Oliva Denaro – Viola Ardone
La femmina è una brocca: chi la rompe se la piglia, così dice mia madre.
L’onore e la vergogna
A me Oliva Denaro è piaciuto, brava Viola Ardone. Uhm, a pensarci bene potrei anche finire qui e salutarvi. Però, però… so bene che voi volete una recensione come si deve, altrimenti avreste risalito la corrente e vi sareste accontentati di uno di quei bloggucci da niente. Voi pretendete, e Il pesciolino d’argento vi accontenta. È nato per questo! Ebbene, procuratevi dei generi di conforto e scoprite insieme a me questo romanzo… interessante, sorprendentemente interessante.
Vi faccio una domanda preliminare: avete mai sentito parlare di Lieta Harrison? Forse sì, perché siete dei lettori acculturati che amano informarsi. E, se già la conoscete, pure sapete che non è stato semplice indagare su di lei: non ha nemmeno una pagina su Wikipedia. A beneficio di Carofiglio, quindi, concedetemi di fare un po’ il punto su di lei: ragusana, ma di origini americane e inglesi, negli anni Sessanta, ossia proprio negli anni del boom economico, si impegnò per documentare e denunciare la difficile condizione delle sue conterranee. Un’operazione intellettuale audace, perché mentre nelle zone d’Italia, diciamo, moderne e ormai globalizzate, le gemelle Kessler sgambettavano al ritmo di Da-da-un-pa, le ragazze del sud (e in particolare del profondo sud insulare) dovevano stare molto, molto attente. Imperativo era (sarà ancora oggi, talvolta?) non mostrarsi disponibili, difendendo la propria verginità come se ne andasse della stessa vita. E in effetti era spesso una questione di vita o di morte: la donna che non giungeva all’altare pura era disonorata, destinata a essere emarginata dalla società. Non poteva vantare nemmeno il marchio di Caino, con cui Dio si degnò di proteggere l’omicida perché nessuno lo molestasse, dopo la maledizione. Tranquilli, lettori, un modo di rimediare c’era. La povera disonorata poteva riscattarsi agli occhi della morale cittadina “scegliendo” di sposarsi con l’uomo che l’aveva “sciupata”. Be’, sapete a che cosa portano simili premesse: le adolescenti abbandonate dal loro seduttore erano inevitabilmente condannate ed emarginate, mentre le donne violentate erano costrette a sposare il loro stupratore. Con immensa gioia.
Ora, si è a lungo discusso sulle ragioni per cui nel Mezzogiorno, e particolarmente in Sicilia, resisteva tenace una simile cultura, tanto legata all’idea dell’onore e del rispetto (no Gabriel Garko intended). Lasciamo per un momento Lieta, e rivolgiamoci ad Arnold Zingerle. In un suo articolo intitolato Onore e vergogna, il sociologo tedesco ha teorizzato l’esistenza di un “modello familistico di organizzazione dei rapporti sociali” diffuso nell’area mediterranea, un modello refrattario più di altri alla modernizzazione. E poiché si tratta di un modello sociale fondato sulla famiglia, pure il concetto d’onore del singolo individuo è legato alla sua capacità di prendersi cura del nucleo familiare: la donna non deve avere grilli per la testa, deve essere seria e sottomessa al marito, il quale, d’altro canto, ha il preciso dovere di salvaguardare e difendere tutti i membri del nucleo familiare. Per intenderci, in questo modello culturale, se una ragazza perde la verginità prima del matrimonio, il disonore non ricade soltanto su di lei, ma anche sull’intera famiglia, padre incluso, considerato incapace di proteggere la figlia. Un uomo “beta”, insomma. Ed è molto grave essere considerato un uomo “beta”, un debole. Una volta appurato che qualcuno è un debole, quanto ci vorrà perché qualcun altro decida di sfruttarlo, di prendersi da lui ciò che vuole e quando vuole?
Però, però. Per quanto il modello familistico possa essere resistente al cambiamento, negli anni Sessanta qualcosa era inesorabilmente destinato a cambiare. Nel 1964, appunto, la nostra Lieta Harrison pubblicò la sua inchiesta, Le svergognate, e appena due anni dopo, nel 1966, una ragazza di nome Franca Viola, si oppose decisamente e platealmente al cosiddetto matrimonio riparatore. Preferì prendere il coraggio a due mani, denunciando il suo stupratore.
Neanche a dirlo, la determinazione di Franca Viola ha ispirato artisti di ogni genere, tra cui sceneggiatori e scrittori. Opere come La moglie più bella di Damiano Damiani e Niente ci fu di Beatrice Monroy devono tutto a Franca Viola. E il mito, anche se mito non è per nulla, continua fino ad oggi: sì, perché l’ultima autrice (almeno, fino al dicembre del 2021) a essersi ispirata alla vicenda è proprio Viola Ardone. E siamo finalmente arrivati dove volevamo: Oliva Denaro è “a Franca Viola story”.
