Niente di vero – Veronica Raimo

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IL GIUDIZIO:

niente di vero romanzo di veronica raimo edito da giulio einaudi editore

Mi perdoni, non le sembra uno scherzo da coglione?

Quei Raimo del lago di Como…

Non riuscivo più a ridere perché ero depressa. Allora ho chiamato gente che di comicità se ne intende: Franco, Mariella, Osho, Pina, Gandhi. Tutti mi hanno detto:

Osserva il pensionato che guarda la televisione: è più felice dell’uomo più ricco del mondo. Qual è il suo segreto? Quel segreto è anche il mio. Guardare TgCom24.

E avevano ragione, cazzo, TgCom24 è un canale bellissimo. Una volta hanno fatto vedere il tipo d’America, quel Joe Bidet, che cade dai piedi su cui stava andando. E poi, e poi, un’altra volta c’era questo show, G7 si chiama, che ci sta un gorilla depilato (ma non tantissimo) con i capelli ossigenati: mi è piaciuto un fottio, soprattutto quando il gorilla si è eccitato, ha tentato di togliersi i vestiti che gli avevano messo addosso e ha urlato a tutti di spogliarsi.

Già, è stato proprio un buon consiglio. Non come quelli che mi danno le fascette dei libri. Forse dovrei seguire l’esempio di Rovelli e scegliere le letture sniffandole, perché ’ste fascette mi fregano sempre, e inizio a pensare che siano solo un trucco per vendere. Ad esempio, ci sta una fascetta con scritto sopra: “«Veronica Raimo è l’unica che mi ha fatto ridere ad alta voce con un testo scritto in prosa da quando ero adolescente». Zerocalcare”. Oh, se ride questo Zerocalcare, ridiamo tutti, no? E allora ho fatto anch’io come dice lui, ho iniziato a leggere Niente di vero. Lo sfoglio e…

Mio fratello muore tante volte al mese.
È mia madre a chiamare per avvertirmi della dipartita.
– Tuo fratello non mi risponde al telefono, – dice in un sibilo.
Per lei il telefono certifica la nostra permanenza sulla Terra, in caso di mancata risposta non esistono altre spiegazioni che una cessata attività vitale.

Ah, ah… uhm… be’, sì, insomma, cioè… veramente non è che sia tutto questo gran spasso. E però Zerocalcare… mah, passiamo oltre, del resto ho riportato l’incipit…

Mia madre trova anche normale rigurgitare in un tovagliolo le parti fibrose di un carciofo o della carne, per poi appallottolarlo e lasciarlo sul tavolo come niente fosse. […] Ricordo quando al ristorante tirò fuori dalla borsa un pacchetto di fazzoletti per confezionare le sue caramelle di cibo masticato che poi si ficcò in borsa semplicemente perché non c’era più posto sul tavolo.

Car… ciofo? Occhei, diciamo che provo a guardarmi dentro e a visualizzare le emozioni che sto provando. Ah, merda, mi sto incacchiando, questa “mia madre” mi ha già rotto le palle. E no, non sono il tipo che si incacchia ridendo. Basta, inutile cercare ancora “giusti”, non ne troverò di brani così, perciò tanto vale che Niente di vero sia colpito da fuoco e zolfo provenienti dal Signore.

Nah, d’accordo, d’accordo, facciamo i seri, ché mi sembra proprio il caso. Dico a voi, cari lettori, questa roba vi fa ridere? Almeno sorridere? Un piccolo spasmo agli angoli della bocca? Insomma, boh, c’è Zerocalcare nel mio pubblico? Be’, anche se ci fosse, sono sicura che la maggior parte di voi si sente come mi sento io: non ridete, non sorridete, non vi sforzate nemmeno. Niente di vero è moscio. Se davvero va bene, lo leggete e rimanete indifferenti. Perché?

Super Raimo Bros.

Eh… bella domanda! Bella e sorprendente: sì, interrogarci sul perché una cosa ci fa ridere o, come nel nostro caso, perché una cosa non ci fa ridere, è effettivamente porsi un quesito filosofico, scientifico, e del tipo più difficile. Siamo al livello di “che cos’è la vita?”, “perché esistiamo?”, “qual è il fine dell’universo?”. Eh, come ho detto più volte, il riso sembra avere una natura molto seria, e non sono di certo l’unica ad averlo pensato: infatti, senza cercare troppo, possiamo imbatterci in numerose teorie filosofiche a proposito della risata. Teorie, beninteso, proposte da nomi famosi, di grande caratura: Freud, Bergson, Pirandello, Kant… giusto per fare qualche nome, che sa tanto di buona tesina universitaria.

Tranquilli, tranquilli, niente tesine, sono inutili e stupide. Non voglio proprio impegnarmi a riassumere varie e classiche soluzioni al problema del riso, primo perché non sono un Fusaro, e secondo perché mi allontanerei dallo spirito della recensione, annoiandovi ancor più di quanto sia capace di fare Veronica Raimo. Ho deciso così: provo a spiegarvi qual è, almeno secondo me, il motivo essenziale per cui Niente di vero non è capace di suscitare una risata nell’animo dell’uomo normale (nell’animo dell’uomo Zerocalcare ci riesce, ma si tratta di un caso limite che studieremo un’altra volta, se ci avanzerà tempo). Famola breve, va’! Credo che Veronica Raimo abbia difficoltà, come “comica”, perché la sua scrittura manca di incongruità. O, meglio, leggendo le parole del suo libro, non riusciamo ad avere la percezione di un’incongruità.

Se ci pensate, troverete che nella stragrande maggioranza dei casi (o direttamente in tutti) quando qualcosa vi fa ridere c’è di mezzo l’inatteso, il sorprendente, il “fuori luogo”. Sfumature di contraddizioni (sempre che questa espressione abbia un senso).
Consideriamo ad esempio la classica freddura: “un uomo entra in un caffè: splash”. Il suo contenuto logico, direi, si può dividere in due parti. Nella prima, troviamo una credibile informazione che ci invita a immaginare un tipo che entra in un bar per fare colazione; bene, e dopo che ci siamo figurati la scena, rimaniamo in attesa di sapere che cosa è successo nel locale. Ed ecco che arriva l’incongruenza, nella seconda parte: “splash”! Ah, ma “caffè” era da intendersi come nome della bevanda… sì, cioè, però quest’interpretazione non è coerente con il contesto, con le altre parole! Se c’è “un uomo”, che “entra”, eh, deve esserci pure un locale, e toh!, che caso, “caffè” è usato in italiano anche per significare un tipo di locale. E siamo proprio nel giusto la maggior parte delle volte, quando ci decidiamo per tale interpretazione; appunto, proprio per questo la freddura riesce, perché contraddice la nostra abitudine e gli elementi che la giustificano. Troviamo questa contraddizione e… la risolviamo con un sorriso. Sì, ci piace risolvere le contraddizioni (questo teniamolo a mente, “ci tornerà utile più tardi”, come dice Topolino).

