molto di peggio, e di questi tempi è apprezzabile anche il semplice evitare il peggio. E di certo apprezzo il modo di scrivere del nostro autore, voglio sia chiaro, di là dalle mie varie sparate irriverenti. Cazzullo ha una prosa discreta ed è piacevole addentrarsi nelle sue pagine: la verve del narratore, mi sento di sbilanciarmi, non gli manca.
Pertanto, lettori, tocca a voi decidere. Insomma, dovete decidere se appartenete agli optimates o ai populares: nel primo caso, eh… magari lasciate stare, nel secondo, ma sì, dateci dentro. E comunque ricordate che simili distinzioni non sono rigide e assolute: che diavolo, magari, pur essendo optimates, vi va di sbirciare come passano il tempo i populares, no? Sia mai che, da sconfinamenti del genere, non ne tragga beneficio l’intero corpus sociale…
Oh, via, c’è un solo modo sicuro per giovare alla nostra stanca società, e la buona notizia è che potete tradurlo in pratica da voi, facilmente: eh sì, dovete solo mettervi comodi e godervi una buona lettura…