Avete a questo punto intuito che la nostra autrice aveva davanti a sé un compito per niente facile. Anche se già sapete che il libro mi è piaciuto, volete toccare con mano e decidere da voi se Viola Ardone è riuscita a raccontare qualcosa di “vecchio” con parole “nuove”, meritevoli di essere lette. Be’, il primo passo per giudicare è avere chiara la trama, non trovate?
Eroina eponima e voce narrante è appunto Oliva Denaro, una ragazzina siciliana (di Martorana) qualunque. Fin da bambina, Oliva è un maschiaccio: ama giocare con la fionda, andare a caccia di rane con suo padre Salvo, e fare lunghe corse con i suoi amici. Ma è anche particolarmente portata per lo studio, tant’è che suo padre la iscrive all’Istituto magistrale, così che possa un giorno fare la maestra. Insomma, in modo che possa in futuro badare a sé stessa. Salvo sostiene e incoraggia silenziosamente l’indipendenza e l’autonomia di Oliva, invece sua moglie Amalia (di origini calabresi), al contrario, è morbosamente legata alla tradizione. Nel tentativo di accontentare la madre, Oliva inizia a rinunciare ad alcune delle cose che amava di più: rinuncia a cacciare le rane, rinuncia a correre con gli amici, rinuncia anche a vedere la sua migliore amica, Liliana: quest’ultima è figlia di comunisti e pertanto è troppo libertina. Oliva fa tutto per obbedire a sua madre, la quale dal canto suo le comanda quasi ossessivamente di “mantenersi pulita”. Uhm, no, non si tratta di pratiche igieniche. Secondo Amalia, bisogna tenere gli occhi bassi quando si torna a casa, non si deve sorridere perché “femmina che sorride ha detto sì”, non si devono alzare le braccia sopra la linea delle spalle, nemmeno quando si balla. Eppure, e nonostante tutto l’impegno, Oliva attira comunque le sgradite attenzioni di Pino Paternò, un giovane del luogo, figlio di pasticcieri. Be’, figlio di strozzini, più che di pasticcieri. Pino Paternò fa di tutto pur di ottenere la mano di Oliva: prima la corteggia, poi la minaccia, infine la rapisce e la violenta. Certo, è ovvio, dopo la violenza il matrimonio sarà inevitabile. Oliva tuttavia non si arrende: anziché fare la “paciata”, si reca in commissariato, decisa a intraprendere una battaglia difficile ma giusta.
E qui possiamo chiudere la parentesi sulla trama.
Niente antagonisti
Lettori, vi avverto, se leggerete Oliva Denaro, due cose vi legheranno al libro fino alla fine. Di una vi parlerò più tardi, l’altra, invece, ve la rivelo subito: il raffinato approfondimento psicologico.
Già lettori, devo dire che Viola Ardone ha giocato bene le sue carte. Se conoscete già nei dettagli la biografia di Franca Viola, avrete sicuramente notato che la trama di Oliva Denaro si discosta ben poco dai fatti storici. L’autrice infatti ha deciso di non sforzarsi per pensare un nuovo intreccio, investendo invece tutte le sue energie per caratterizzare minuziosamente i suoi personaggi. Ossia: distoglie dagli eventi la nostra attenzione per indirizzarla prevalentemente al disagio, al senso di impotenza, allo sgomento e alla rabbia di Oliva e dei suoi famigliari. Uhm, i famigliari. In effetti, proprio loro, insieme a diverse “comparse”, sono i personaggi che reputo più interessanti. Perfino più della protagonista, sì. La Ardone infatti non si è focalizzata unicamente sul dolore di Oliva, bensì ha esteso il suo sguardo a tutti gli altri componenti della società, portandoci a un’inattesa conclusione: Oliva non è l’unica vittima.
Fra i personaggi più degni di nota c’è Salvo, ma questo era facile a capirsi, anche considerando il semplice riassunto della trama. Salvo è un uomo mite, di poche parole, premuroso nei confronti delle sue figlie, attento ai loro bisogni, più che alle apparenze. Così com’è, Salvo non può trovarsi in nessun modo a suo agio in una società che richiede a un uomo di essere un “guardiano” austero e, se necessario, violento. Neanche a dirlo, Salvo non è proprio il tipo che riesce con disinvoltura a imbracciare una lupara. E, infatti, non ricorre ad essa nemmeno quando tutti si aspettano che vendichi il torto subito da Oliva:
Io la lupara non la so usare, Olí, sporca le mani e a me le mani piace averle nette. Il sangue è una catena che non si spezza.