Altro caso esemplare? Be’, se fate attenzione, noterete ho applicato lo stesso meccanismo di “attesa-sorpresa” nell’incipit di questa recensione. Vi ho detto che ho contattato “gente che di comicità se ne intende”, inculcandovi una certa aspettativa, aspettativa che in seguito ho disatteso elencandovi nomi di persone sconosciute e di personaggi che non hanno niente a che fare con la comicità. E poi, non è tanto il dare del bidet a Joe Biden, o del gorilla a BoJo, ciò che diverte (sempre che vi siate divertiti), bensì è il tono di assoluta certezza e nonchalance con cui ho stravolto in maniera del tutto bislacca due eventi che hanno fatto notizia (e già di per sé cretini, ma cretini forte). Insomma, capite? Perché una cosa ci diverta è auspicabile, se non direttamente necessario, che essa rompa i nostri schemi preconcetti.

Ora, in Niente di vero, la nostra Veronica Raimo ci rompe diverse cose, ma non gli schemi. Ecco, per capirci, riprendiamo l’incipit:

Mio fratello muore tante volte al mese.
È mia madre a chiamare per avvertirmi della dipartita.
– Tuo fratello non mi risponde al telefono, – dice in un sibilo.
Per lei il telefono certifica la nostra permanenza sulla Terra, in caso di mancata risposta non esistono altre spiegazioni che una cessata attività vitale.

Che cosa leggiamo? Non la rottura di uno schema, leggiamo la “spiegazione” di uno schema. Con un telling mostruoso, l’autrice ci illustra perché il fratello “muore tante volte al mese”, e quasi compone un trattatello a proposito dell’ansia sproporzionata della madre. Ma il fatto che la madre sospetti che il figlio sia morto quando quest’ultimo non risponde al telefono non può essere divertente, perché… be’, ma perché è una situazione plausibile! Certo, può essere strana, fuori dal comune, ma ciò non la rende automaticamente una situazione comica. Per diventare tale, ha bisogno di essere manipolata con un minimo di intelligenza. Vi va un piccolo esercizio, di quelli che facciamo tra noi ogni tanto? Avanti, proviamo a modificare questo incipit del cacchio, applicando il meccanismo “attesa-sorpresa” e un po’ di sana mimesi, al posto del prepotente telling raimesco. Innanzitutto, l’attesa. L’incipit potrebbe iniziare così…

–Tuo fratello è morto!

Ohi, cazz… che sarà mai successo?! Un incidente? Un cancro finito come di solito finisce un cancro? Un suicidio? Mizzica, sarà mica un omicidio? Presto, presto, dobbiamo girare la pagina (eh già, perché siamo all’inizio del libro, e la prima pagina è quella a destra, perciò non vediamo subito come si sviluppa la situazione e ciò aumenta la suspense… che figata)! Leggiamo:

– Oh mamma, di nuovo?!
– Be’ tesoro, non risponde al telefono da venti minuti, che altro può essere?

La sorpresa! Non è morto nessuno, che sollievo, è solo quella vecchia ciabatta che fa casino per nulla. Lasciamoci andare a una bella risata liberatoria, via. Visto che differenza? Che su e giù di emozioni? Tutt’altra cosa rispetto a quel “[m]io fratello muore tante volte al mese”, gne, gne, gne, che spiega la situazione e toglie ogni voglia di continuare a stancarsi gli occhi sulla carta inchiostrata.

Che risate, boia!

Ora, mi sa che l’avete capito, quanto detto per l’incipit vale per tutto il libro. La Raimo ci propone in maniera pallosa alcune stranezze della sua famiglia, e si aspetta che ne ridiamo soltanto perché sono… uhm… delle stranezze. Lazy, eh? Tanto per dirne un’altra, sempre a proposito della madre (mi ripeto: questo personaggio ha rotto), la nostra autrice ci racconta che la vecchia è in grado di reperire qualunque numero di telefono pur di rintracciare i figli e assicurarsi che stiano bene…

[…] mentre mi trovavo con Cecilia e altre due amiche – Glenda e Milena – in una gigantesca vasca idromassaggio a una festa di perfetti sconosciuti rimorchiati per strada, ci fu un’irruzione in bagno: – C’è Francesca al telefono, – disse un ragazzino allucinato controllando la temperatura dell’acqua. Erano le due di notte. Io e le mie amiche […] ci guardammo per capire cosa farne di quell’informazione. Era un messaggio in codice che solo la più scaltra di noi poteva cogliere? La parola d’ordine per la seconda parte della serata? Ma poi aggiunse: – Dice che è la madre di Verika [nomignolo con cui a volte è chiamata la Raimo].
Mezz’ora dopo mio padre era lì sotto ad aspettare in macchina per riportare me e le mie amiche a casa.

Ah, ah, che risate, boia. Insomma, la parte “divertente” del brano dovrebbe essere la capacità della madre di ottenere i numeri di telefono di perfetti sconosciuti. Ehm, ed esattamente perché dovremmo considerarla divertente? Anzi, secondo me tale dote è perfino ammirevole: la madre ha i suoi assi nella manica, e riesce a mettersi in contatto con i pischelli frequentati da quegli sfigati che ha partorito. In tutto questo cosa c’è che ci flippa il cervello? Proprio nulla.
Immaginiamo adesso uno scenario diverso: il fratello dell’autrice viene rapito da un’esperta banda di criminali, che ambiscono a un sostanzioso riscatto. La polizia sta cercando di individuare il covo dei malviventi, ma senza alcun successo. Nel frattempo, il povero malcapitato è sottoposto a sevizie giorno e notte in una grotta buia, in piena campagna; è circondato da brutti ceffi, teme davvero per la propria vita. A un certo punto il silenzio è rotto dallo squillo di un telefono. I malviventi si guardano sconcertati: che cazzo ci fa un telefono in una grotta? A dopo le domande, meglio rispondere subito, può darsi che siano riusciti a rintracciarli. Il capo della banda afferra la cornetta, la porta con cautela all’orecchio, non risponde, rimane in ascolto. Gracchia la voce di una donna:

– Salve, sì sono la mamma del mio puccettino, è lì con voi?