Salvo, insomma, è… un ribelle, direi. Un ribelle atipico, a cui non siamo abituati: manifesta il suo dissenso non alzando le mani, bensì non abbassando mai la testa. Giusto per fare un esempio più chiaro, dopo la violenza sessuale Amalia propone di abbandonare Martorana e di fuggire, ricominciando una nuova vita altrove, invece Salvo si oppone con poche parole lapidarie, mostrando un’insospettata fierezza:
– Amalia, – dice, e le prende il viso tra le mani. – Scappa chi il male lo fa, non chi lo sopporta.
Avete visto, eh? È molto interessante è il modo in cui la Ardone ha deciso di rendere le linee di dialogo di Salvo: al contrario di Amalia, che spesso ingoia rospi pur di non ledere amicizie e rapporti sociali, Salvo è sempre molto sincero, sfacciato perfino, e tuttavia sa essere incredibilmente diplomatico. Così risponde quando Amalia lo supplica di minacciare Musciacco, figlio del sindaco di Martorana, e di convincerlo a sposare Fortunata, sorella di Oliva:
[…] mia madre […] lanciava maledizioni in calabrese. […] «Con la lupara, ci devi parlare tu con Musciacco, con la lupara!» insisteva mia madre. Lui [Salvo] si versò un bicchiere d’acqua, lo bevve lentamente, si asciugò la bocca con il tovagliolo, si alzò di tavola, disse solo: «Non lo preferisco», e tornò a lavorare nell’orto.
E con la stessa garbata espressione risponde a Pino, che gli chiede sarcasticamente di poter ballare con Oliva, dopo averla già afferrata e fatta volteggiare:
– Il signor padre non me lo vuole concedere l’onore di un ballo con la sua bella figliola? – dice Paternò come se lo sfottesse.
Mio padre apre la bocca, resta un attimo sospeso. – Non lo preferisco, – mormora, e mi conduce via, scalza e con il vestito strappato.
Lettori, avrete sicuramente notato che il personaggio di Salvo entra spesso in conflitto con quello di sua moglie: dove Salvo è schivo, Amalia è melliflua; dove Salvo è risoluto, Amalia è terrorizzata; dove Salvo è comprensivo, Amalia è irremovibile. Verrebbe quindi spontaneo provare simpatia per Salvo, così simile ai padri moderni, piuttosto che per Amalia, vero? Insomma, uno è buono e l’altra è cattiva, mettiamola così. Ora, per la Ardone sarebbe stato molto facile banalizzare Amalia, tratteggiandola come una bigotta senza speranza. Via, su di lei si concentra tutta la nostra antipatia e il gioco è fatto. E intendiamoci, non è un gioco da villano. È in sostanza ciò che fa Jane Austen con il personaggio di Mrs. Bennett; del resto, Orgoglio e pregiudizio ha certi punti in comune con Oliva Denaro, se non altro perché anche nel romanzo della Austen la protagonista ha un rapporto speciale con il padre…
Ma torniamo a noi. Viola Ardone, come vi ho accennato, lascia perdere il giochino narrativo, preferendo non distinguere i “buoni” dai “cattivi”. Perciò, anche Amalia gode di un approfondimento psicologico, e capiamo così che in effetti la donna non ama le sue figlie meno di quanto le ami Salvo. Anzi, è proprio per amore che agisce: a ogni costo si batte perché non siano disonorate, ma soltanto perché non vuole vederle emarginate e afflitte dal conseguente comportamento dei concittadini. Amalia dunque si comporta severamente e in maniera intransigente, ordina alle sue figlie di “mantenersi pulite”, di comportarsi bene, e nel frattempo intesse amicizie di convenienza, con la sola speranza di preparare il terreno per buoni matrimoni. Per una sicurezza futura. Quello di Amalia è un tentativo di razionalizzazione: se ci si mantiene “onorate”, allora tutto andrà bene, se si seguono le regole tutto filerà liscio, se non si provocano gli altri, questi non ci faranno del male. Uhm, se “formalizziamo” in questi termini, la Sicilia degli anni Sessanta non sembra più né la Sicilia né degli anni Sessanta: non è così che pensiamo anche oggi, e dovunque? Ma certo, la colpevolizzazione della vittima di uno stupro, spesso accusata di indossare vestiti indecenti e di aver “provocato” in qualche modo l’uomo, è una questione tutt’altro che superata. Ed è forse proprio per questo motivo che il nome della protagonista è un anagramma del nome dell’autrice (l’avevate notato, lo so). Non è una scelta casuale, credo: l’anagramma comunica un forte legame fra la donna di ieri e quella di oggi.
Amalia razionalizza, dunque. Bene, faccia pure, tanto la Ardone è decisa a polverizzare ogni subdolo tentativo di razionalizzare lo stupro. E, con una certa ironia, lo fa proprio attraverso Amalia: dopo la violenza subito da Oliva, la donna si rende conto che tutti i suoi tentativi di comportarsi in maniera retta non sono valsi a nulla…
Dopo tanti sforzi per crescerle pulite, che cosa mi ritrovo? Una figlia murata in casa da un disgraziato [fa riferimento a Fortunata, malmenata da Musciacco] e un’altra consumata da un mezzo delinquente.
Non è tutto. Infine, ha una sorta di “illuminazione”, e cessa di attribuire alla donna la responsabilità di tutto ciò che accade al suo corpo:
– Ti ho preparato i panni buoni, – dice, come se mi stesse salutando prima di mandarmi a scuola.
– Stai tranquilla, mà, mi mantengo pulita.
Apre il rubinetto e inizia a sciacquare le scodelle, poi si interrompe, serra la manopola. – Non c’è bisogno: tu sei sempre pulita, – […].
Non vi dirò di più su Salvo e su Amalia, non vorrei involontariamente diminuire il loro charme e guastarvi un po’ la lettura. Tranquilli, non sono a secco di osservazioni, anche perché ci sono ancora tre personaggi di cui vale sicuramente la pena parlare. Due sono le sorelle Scibetta, figlie di un’amica di Amalia. Pur essendo poco più vecchie di Oliva, le due sorelle, Nora e Mena, sono considerate da tutto il paese delle zitelle. Una è grassa, l’altra è secca, e poiché non sono graziose, faticano a trovare marito. Ora lettori, vi ho già premesso che nella Sicilia di quei tempi il valore di un individuo era strettamente legato al nucleo familiare: una donna che non riesce a sposarsi è una donna socialmente inutile, un “tentativo malriuscito”. E dei tentativi malriusciti, si sa, si ride. Ebbene, le pressioni per trovare marito al più presto, e la frustrazione derivante da tutti i rifiuti collezionati, hanno reso le Scibetta delle maligne pettegole, felici di mettere a loro volta in ridicolo le altre donne del paese. Specie, ovvio, quelle che riescono a maritarsi. Come Amalia, le sorelle Scibetta in apparenza sono dei personaggi assolutamente negativi, le sorellastre di Cenerentola, insomma le classiche antagoniste contro cui la protagonista deve prima o poi combattere. Ah, ah, no. Abbiamo imparato che a Viola Ardone non interessa confezionare una storia godibile, all’altezza delle nostre aspettative più basse: no, intende mostrarci la miseria di tutti, buoni e cattivi. L’autrice ci racconta dunque della tristezza e del disagio di una delle sorelle, Mena, intrappolata nel suo ruolo di zitella, ruolo che non ha scelto e che non può rifiutare:
Lei [Mena] mi alza gli occhi in viso, serra le mascelle, e le guance magre si fanno ancora più spigolose. – E che altra possibilità abbiamo, Olí? Quella di rimanere zitelle, come me? È libertà, invece, questa? Sono libera io, secondo te? Sono contenta? Non mi indicano per la via, come a te […]? Ogni femmina il suo peccato.
Avevo promesso tre personaggi. Ecco l’ultimo del trio: Pino Paternò. Eh, proprio lui, il violento, il meschino, il malvagio… nah, via, in Oliva Denaro questi epiteti non possono proprio trovare spazio. Sì, è vero che in un certo senso per tutto il romanzo ci identifichiamo con Oliva, aiutati anche dalla narrazione in prima persona, e nutriamo un istintivo impulso alla fuga ogni volta che Pino compare in scena. Ma ecco, sul finale scopriamo il vero volto di Pino: non è quello di un mostro, è un volto schiavo dell’abitudine, l’esempio “di una mentalità antiquata, di una mascolinità da dimostrare a tutti e a ogni costo”. Pino non è malvagio, non desiderava infliggere sofferenza, non gode nel fare del male; ha semplicemente fatto ciò che la società richiedeva che un maschio facesse. A differenza di Salvo, Pino non ha una sua personalità: subisce l’educazione “tradizionale” e basta. Non fa domande, non si mette in discussione, non ha obiettivi propri, non ha una visione del mondo. È stato plasmato (come altri prima di lui) dalla società e, pensate un po’, non è neppure felice di questo. È andata com’è andata, e va bene così, non è né triste né bello; per Pino le cose sono come devono essere, semplicemente perché non ha la capacità, o il coraggio, di pensare cose diverse. Una volta compreso tutto ciò, insieme a Oliva osserviamo finalmente Pino nella sua vera natura, un uomo qualunque, spaesato come tutti, perfino banale:
Gesti neutrali, che non hanno nulla di scabroso, mani senza crudeltà […]. Dov’è la furia, dove sono il disprezzo e l’arroganza? E il male che mi ha fatto, lo ha attraversato senza lasciare alcuna traccia? Tutte le parole che avrei voluto dire mi affogano in gola, l’uomo con cui ho combattuto per tanto tempo non è esistito che dentro ai miei incubi […].