Il capo non crede alle sue orecchie: in tanti anni di sequestratore professionista, non gli era mai capitato di essere scovato. Ma non si lascia intimorire, non deve dimenticare che il puccettino è ancora in mano sua, perciò è lui ad avere il coltello dalla parte del manico. Sogghignando…

– Ascolta bene, lo rivedi se…
– Oh, bene! Gli dica di non mancare al pranzo di domenica! E controllate che si lavi i denti!
– Tututu…

L’avete immaginata questa scenetta? Be’, abbastanza divertente, non è vero? Ancora, è tutto (dai, principalmente) merito delle incongruità che incontriamo nello svolgersi della vicenda: è incongruo che la madre sia più abile della polizia, è incongruo che ci sia un telefono in una grotta, è incongruo che i malviventi non si siano accorti prima del telefono, e, soprattutto, è incongruo che la madre iperansiosa non si renda conto del pericolo che sta correndo suo figlio. Insomma, di per sé l’ansia della madre non è divertente, ma può diventarlo se è inserita in un contesto in cui risulta (insieme ad altri particolari) decisamente fuori luogo.

Nice book, baby

Ora, va detto che talvolta negli aneddoti della Raimo c’è davvero qualche incongruità, esattamente del tipo di cui abbiamo parlato finora. Ah, quindi Niente di vero non fa ridere perché di aneddoti simili ce ne sono troppo pochi, questione risolta. Mmmmh… non mi va tanto di fare la guastafeste, però, ecco… il fatto è che non si ride neppure quando la nostra autrice riesce casualmente ad azzeccare gli elementi incongrui. Ma allora?!
Oh sì, il motivo è semplice, in fin dei conti l’abbiamo già capito: appunto, l’incongruità da sola non basta, bisogna saperla usare al momento giusto e nel luogo giusto. Tranquilli, cerco di spiegare nella maniera più completa. Facciamo il giro largo ed esaminiamo questo brano, in cui la protagonista ci racconta della sua vita sessuale da zero a diciannove anni:

Mi era capitato di ritrovarmi a letto con dei ragazzi ma, non avendo idea di cosa significasse scopare, non pensavo stesse accadendo, sebbene oggi mi sia difficile immaginare in che tipo di esperienza extracorporea fossi impegnata in quei frangenti. Non credo fosse una questione di scarsa prestanza fisica da parte altrui, quanto di un mio deficit cognitivo. Non sentivo quello che avrei dovuto sentire perché non sapevo cosa dovessi sentire.

Uhm, mi sa a me, e mi sa anche a voi, che in questo brano la nostra autrice sta raccontando un abuso sessuale. Insomma, avere rapporti con chi è privo di “consapevolezza” (cioè con chi non può “acconsentire”, come un bambino, un animale, un minorato psichico, un cadavere) è effettivamente un abuso, anzi è una perversione. Non saprei dire se la Raimo appartenga a una delle precedenti categorie, resta però il fatto che l’idea che faccia sesso, senza sapere che cosa sia effettivamente il sesso, ci scaraventa in uno stato di profondo turbamento. E non solo perché siamo invitati a immaginare la nostra autrice-personaggio senza vestiti.
C’è poco da fare, il brano che ho riportato è sostanzialmente… uh… tragico? Già, e per di più è trattato in maniera fredda e grave. Capite, no? La Raimo non parla dell’abuso con ironia, non usa chissà quale raffinato strumento retorico per racchiudere la polpa dolorosa in un guscio sagace e provocatorio, macché: l’intero stralcio è un moscissimo resoconto impersonale di un fatto, praticamente una cronaca. Di nuovo, sì.
Ebbene, proprio perché si tratta di una cronaca, tali parole hanno un inevitabile effetto su di noi: ci rattristano, o quantomeno ci inducono a essere seri, perché il nostro cervello si adatta al tono del discorso con cui entra in contatto. Ma allora scusate, che diavolo ci fa un pezzone così, che praticamente ci fa sentire delle merde, in un romanzo… com’è che va definito Niente di vero? Umoristico? Andiamo, non c’è proprio posto per un aneddoto brutale e triste in un romanzo comico e divertente! A meno che… si, a meno che l’opera sia da intendersi come soltanto comica, e non divertente. Certo, perché “comico e divertente” non è un’endiadi necessaria… ma tempo al tempo, su questo torneremo più tardi.
Be’, ad ogni modo, la Raimo trova una finezza regalarci un momento di depressione con un’infame storiella (vera o falsa?) sulle sue sfortune giovanili. Ed eccallà, quando è sicura che gli angoli della nostra bocca toccano terra, via che infila una bella scenetta cretina, un puzzolente dialogo con uno dei suoi ganzi, tale Bra:

Un pomeriggio, mentre ci slacciavamo i jeans, gli dissi:
– Sono pronta.
Mi guardò senza capire.
– Ho deciso che voglio fare l’amore.
Continuava a non capire.
– Voglio perdere la verginità. Con te.
A quel punto lo vidi vagamente allarmato.
– Smilzi [nomignolo con cui Bra chiama la protagonista], ma noi abbiamo già scopato.
Non ne avevo idea. Mi chiese con quante altre persone avessi non scopato prima di lui, ma anche quello mi sfuggiva. E mi sfugge ancora oggi. Ci sono almeno un paio di episodi sospetti, ad esempio un ragazzo di Stoccolma, che – a cose fatte – aveva commentato: «Nice fuck». L’uso della parola «nice» e non «good» o «great» mi aveva spinto a pensare che si trattasse di un eufemismo per dirmi: «Mi spiace, non è andata». E poi c’era stato un dj scheletrico che produceva un suono angoscioso, mortale, quando sbatacchiava le sue anche contro di me, e lì non so davvero cosa abbiamo fatto perché ero troppo spaventata da quella sensazione di ossario che prendeva vita.

Oh, oh, oh, ho iniziato questa parte di analisi parlando di incongruità, e qui abbiamo un sacco di incongruità! Innanzitutto, c’è un brusco cambio di registro, rispetto a quello del brano sull’abuso; e questa sterzata ha evidentemente un’intenzione umoristica. C’è poi un ulteriore cambio di registro all’interno dello stesso brano umoristico: la prima parte, infatti, sembra tratta di peso da un chick-lit di bassa lega, mentre la seconda parte propone un Bra che disfa tutta l’atmosfera sentimentale, avvalendosi anche di un po’ di turpiloquio. Non c’è bisogno di spiegarvi che chick-lit e turpiloquio non sono un’accoppiata felice (anche se qualche autrice segue una diversa teoria), vero?

Bene, proseguiamo, c’è dell’altro. Appunto, ulteriori elementi incongrui, va da sé, sono le contraddizioni che scoviamo con pochissimo sforzo. La nostra autrice, abbiamo visto, ci ha confessato che a un certo punto della sua vita non aveva “idea di cosa significasse scopare”; bene, ma poi, quando (nello stesso periodo) un tizio con cui fa all’ammore commenta la propria performance con un “nice fuck”, la Raimo si interroga sul significato di quel “nice”… sorvolando sul “fuck”. Inoltre, è stata categorica: a diciannove anni maiunagioia, però non per colpa dei suoi amanti e della loro “scarsa prestanza fisica”. No, no, per via di un suo personale “deficit cognitivo” e bla, bla. Ecco, nell’ultimo brano, ripensando ai momenti di sesso, la nostra eroina si premura di descrivere minuziosamente proprio le doti fisiche dei suoi partner: il tipo di Stoccolma era pressappoco una mezzasega, e il dj era un disgustoso scrocchiazeppi talmente brutto, ma talmente brutto…
Insomma, incongruenze. E allora perché non sento nessuno ridere, a parte il solito Zerocalcare, che però potrebbe anche star semplicemente scatarrandosi il nasino?!

Be’, proviamo a studiare il cambio di registro di cui ho parlato. È brusco, sì… troppo. Dopo essere stati messi a parte di quella tragica confidenza, rimaniamo in una sorta di “periodo refrattario” mentale, e non siamo davvero pronti a ridere e a scherzare con una scemenza che sopraggiunge immediatamente sul nostro cammino di lettura. Facciamo di nuovo un paragone con l’incipit di questa recensione. Anche in tal caso c’è un cambio di registro, infatti esordisco parlando di depressione e finisco col parlare del G7. Sì, ma il cambio di registro non è brusco, perché da subito introduco la depressione in maniera generica, più che altro nominandola; in altre parole, vi fornisco una cornice priva di dettagli. E proprio mancanza di dettagli crudi fa sì che voi sappiate di dover scegliere una scenografia “seria” (sapete che la depressione è una cosa seria), senza sentirvi emotivamente parte di tale scenografia. Vi disponete ad aspettare qualcosa di grave, ma non vi sentite emotivamente gravati, ecco. E tutto ciò fa sì che possiate poi sorridere con le disavventure di Biden&BoJo (almeno spero che abbiate sorriso), il nuovo duo slapstick che scombina ben bene i preparativi scenografici che, con un pizzico d’inganno, siete stati costretti a preparare. Seguendo le scelte artistiche della Raimo, invece, un simile meccanismo emotivo e narrativo è del tutto inceppato. Cominciamo costernati e finiamo incazzati (sempre che abbiamo fatto attenzione alle facezie successive all’abuso).

Adesso concentriamoci su quel “nice fuck”, ben commentato da una che, a suo dire, ha subito il “fuck” non capendo che cos’è. A tal proposito, mi vengono in mente i personaggi di South Park, dei bambini che nello loro avventure ci aiutano a scoprire nuove incredibili parolacce. A parte gli stronzi parlanti, creature che in fin dei conti incontriamo quotidianamente, in South Park notiamo che i bambini, benché candidamente si augurino l’un l’altro di infilarsi cose su per il culo, sono poi del tutto ignoranti in materia di sesso. Una gran bella incoerenza eh? Simile a quella della Raimo, solo che, al contrario di quella della Raimo, è divertente (sì, sì, South Park è volgare, eccetera). Giustificare questa differenza non è in fondo troppo difficile: quella di South Park è una contraddizione che in sostanza non ci inquieta. E non ci inquieta perché incoerente e folle è tutto il contesto del cartone. South Park non è mai spaventoso, perché non è mai realistico: può essere irrispettoso, dissacrante, provocatorio, blasfemo, malvagio, comunista, perfino offensivo, ma non è mai né una pornostar né una cronaca, è un sogno allucinato. Invece, leggere di una ragazza che ha il cervello di una bambina è… be’ non è così strano, succede. Succede, è una brutta cosa. E, immediatamente, ciò scatena in noi pietà, empatia; quindi, a prescindere da quel che dice il testo (ossia una descrizione fatta con nonchalance), interpretiamo la sua disavventura come un grave abuso, abuso che ci intristisce e ci fa arrabbiare al contempo. Quando poi troviamo che la tipa è in realtà completamente a suo agio davanti a un “fuck”, ci sentiamo spaventati o (che è un “vel”) presi per il culo. Eh sì, non abbiamo ulteriori elementi per stabilire che tale incoerenza è in un certo senso coerente con un mondo internamente incoerente e folle (perdonatemi il garbuglio logico). Va da sé che se ci sentiamo spaventati, o presi per il culo, rimaniamo perplessi e cerchiamo di risolvere la contraddizione per capire se siamo davvero di fronte a qualcosa di “grave”. Non spegniamo il televisore, come succede dopo aver visto South Park (va be’, se non ci piace, dopo aver visto un programma equivalente, come Porta a Porta).

“Ommioddio, ha ucciso la comicità!” “Brutta bastarda!”

D’accordo, so già che dentro di voi c’è un piccolo Zerocalcare che mi vuol fare un’obiezione: ma cara, quello della Raimo è raffinato “black humour”, non capisci un cazzo, ecco perché scrivi tutte queste balle sul tuo blog. Occhei, provo a rispondere, e per un lassativo con cui liberarvi dello Zerocalcare vi rimando al vostro farmacista di fiducia.
In effetti, ora che ci penso, ho già risposto. È sufficiente ritornare a quel piccolo elemento che ho menzionato a proposito di South Park: “sogno allucinato”. Già, il “black humour” è una “disgrazia divertente”, ma per far sì che ci si possa divertire con disgrazia (senza essere degli psicopatici) è assolutamente necessario porre un distanza emotiva fra chi ride e chi subisce, in modo che non nasca nessuna empatia per le macchiette in scena. La violenza, la volgarità estrema e le atrocità in generale sono divertenti solo quando sono inserite in una cornice giocosa, quando cioè non ci “toccano” e non provocano le stesse conseguenze che provocherebbero nella vita reale. Anzi, non solo quando non provocano le stesse conseguenze, ma anche quando bloccano ogni deduzione a riguardo. Ora, sappiate che, pur con tutta la maestria del caso, il black humour spesso fallisce miseramente (ad esempio, quando tratta di sofferenze animali riscuote un bassissimo successo); bene, ditemi quindi che cosa ci si può aspettare da Niente di vero, in cui la cornice giocosa è direttamente assente…
Anche se si tratta di un’autofiction (cioè di una cosa più vicina a Harry Potter che a Le mie prigioni), il suo contenuto è fin troppo verosimile, per poter scherzare sugli eventi negativi che ci propone. E questo nonostante che tali eventi siano delle scoregge, rispetto a quelli trattati da South Park.