Finalmente… la suspense
Lettori, converrete con me che la nostra autrice ha saputo gestire bene i suoi personaggi: pochi sono nettamente definiti fin dall’inizio, i più si svelano nel corso delle pagine, mostrando spesso debolezze insospettabili e sorprendenti. E se ciò non vi spinge a sfogliare con bramosia le pagine del romanzo, be’, allora mi mangio il cappello.
Giusto, i bei personaggi sono uno dei due assi nella manica del romanzo. L’altro asso, in effetti, non è meno importante, e ugualmente vi farà apprezzare le pagine di Oliva Denaro. Sto parlando dello stile, sì. Intendiamoci, non si tratta di uno stile particolarmente elevato, anzi, è molto semplice e con numerose espressioni dialettali. In certi punti risulta perfino infantile. Be’, ma c’è una differenza fra il bello stile e uno stile bello, non è detto che entrambi debbano coincidere. Nel nostro caso, lo stile è adeguato alla storia, dunque è uno stile bello pur non essendo un bello stile. I punti in cui la lingua diventa infantile, ad esempio, vanno benone, perché sono perfettamente in linea con la giovane età di Oliva. Classico (e perciò immortale) precetto, adeguare le parole al contenuto: fatto. E brava Viola Ardone, dopo aver letto in certi improponibili romanzucoli adolescenti che parlano come dei gesuiti quarantenni, e machi che mettono in bocca cose e piangono davanti alle scimmie, fa molto piacere constatare che non tutti gli autori prendono a calci le buone norme di scrittura. Ma quel che davvero ammalia dello stile della Ardone, devo dire, è il ritmo: l’autrice sa tenerci sulle spine, sa come dispensare i colpi di scena, sa come esasperarci e come stupirci. Insomma, mi pare di capire che la Ardone è una scrittrice che conosce bene il peso delle parole, e ha l’esperienza necessaria per riuscire a restringere o a dilatare il tempo narrativo, aumentando notevolmente la suspense. La suspense! L’abbiamo pianta a lungo, e adesso eccola, affascinante come dovrebbe essere; quasi mi commuovo…
Ah, sì, certo, certo, di nuovo volete toccare con mano e verificare le mie parole. Vi propongo due esempi. Il primo è una scena clou del romanzo: Oliva, dopo la violenza, si avvia insieme ai suoi genitori verso la pasticceria della famiglia di Pino, per fare la “paciata” e quindi combinare il matrimonio…
Passiamo davanti alla caserma dei carabinieri e ce la lasciamo sulla sinistra. La scarpa senza tacco mi crea fastidio, e l’altra mi duole. In fondo alla piazza c’è la pasticceria, tra pochi metri mi consegneranno, il fastidio si fa sempre più forte. Davanti alla vetrina lui [Pino] è in piedi che aspetta, l’abito bianco e il ciuffo di gelsomini dietro l’orecchio, ricordo il profumo dolciastro, la stanza chiusa a chiave, il letto sfatto […].
Lui fa un passo, solleva un braccio e si liscia i capelli, ormai è cosa fatta. Mi volto verso mio padre, non riesco a leggere sul suo viso nessuna risposta: esausta, mi fermo.
– Io non posso andare avanti, – dico, e mi sfilo le scarpe. Un’ondata di sollievo dalla pianta del piede si diffonde per tutto il corpo. Guardo Paternò dritto in faccia, poi giro su me stessa e riprendo a camminare, scalza, in direzione contraria.
E… e così termina il capitolo. Lettori, devo proprio dirlo: questo brano è davvero un piccolo capolavoro. Molti scrittori della domenica avrebbero dato voce a tutti i tormenti interiori di Oliva mentre si dirige verso la pasticceria, avrebbero cioè reso questo brano introspettivo. Molto autori del giorno successivo alla domenica, ma precedente al lunedì, avrebbero addirittura reso il brano un lunghissimo, sbrodolato e inconcludente flusso di coscienza. Eh, però capite che l’idea dell’introspezione è problematica: necessita di calma, di scioltezza, di numerose parole che sappiano rendere l’esatta sfumatura di panico provata dalla protagonista. L’introspezione, insomma, priva di tensione la scena. Viola Ardone, non essendo appunto una scrittrice della domenica, imbocca la strada giusta: taglia completamente l’introspezione da questo brano, rendendolo asettico, impersonale. Benché a raccontare sia proprio Oliva, la nostra protagonista non ci mette al corrente del suo stato d’animo; quando scruta il viso inespressivo di suo padre, non ci dice che si sente persa, non ci dice che suo padre è la sua guida, non ci dice che se lo vede così inespressivo le prende il panico. E poi, non ci dice che prova insofferenza per l’aria vittoriosa di Pino, non ci dice che è arrabbiata con i suoi perché la “consegneranno”. Oliva si limita a riportare quel che vede, e i suoi occhi si muovono velocemente da un punto all’altro: la caserma, la scarpa rotta, la pasticceria, Pino, il viso del padre, il piede, di nuovo Pino. Ah, ah tombola, giusto?! Oliva non sta riflettendo, non bada ai dettagli, il suo cervello pensa a scatti (“Passiamo davanti alla caserma […]. La scarpa senza tacco mi crea fastidio […]. In fondo alla piazza c’è la pasticceria […]), così come i suoi occhi che saltano da un punto all’altro: Oliva è una cerbiatta terrorizzata che scruta l’ambiente circostante per trovare una via di fuga. Ecco perché il brano è così emozionante, così ben riuscito: ci restituisce senza sbavature l’immagine adrenalinica di una ragazza costretta ad andare in sposa contro la sua volontà. Se la Ardone avesse seguito un’altra dottrina stilistica, che so, la “dottrina Gamberale”, avremmo letto non la scena, bensì il commento alla scena. Eh sì, abbandonarsi a minuziose descrizioni sullo stato d’animo della protagonista porta a quel risultato: un commento, non un evento.