Voglio spendere ancora qualche parola sull’incoerenza che riguarda i commenti della Raimo personaggio. Sì, insomma, i commenti sulla prestanza e sul fisico di quelli che hanno avuto la sfig… la fortuna di esplorarla. Be’, in questo caso il motivo per cui non si ride è semplicissimo: l’acidità. Le offese dirette non sono divertenti, non sono acute, e mettono in cattiva luce chi le pronuncia. Riflettete: quando Paperino perde la pazienza e inizia a gridare frasi incomprensibili, di chi ridiamo? Di colui che l’ha fatto arrabbiare o proprio di Paperino, che ci sembra ridicolo?
Se dunque la Raimo avesse voluto farci ridere prendendo in giro le scarse abilità amatorie dei suoi amanti, non avrebbe dovuto offenderli. Piuttosto, avrebbe dovuto caratterizzarli in maniera ridicola, farne dei Johnny Bravo, non degli Elephant Man. Così, ad esempio, ancora con un po’ di sano showing:

– Sono pronta.
Mi guardò senza capire.
– Ho deciso che voglio fare l’amore.
Continuava a non capire.
– Voglio perdere la verginità. Con te.
A quel punto lo vidi vagamente allarmato.
– Smilzi, ma noi abbiamo già scopato.
– Cosa? Ma quando?!
– Come, non ti ricordi quella volta che ci siamo sdraiati sulla spiaggia a guardare le stelle?
– Due minuti siamo stati!
Sorrise compiaciuto, facendo l’occhiolino.
– Uno stallone, eh?

Tutt’altra storia, non credete anche voi? Non ridiamo perché qualcuno ridicolizza Bra, ridiamo perché Bra si rende ridicolo da sé.
Niente, questa è la teoria che piace a noi, alla nostra autrice, invece, è sembrato davvero il non plus ultra caratterizzare il suo personaggio come un’insopportabile tarzanello che guarda tutti dall’alto in basso, mentre cerca il meritato chad con cui accoppiarsi. Oh, che posso dire, insomma, la scuola che ha già laureato Zorzi, Bazzi e la Ciabatti continua a fare utili da capogiro.

E basta con questa volgarità, cazzo!

Va be’, continuiamo coi personaggi. Sì, non è solo la trasposizione dell’autrice ad avere orribili difetti. La madre (che nervi!), per esempio, dice parolacce

Non vi capisco, ragazzi. Che vi costa fare una telefonata a vostra madre prima di mettervi a scopare?

E poi condanna il turpiloquio dei figli:

Mia madre è convinta che io e mio fratello non siamo mai diventati scrittori di successo perché usiamo troppe parolacce. […] Ogni anno minaccia di regalarci per Natale un corso di dizione.

Ah, siete confusi, è la solita incoerenza, una roba buona per un testo comico. No, dai, abbiamo appena imparato che non funziona così! Certo, il personaggio che predica bene e razzola male è un modello spassoso, e non per niente compare spesso in opere ironiche o demenziali. I Simpson: Homer sorprende Lisa a fumare, distrugge la sigaretta sparandole (con una delle tante pistole che, almeno in tale scena, si porta appresso), infine si lamenta di quanto sia facile per un bambino americano comprare delle sigarette. Il professore matto: la nonna di Sherman Klump prima mette in imbarazzo l’ospite Carla facendo osservazioni bigotte (le domanda se può permettersi di indossare un abito bianco al matrimonio), poi si lascia andare a confidenze sessuali, senza alcun freno inibitorio. Insomma, il personaggio incoerente funziona. Solo che… be’, via, notate anche voi la differenza fra la madre della Raimo e gli altri soggetti che ho citato, vero? Le incongruità caratteriali di Homer e della nonna si manifestano nello svolgersi di un’unica scena: il contrasto è immediato, e il pubblico può comprendere subito il senso retorico della contraddizione. Conseguenza? Risate. Invece, gli ultimi due brani che ho riportato non solo non fanno parte della stessa scena, non solo sono ambientati in anni diversi… si trovano pure agli estremi del libro! La scena in cui la madre dice “scopare” è poco oltre l’inizio, l’altra è invece quasi a ridosso del finale. Chi diavolo può ricomporre un qualsivoglia messaggio ironico, da una simile esecuzione narrativa? A noi poveri lettori è richiesto uno sforzo incredibile per riuscire a divertirci; praticamente dobbiamo ricomporre gli elementi in una nuova scena, rimodellare la gag per renderla più immediata e incisiva, eliminare gli elementi odiosi (ossia i personaggi). Questo è riscrivere il libro. Bello, se non fosse che non vedremo nemmeno un centesimo di diritto d’autore, al contrario della Raimo.

E se usassimo solo il 2% del nostro cervello?

Bene, fin qui la nostra autrice è riuscita trovare tutti i contenuti e tutte le tecniche narrative adatti a non farci ridere nemmeno per sbaglio. Almeno lo stile… ma per carità, è talmente ovvio. La forma del testo è invariabilmente apatica, piatta, monocorde. Niente di vero è così palloso, che durante la lettura ho cominciato a trovare esilarante il ticchettio dell’orologio sul comodino. Se vi serve urgentemente una dimostrazione delle abilità culinarie della Raimo (perché è capace di fare una granita con i vostri zebedei), meditate su questo stralcio:

Durante l’università io e Cecilia partimmo un’estate insieme per il Messico.
Verso la fine del viaggio eravamo entrambe prostrate dalla dissenteria, ma io avevo il biglietto di ritorno il giorno prima del suo. Cecilia mi accompagnò all’aeroporto e di fronte al rifiuto dell’addetta a cambiarle il volo, minacciò di defecare davanti a tutti. Apprezzai la provocazione, ma non avevo capito quanto fosse seria.
– Okay, sto per farlo, – disse mollando al desk lo zaino e avviandosi al centro della sala col suo passo regale. Sembrava ancora più alta in mezzo alle comitive di messicani. Irraggiungibile. Monumentale. Si accucciò a terra mantenendo la schiena perfettamente dritta.
Io e l’addetta ci scambiammo uno sguardo di ammirata incredulità.
E fu così che riuscimmo a ripartire sullo stesso volo.