Ciliegina sulla torta, il capitolo da cui ho estrapolato il brano termina con un cliffhanger. A questo proposito devo essere sincera fino in fondo, lettori: la nostra autrice tende un po’ ad abusare di questo espediente narrativo. In altri capitoli il cliffhanger è decisamente superfluo; ma nel capitolo che stiamo esaminando, oh lettori!, è un vero tocco di classe, grazie soprattutto al criterio con cui sono state disposte le parole dell’ultima frase. Un criterio che definirei “antitetico”, se capite cosa voglio dire. Tutta la finezza sta infatti in quell’opposizione fra “riprendo a camminare” e “in direzione contraria”. Il fatto che Oliva riprenda a camminare suggerisce una continuità con ciò che stava facendo prima, cioè recarsi da Pino, ma poi… ecco! La nostra protagonista precisa la sua direzione: non ci dice se va a casa, se trova riparo da un’amica, se fugge verso la stazione con la speranza di prendere il primo treno e scappare lontano (e per questo saremmo spinti a iniziare il capitolo successivo). Un momento, precisa la sua direzione, e non ci spiega dove va? Non borbottate, quel che ho detto ha perfettamente senso. Sì, Oliva precisa la sua direzione, in effetti: solo, sappiamo che la sua direzione è “contraria”, e che dunque non si sta assolutamente dirigendo verso la pasticceria. Nient’altro. Già, nient’altro, ma ci basta e avanza quell’informazione, non trovate? È così pregna, così carica di significato…
Elegante è anche la scelta di interporre fra “riprendo a camminare” e “in direzione contraria” un inciso. In questo caso, non un un inciso… uhm… a caso, come quelli cui siamo abituati da altri autoracci. No, Viola Ardone sa bene come e perché va inserito: in quel punto, l’inciso dilata ancor più la suspense.
Perciò lettori, vedete, la nostra autrice sceglie davvero con cura le sue parole. Non adotta un determinato stile perché è di moda o perché le piace di più; ha come unico obiettivo suscitare emozioni potenti nel lettore. Ora, fin qui abbiamo scoperto che la Ardone è ben capace di tenerci con il fiato sospeso, facendo uso di una sintassi spezzata e sconnessa. Ma adesso vi dimostro che è capace di creare suspense anche servendosi di… una lunga lista di dettagli! Ah-ah lettori, se siete dei veri pesciolini sapete bene che molti babbalacchioni tendono a commettere lo stesso errore: già, si dilettano con interminabili sequele di dettagli inutili. Proprio inutili. Inutilissimi. Eppure, non dovete trarre un’errata e frettolosa conclusione: i dettagli non sono mai inutili di per sé. Anzi, come ho detto più volte, i dettagli sono preziosissimi per dilatare il tempo, per dare al romanzo un effetto “slow motion”. E… e infatti proprio questo è il fine della Ardone. La teoria la conosce anche lei, insomma. Eccovi il secondo esempio promesso: i protagonisti della scena sono ancora Oliva e Pino, i quali si ritrovano anni dopo la violenza sessuale…
Le ginocchia tremano per lo sforzo mentre seguo le sue azioni come al rallentatore: prende un contenitore di cartone, lo sistema al centro del banco, vi infila il dolce, lo richiude con meticolosità, afferra la carta con sopra il suo cognome, ci avvolge dentro la scatola, srotola lo spago dorato da un rocchetto, lo recide con le forbici, lega l’involto e ne arriccia i margini con la lama.