Allora lettori, durante la meditazione vi sono tornati alla mente i barzellettieri de La sai l’ultima?? Dite un po’, come raccontavano le loro barzellette? Salivano sul pulpito recitavano una litania da tempo ordinario? Mi pare di no. Buffe espressioni facciali, ampi gesti, inflessioni dialettali a go go…
Eh. È proprio questo il punto! Si tratta di recitazione: non è solo il contenuto semantico delle barzellette a divertirci, è anche la particolare forma con cui il loro messaggio viene comunicato. Nel caso, una forma audiovisiva. E, in tale forma, gesti e strepiti sono mezzi espressivi di grande efficacia. In Niente di vero? Be’, lo vedete, per “goderci” una scenetta buffa siamo costretti a sorbirci una lunga descrizione, perché ovviamente sulla carta non si riescono a riprodurre gesti e suoni. Ma questo fa sì che sia impossibile per noi provare le stesse emozioni che proviamo davanti al palco con un attore comico; dobbiamo in un certo senso diventare noi gli attori, abbiamo una specie di sceneggiatura e poi sta a noi fare le voci e quant’altro. Vi pare giusto? Non solo dobbiamo pagare (o sbatterci per andare in biblioteca), dobbiamo pure completare il prodotto offertoci dalla Raimo. Neanche a dirlo, chi mai ha voglia di completare una roba simile?! Il risultato è molto semplice: non interpretiamo le pagine di Niente di vero, e ci troviamo quindi immersi in una descrizione dopo l’altra, lunghe, sbrodolose, fastidiose. Be’, che volete, questo è il problema del telling puro usato in un contesto che vorrebbe essere divertente, come già abbiamo notato qua e là lungo la recensione. Spiace dirlo (o forse no, dopotutto), ma la nostra autrice non sembra essere capace di distinguere le forme proprie di ciascun mezzo comunicativo, non sa scegliere di volta in volta quella più adatta a suscitare nel pubblico gli effetti desiderati.

Naturalmente, il brano che ho poc’anzi proposto è caccoso non solo per il suo telling perverso: è troppo poco volgare. Facile da condividere, immagino, dopotutto adeguare lo stile al contenuto è una vecchia norma di buona scrittura. Un hard boiled in cui i personaggi si comportano come quelli di Saraceni sarebbe fuori dal mondo, così come un chick-lit sboccato (sì, di nuovo). Ora, il tema di cui la Raimo vuole parlarci è la cacca. Intendo, nel passo menzionato, non nell’intera opera. Anzi, la nostra autrice vuole introdurre un fetente cagotto. E il cagotto (quando capita agli altri) è sempre divertente, si sa, perché rappresenta la vittoria delle pulsioni corporee su ogni sovrastruttura umana. Bene, infimi bisogni corporei: dov’è il linguaggio adatto ad essa? È ad Hammamet, forse, perché Niente di vero ci propone al suo posto dei bei tecnicismi, come “dissenteria” e “defecare”. Neanche a dirlo, essi rendono il tono del discorso estremamente distaccato e musone. Ottimo lavoro, Verika.

Storie di diarree per il dopocena

Che avete detto? Uno stile come quello della Raimo non è sempre un errore? Cacchio lettori, ma a voi non si fa proprio, eh! Giusto, giusto, nel nostro andirivieni, a questo proposito è utile ritornare al concetto di incongruità. Ebbene, anche lo stile “inadatto” al contesto può essere proprio una delle incongruità divertenti. In effetti, l’accoppiata stile elevato e contenuto basso, è la spezia segreta dell’umorismo di Jerome K. Jerome. I suoi personaggi si trovano spesso in situazioni ridicole, senza però rendersene conto; e poiché non si accorgono del ridicolo, mantengono anche nelle circostanze più buffe un’invidiabile aplomb (e vocabolario) da gentlemen, aplomb comunicatoci dalle parole scelte per narrare le vicende. Storie di fantasmi per il dopocena, breve, facile da analizzare: il protagonista, per una serie di assurde fatalità, esce di casa sprovvisto di pantaloni, rimanendo però sicuro di averli addosso. Niente culi, niente pupù a spruzzo: le nostre risate (magari composte, ma sempre risate) derivano proprio dalla raffinatezza con cui lo sfortunato distrattone gestisce la faccenda, arrivando pure a uno scambio di vedute con un poliziotto.
Che fa la Raimo? Niente di quel che fa Jerome. Manca del tutto la consapevolezza teorica: quando la nostra autrice racconta (noiosamente) di situazioni imbarazzanti, si premura di descrivere per filo e per segno anche l’imbarazzo vissuto. E c’è di più: raramente si tratta di imbarazzo, il più delle volte è dolore. Ulteriore esempio: l’insopportabile protagonista, da bambina, si fa la pipì addosso nella macchina di un estraneo, incaricato di recuperarla dopo le lezioni…

[…] mi fece le domande classiche che si fanno ai ragazzini: «Che hai fatto oggi a scuola?», «Hai fame?», «Vuoi un gelato?» Io ero lì schiacciata contro lo schienale […]. Decisi di rimanere zitta. […] – Certo che sei proprio una bambina timida, eh? – Quell’insinuazione fu un brutto colpo: fu allora che sentii uscire il primo rigagnolo, fino a quando mi ritrovai completamente fradicia. Mi ero pisciata sotto dalla paura.

PISCIO! Ah, ah, ah, ah! Nah: la Raimo non riesce ad astenersi dal precisare che per la lei personaggio “[q]uell’insinuazione fu un brutto colpo”, aggiungendo di aver provato per tutta la durata del viaggetto una gran paura. Come si fa a ridere, dopo essere stati messi a parte del profondo disagio (seppur immotivato) di una bambina? Cioè, noi troviamo quello spassosissimo, davvero ironiccismo, supersbellicosissimo “pisciata sotto”, e niente, non possiamo godercelo perché siamo in pena per la piccola.

Se pensate di aver raschiato il fondo, sappiate che il passo precedente non è l’unico, in riferimento a “Raimo vs. Jerome”. Addirittura la nostra autrice tenta dichiaratamente di replicare la pacatezza sorniona tipica dello humour inglese. Siamo su un autobus…

A vent’anni, su un tram affollato di ritorno dall’università insieme a Cecilia, mi sentii in mano qualcosa di molliccio e umido che non riuscivo a identificare. Pensavo fosse la lingua di un cane. Fu Cecilia a darmi delucidazioni.
– Ma secondo te devo urlare? – le chiesi.
– Bah, vedi tu.
Mi rivolsi al legittimo proprietario semplicemente per informarlo su dove gli fosse finito il cazzo e invitarlo a riprenderselo.