Lo notate da voi, Viola Ardone abbonda con i dettagli, quasi ci esaspera mettendoli in fila. Ma il risultato è affatto diverso da quello de Il grembo paterno, in cui troviamo la pallosissima Adele che ci parla a ruota libera di una puntata di Lady Oscar. Ed è molto diverso anche dal risultato narrativo de L’oceano in una goccia. Ma sì, quel romanzaccio di Saraceni, quello in cui scopre l’esistenza delle mani. D’accordo, d’accordo non divagherò oltre. Bene, la Ardone si concentra sui movimenti delle mani di Pino, lasciandoci intendere innanzitutto che Oliva le sta guardando con attenzione. Non solo: ci fa capire che Pino, in quel periodo della sua vita, si sta dando molto da fare. Ha un lavoro, ecco. Finito, tutto qui? No, lettori. L’accumulo di dettagli ci insegna anche qualcos’altro: Oliva e Pino si trovano l’una di fronte all’altro, ma non si stanno guardando negli occhi. Certo, so che anche a voi è capitato di incontrare una persona a voi sgradita : per impedirle di attaccare bottone con voi, avrete sicuramente finto interesse per una bazzecola. Forse per le cuticole delle vostre dita, per una cicca sull’asfalto, per una macchiolina sul vestito. E allora immagino che foste tesi, ma di una tensione poco adrenalinica, mista al disagio. Ecco, io ho scritto per filo e per segno, invece la Ardone comunica tutto ciò semplicemente con uno spiedino di “dettagli inutili”. Eh, inutili… macché inutili! In mani sapienti, altroché se sono utili!
Un paio di difettucci
Lodi, lodi, lodi. Già, finora ho parlato solo bene di Oliva Denaro… e non intendo rimangiarmi niente, credo davvero che sia un romanzo meritevole. Tuttavia, una recensione completa richiede di evidenziare anche un paio di punti non del tutto convincenti. Fra questi, vi stupirò, c’è proprio la trama. È interessante, sì, tuttavia è davvero molto, molto simile alla vicenda di Franca Viola. Troppo simile. Praticamente è identica. Addirittura, come accadde a Franca Viola, pure Oliva trova distrutto il suo orto, una vendetta per non aver voluto sposare Pino. Ripeto: ho apprezzato che l’autrice abbia preferito dedicarsi alla psicologia piuttosto che agli eventi, eppure non nego che avrei preferito una maggiore personalizzazione della Storia. Certo, in alcuni punti il romanzo prende una strada diversa dalla vicenda reale. Però, anche questo può essere un problema. Considerate, ad esempio, che Oliva Denaro si discosta dalla storia di Franca Viola a proposito del legame fra la vittima e lo stupratore: bene, d’accordo l’originalità, ma in tal caso la deviazione dai fatti crea confusione. La natura del rapporto originario fra la protagonista e Pino non è per niente chiara. Di Franca Viola, sappiamo che era fidanzata ufficialmente con il suo stupratore; dopo aver saputo però che lui era invischiato in affari poco puliti, decise di chiudere ogni rapporto. Il fidanzato, Filippo Melodia, era al contrario deciso a ottenere comunque ciò che gli era stato promesso, quindi rapì e violentò la ragazza. Le cause delle azioni di Franca Viola e del suo aguzzino sono dunque cristalline. Lo stesso, invece, non si può dire di Oliva e Pino, come ho anticipato. Non riusciamo infatti a comprendere quali sono i veri sentimenti della protagonista. È innamorata? È intimidita? Ha una leggera cotta? Mah! Talvolta sembra illanguidirsi, poi sembra soddisfatta del corteggiamento di Pino, poi ancora sembra spaventata dall’irruenza del ragazzo:
Pensavo che una volta finita la scuola non l’avrei più rivisto e sarei tornata invisibile […], invece qualche giorno dopo iniziò il fischio. In principio nessuno se ne accorse ma io subito capii che era lui. Fu il corpo a capire: labbra, fianchi, cosce, ossa, collo a sentire quel fischio diventavano vivi, come sotto il suo sguardo. Non ebbi bisogno nemmeno di accostarmi alla finestra per vedere in controluce i suoi capelli neri, ricci e brillanti, le labbra strette a cuore mentre buttavano fuori l’aria. Restavo col fiato sospeso dietro le imposte chiuse chiedendomi se poteva distinguere la mia sagoma.
Pino corteggia Oliva fischiettando un motivetto sotto casa di lei, e la nostra protagonista reagisce quasi come se si trattasse di un richiamo sessuale. Sì, lettori, ho usato proprio quella parola, “sessuale”. Leggete infatti le prime tre parti del corpo menzionate da Oliva: labbra, fianchi, cosce… caratteri sessuali (femminili) secondari, no? E anche la descrizione che fa successivamente di Pino, con i capelli “brillanti” e le labbra a cuore, suggerisce una certa attrazione. Ma allora, perché poi Oliva si oppone al corteggiamento? Potrebbe darsi che Oliva, seppur attratta da Pino, non si senta pronta al matrimonio. Nondimeno, successivamente acconsente a sposarsi con uno sconosciuto imposto dalla madre, perciò l’ipotesi che detesti il matrimonio non regge. E Oliva, al contrario di Franca Viola, non sembra neppure particolarmente impensierita dal fatto che la famiglia di Pino faccia parte della malavita. Sono strozzini, sì, non proprio killer mafiosi, però è una sottigliezza, sempre criminali sono. Pertanto, le ragioni di Oliva rimangono misteriose.