Solite molestie, eccetera; solo riuscite almeno stavolta a spiegarmi perché la nostra genia (è la versione murgiana del genio, eh) ci descrive l’ironica rispostaccia, invece di imbastire il testo con un sano showing (e chiudiamo un occhio sulle sgrammaticature, che sospetto non siano volute, a differenza di quelle che avete letto qua e là lungo la recensione)? Va be’, a parte il telling, potete notare che, al contrario del protagonista di Storie di fantasmi per il dopocena, la Raimo personaggio riesce ricostruire la situazione, capendo che qualcosa non va e che bisogna porre rimedio: ecco, proprio l’aver riconosciuto il problema fa sì che la conseguente reazione non riesca assolutamente a strapparci un sorriso. A nulla vale che tale reazione (rispondere con calma, appunto, inglese) sia “fuori luogo”: noi sappiamo già tutto, stiamo solo seguendo la telecronaca con crescente preoccupazione (sempre per la salute dei nostri zebedei). Sarebbe stato diverso (ma sempre brutto per via del contesto) se la Raimo, ostinatamente, avesse cercato la testolina del cane per accarezzarlo, invitando l’amica a fare lo stesso (invece di chiederle spiegazioni)…

Avvertenze: leggere sulla tazza del cesso

Continuiamo col nostro simposio teorico, va’. Mi pare il caso, perché in effetti il metodo adottato da Jerome non è l’unico capace di rendere divertente l’incompatibilità fra stile alto e contenuto basso. Stefano Rapone, stand-up comedian professionista, è la mia prossima pietra di paragone. Vi propongo la trascrizione di un suo sketch, contenuto nel programma Mai dire talk, del 2018:

Ho scoperto che alcuni addirittura si divertono bevendo del vino. Io purtroppo però non posso farlo perché ho avuto un po’ di problemi con l’alcol, un po’ di tempo fa. Ero a una festa, ho bevuto un po’ troppo, e come risultato ho picchiato il festeggiato. Che è il motivo per cui non mi invitano più. Ai battesimi.

Nel suo intervento, Rapone mette perfettamente in pratica il meccanismo “attesa-sorpresa”, e non parlo solo della freddura semantica. È divertente soprattutto il tono monocorde che forma la struttura del pezzo: grazie a tale espediente, parola dopo parola il pubblico si convince sempre più di stare ascoltando una storia seria che terminerà con un’autorevole lezione di vita. Be’, la chiusa assurda, estrema e lapidaria ci porta in dono grasse risate.
Ecco, quando la Raimo prova a cimentarsi con lo stesso trucchetto… sapete già:

I momenti più profondi di solitudine li ho vissuti sulla tazza del cesso. […] Chi non è mai stato stitico non può capire. Il tormento esasperante di quei lunghissimi minuti, il lento scivolare nella desolazione di un tempo vuoto, il desiderio della resa.
Il fallimento non è la cosa peggiore, la cosa peggiore è l’indecisione, il bilico.
C’è una parte di te che non riesce a lasciarti, eppure non ti appartiene già più.

Cesso, eh? Ci trovo del potenziale, nonostante… nonostante la parte “seria” e la parte burlesca di questa scenetta siano invertite! Ma insomma, cioè prima la nostra autrice afferma chiaro e tondo che ha intenzione di parlare di cacca e di stitichezza, e poi aggiunge un pezzo che ha il tono serio di un aforisma?! Come ha potuto credere di essere stata arguta, ironica, anche solo mezza simpatica? Non possiamo ridere perché invertendo l’ordine manca la sorpresa: quando leggiamo dell’aforisma sappiamo già che l’autrice si sta riferendo alle sue feci! Se avesse scritto così…

Il fallimento non è la cosa peggiore, la cosa peggiore è l’indecisione, il bilico. C’è una parte di te che non riesce a lasciarti, eppure non ti appartiene già più.
Chi non è mai stato stitico non può capire.

Be’, forse sbellicare non vi fa, però direi che male non va, eh? Ah, lasciamo perdere le rimacce, è sufficiente che le due versioni suscitino in voi sentimenti diversi.

C’è verità, e… Verika

Occhei, abbiamo fatto un gran lavorone, io e voi, non c’è che dire. Solo… non so, è che tutta questa cuccagna di osservazioni, analisi, comparazioni e riscritture… be’, è fondata su un commento al libro. Intendiamoci, il testo conferma tutto quel che fin qui vi ho detto, tuttavia è il dato di partenza che può essere traballante. Sì, Niente di vero non fa ridere, ma neppure ha mai sostenuto esplicitamente di voler far ridere! E anche se ha molto senso meditare su una fascetta (in fondo, se ci vendono una cosa per un’altra, mica va bene, ed è giusto che si protesti, che diamine!), non è del tutto conforme allo spirito di giudicare scientificamente il libro. Già, e se Niente di vero fosse stato concepito come testo comico non divertente?

Ve l’avevo anticipato, non è necessario che un’opera faccia ridere, per potersi classificare come “comica”. Esempio classico: la Commedia, in particolare l’Inferno. Le terzine infernali sono comiche, per la natura del tema e dei personaggi, per lo stile, e per lo sviluppo dell’intreccio; nondimeno di risate non ne facciamo, al più qualche risolino quando Barbariccia scoreggia. Seguendo un buon vocabolario, diciamo che l’opera comica tratta di temi “modesti”, comuni, comunque lontani da quelli solenni e “decisivi” dell’epica o della tragedia; lo stile, inoltre, è tipico, e per la nostra letteratura dovrebbe essere intermedio fra quello classico e quello elegiaco. D’accordo, la definizione, già così, è complicata e fin troppo “raffinata”; restiamo semplicemente sul fatto che ci può essere qualcosa di comico e serio.
Niente di vero è così, dunque? Uhm, pare di sì. La nostra tanto bistrattata autrice, infatti ha dichiarato in un’intervista che il libro “è un mettere in discussione la possibilità stessa di essere trasparenti con noi stessi.” Ah, interessante. Praticamente, Niente di vero è una specie di indagine, sia filosofica sia psicologica, centrata sulla natura della verità e sull’inevitabile inclinazione che l’uomo ha di mentire a sé stesso. Guardate poi che sciccheria: altro che non saper scrivere, la Raimo ha usato un raffinatissimo gioco di parole già nel titolo. “Niente di vero”: il problema della verità, e il problema di dire a sé stessi la verità, nel libro non c’è niente che sia vero, ma non c’è neppure niente che sia di Vero, di Veronica. Forse non c’è, ecco. Bello, bello, interessante. Sì, sono costretta a inchinarmi davanti all’ingegno filosofico e antropologico della nostra autrice; guardate un po’ questo brano, in cui il tema del rapporto fra uomo e menzogna emerge direttamente e prepotentemente:

Un pomeriggio […] incontrai per strada un compagno di scuola che non vedevo da tanto tempo. […]
– Quanto tempo! Come te la passi?
– È morto mio padre, – dissi.
Non so perché lo feci, forse solo per togliermi dall’impaccio di dover dire qualcosa. L’unica volta che riuscii a pronunciare quella frase in modo così nitido fu allora, quando mio padre era ancora serenamente in vita.

Capito? Questa è una teoria coi fiocchi, altroché! L’uomo mente per vantaggio, per avidità… mah, questo lo dite voi, la Raimo ci suggerisce che mentire, più che altro, è un gioco. La verità e la falsità non sono tanto concetti relativi, sono più che altro giocattoli. L’esperienza della Raimo personaggio conferma quanto sto dicendo, e aggiunge ulteriori dettagli capaci di chiarirci un po’ di più le idee:

E in effetti è quello che ho sempre fatto nella mia vita. Ogni volta che mi sono sentita chiusa in una cameretta, dentro un gioco con delle regole, non ho provato a fuggire ma a inquinare il raziocinio della stanza e delle regole. A immaginare cose finte, a dirle, a provocarle, fino a crederci.

La nostra raffinata e poliedrica autrice, poi, sviluppa ulteriormente la sua grande visione filosofica del mondo, addirittura accennando all’inclinazione tipicamente umana verso la ludopatia, ripensando la ludopatia stessa in una luce nuova, accostandola al “gioco della verità e della falsità”. Capiamo, dunque, dalle parole illuminanti del libro, che il piacere ludico per la menzogna può trasformarsi in un bisogno quasi fisico, un abito che definisce la persona e da cui non ci si può più separare:

Nella mia famiglia ognuno ha il proprio modo di sabotare la memoria per tornaconto personale. […] dimentichiamo la menzogna iniziale o il fatto stesso che si tratti di una menzogna.
Ad esempio mia madre è convinta che l’anello che porto al dito della mano sinistra sia un lascito di mia nonna Muccia.
[…] Dico a mia madre che me lo sono comprata da sola e lei si rabbuia: – Perché devi sempre raccontarmi le bugie?
Non so perché ci tenga tanto a pensare che l’anello sia di mia nonna, ma ormai ho preso per buona anch’io la sua versione tanto che ho dimenticato dove l’ho comprato. Quando qualcuno mi dice: «Bello questo anello», rispondo che era di mia nonna.

Vi è piaciuto il mio tentativo di fare la critica all’italiana, cioè da grandissima leccacu… ?

Andiamo, a tutto ciò che ho detto manca un piccolo particolare: siamo di nuovo alle prese con l’ormai insopportabile narratore inattendibile. Ah, sia chiaro, il narratore inattendibile à la Ciabatti, non quello fatto a regola d’arte. Come Sembrava bellezza, Il grembo paterno, Corpi minori, e molte altre scemenze che non ho recensito, anche Niente di vero ci mette il tarlo che, appunto, nelle sue pagine non c’è niente di vero. Mentiamo per divertimento? Può essere, ma chi lo sa? Il testo sembra sostenerlo, però chi può dirlo, potrebbe essere una menzogna. La verità e la falsità sono elementi di un gioco? Mah, così dice la protagonista, però non possiamo fidarci.
Ho reso l’idea. Naturalmente, il discorso è lo stesso già fatto a proposito dei titoli appena citati: se non si trova nessun elemento solido, se nessun personaggio rettifica, insomma, se non possiamo aggrapparci a nulla, che cosa possiamo fare? Eh, nulla, ci grattiamo la testa perplessi. Ehi, a proposito, anche il sospetto che Niente di vero sia tutto fasullo, in fin dei conti, è un elemento di Niente di vero: perciò dobbiamo sospettare che non sia vero neppure che niente del libro sia vero. Ah, ma questa è la solita antinomia del mentitore! Sarebbe tutta la qui la potenza filosofica dell’opera raimesca? In ciò sta la sua serietà? No, no, non cercate di accostare a Niente di vero esempi di qualità, come Le avventure di Alice nel Paese delle Meraviglie o il Tractatus logicus-philosophicus. In entrambi ci sono incredibili difficoltà logiche e teoriche, delle autentiche aporie: aporie che, talvolta, si esprimono con antinomie, con contraddizioni. Bene, non vi servo io perché notiate che in tali esempi le antinomie sono un mezzo, non le “teorie definitive” del testo; ciò non accade con Niente di vero, in cui, effettivamente, l’antinomia è l’ultima parola. Wittgenstein scrive che “[d]i ciò di cui non si può parlare, si deve tacere”, apparentemente contraddicendo il resto del Tractatus, ma in effetti sfidandoci, facendoci venire il sospetto che la pura logica (e il logicismo, e il fisicalismo) non sia né tutto né tutto ciò che importa, nella nostra vita di uomini. Niente di vero ci fa intendere che tutto quel che intende comunicarci potrebbe essere una balla, e… e basta.
Ora, vi ricordate quando ho scritto che ci piace risolvere le contraddizioni? È così e l’abbiamo visto a sufficienza. Ecco, le contraddizioni di Alice e del Tractatus sono risolvibili, anche se non direttamente: si risolvono quando decidiamo di non fossilizzarci sulle teorie che, fino a quel punto, abbiamo accettato e forse pure venerato. L’antinomia di Niente di vero, eh, non si risolve, resta lì. Al più, si potrà risolvere quando sarà stata scoperta una teoria che spieghi in maniera soddisfacente l’antinomia classica del mentitore: ma appunto, avremo risolto l’antinomia del mentitore, ad essa Niente di vero non aggiunge… niente di vero.

Autofucktion

Che dire, per concludere? Tema comico: non pervenuto. Tema serio: nah. Io dico: non male, non male davvero, soprattutto per un’autrice che autodefinisce la sua scrittura pregna di “lucidità di pensiero” e composta secondo “un certo rigore”. Boh, forse il rigore cui si riferisce è il rigor mortis, chissà. Quel che so è che per il bioma letterario italiano sembra essere finita. Come i rospi marini per l’Australia, queste fottutissime autofiction pseudofilosofiche grondanti un pus di egocentrismo avariato si stanno riproducendo in maniera incontrollata, causando danni irreparabili alle poche forme letterarie autoctone che ancora sopravvivono. Non c’è niente da fare, se vogliamo leggere qualcosa di nuovo siamo costretti a sorbirci madri sputacarciofi e fratelli iperprotetti (a proposito, perché in Niente di vero si parla sempre di questo fratello, eh? Chi è questo Christian Raimo, è uno che conta? Non è un cazzo di nessuno, chi l’ha mai sentito?! E allora perché deve avere pagine e pagine dedicate?), conditi da insight filosofici così innovativi che a Saul Kripke je fanno ’na pipp… ehm, avete capito come si dice a Roma, no?
Bene, io vi lascio. Se nonostante tutto volete leggere Niente di vero, sappiate che non condivido, ma comprendo e rispetto la vostra opinione. E vi auguro dunque una buona lettura!

Sara

Ciao! Sono la fondatrice del blog letterario "Il pesciolino d'argento", amo profondamente i libri, l'arte e la cultura in generale.

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Una risposta

  1. Corrado ha detto:

    Non lo leggerò, grazie per questa accurata recensione.