Ora, lettori, ho sinceramente apprezzato la capacità della Ardone di scegliere e soppesare con grazia e astuzia le parole, perciò sono propensa a credere che i punti deboli appena evidenziati non siano davvero dei punti deboli. Può darsi che il mistero sia proprio voluto dalla nostra autrice. Non dimentichiamoci che il romanzo ha come argomento principale la violenza sessuale, e in particolar modo accusa coloro che processano le vittime, anziché gli stupratori. E le vittime, lo ricordo una volta di più, sono spesso ree di aver “istigato” l’uomo. E infatti, anche Oliva confessa di sentirsi colpevole per aver in qualche modo “incoraggiato” Pino:
Ho scomodato tanta gente per un errore che fu mio tanto quanto suo. Questa è la verità.
Credo dunque che la Ardone abbia reso volontariamente ambiguo il rapporto fra Oliva e Pino, per far sì che fosse invece ben chiaro questo concetto: lo stupro è sempre un crimine, anche quando la donna sembra “starci”.
Va bene lettori, forse la spiegazione è proprio questa; per parte mia, continuo a ritenere che la protagonista avrebbe potuto tenere un atteggiamento ambiguo senza necessariamente sollevare così tante perplessità. Ma è giusto soprassedere. C’è anche un altro problema, però: Pino non è l’unico personaggio con cui Oliva mantiene un comportamento difficile da inquadrare, per così dire. Un esempio è la scena in cui Oliva si fidanza con il barone Altavilla: in questo punto della trama, la violenza sessuale deve ancora avvenire, ma Oliva ha già rifiutato l’offerta di matrimonio di Pino; Amalia dunque, per evitare ritorsioni da parte della famiglia di Paternò, si affretta a maritare la figlia il prima possibile. Oliva crede che il barone sia un vecchio (ma state tranquilli, ci sarà una sorpresa), e si fa prendere dallo sconforto…
Mi sento il sangue furente, come se fossi la protagonista di uno dei giornaletti di Liliana, costretta a sposare un vedovo vecchio e brutto […]. Il vecchio da vicino sembra ancora più vecchio, la sua pelle è lucida di sudore e grigia […].
– Il barone Altavilla, – dice il vecchio […]. Mi si stringe il cuore: si annuncia come se fosse un re, non si degna di dare la mano e pretende di comprarsi una moglie che ha l’età del figlio.
Lettori, nel brano in cui Oliva va a fare la “paciata” ho lodato l’assenza di introspezione, perché si trattava di un brano adrenalinico, puramente istintivo; ma in quest’ultimo brano, invece, l’introspezione è necessaria, perché Oliva è almeno in parte causa della sua “disgrazia”. Infatti, rifiutando Pino, è caduta dalla padella alla brace: è comunque costretta a sposarsi, ma addirittura con un uomo più anziano. È questo dunque il momento giusto: Oliva dovrebbe analizzare la sua situazione, per comprendere le sue colpe e quelle altrui, per giudicare sé stessa (che non ha considerato le conseguenze del suo rifiuto), per giudicare Pino (che le sta rovinando la vita), e per giudicare anche l’operato di sua madre (che sa risolvere i guai unicamente “alla vecchia maniera”).
Leggiamo invece che Oliva è “furente” (ma non sappiamo con chi è furiosa) e che si sente stringere il cuore. Non abbiamo affatto accesso ai suoi pensieri, e ciò complica un po’ lo sviluppo dell’empatia da parte nostra nei suoi riguardi.
Ma questi, lettori, sono alla fin fine dei difettucci. Nulla tolgono all’indubbia godibilità di questo romanzo. Viola Ardone è riuscita nell’intento di raccontare in maniera intelligente e sensibile una storia delicata e “scomoda”. In definitiva, non posso dirvi che Oliva Denaro sia un romanzo indimenticabile. No, non vi cambierà la vita. Ma una settimana… sì, vi cambierà una settimana. E la cambierà in meglio. Ha qualcosa di interessante da raccontare, e lo sa raccontare bene. Non è molto, dite? Vi dico invece che non è poco, di questi tempi. Se pertanto vorrete dare fiducia al vostro blog preferito, prendete per mano Oliva Denaro e perdetevi con lei nei vicoletti formati dalle parole sue pagine. Vicoletti a volte bui, eppure molto affascinanti e carichi di storia, in tutti i sensi. Se farete così, sapete già che oltre a Oliva vi accompagnerà il mio augurio di buona lettura!