L’orizzonte della notte – Gianrico Carofiglio
Avevo voglia di divagare e, non so per quale motivo, divagare mi sembrava anche la cosa più opportuna.
Il valoroso Guerrieri
Lettori, forse non lo sapete, ma il più grande filosofo italiano da quattromila anni a questa parte nasce come autore di romanzi. Oh sì, sì, quella roba là di Penelope non è stato l’effetto collaterale di un’overdose bayesiana, era tipo un ritorno alle origini. Però non proprio, perché l’immenso Gianrico Carofiglio, in quel caso, aveva voluto sperimentare un po’, mettendosi nei panni di una donna detective, o qualcosa del genere. Esperimento fallito! Troppo pizzose le donne, quindi adesso ecco il vero ritorno alle origini: un bel thrillerazzo in cui il Gianni si mette nei panni di un uomo. Ma che dico “un uomo”, nei panni di un IL uomo: Guido Guerrieri, il protagonista delle belle avventure di tanti anni fa, quando il nostro autore, stufo di fare il pubblico ministero, entrava prepotentemente nella cultura, incidendo il suo nome nella Storia (dell’arte).
Guido Guerrieri, l’avvocato Guido Guerrieri. L’eroe archetipico, così eroe e così archetipico da aver ispirato Omero duemilasettecento anni fa. Così eroe e così archetipico che un altro Gianni, Agnelli, volle essere chiamato “l’Avvocato” per boostare il proprio charme avvantaggiandosi proprio della figaggine di Guido Guerrieri. Così eroe e così archetipico, che una volta Jung ha detto qualcosa come: “Guido Guerrieri è la forma noumenica dell’inconscio collettivo, è il fine ultimo di ogni pulsione, oddio vorrei essere fico come Guido Guerrieri”.
Ebbene sì, lo confesso, sono emozionata. Sono emozionata perché non ho mai letto un Carofiglio Classic: mi sono sparata i saggi, le riedizioni dei saggi, il ballo da debuttante di Giorgia (in cui debuttava comunque Gianrico), un Penelope e perfino il Carofiglio minore (cioè Frank), ma del ciclo di Guerrieri… meh, niente. E sono emozionata pure perché questo è un ritorno, come ho detto, e i ritorni sono sempre carichi di significato, di passione, di tormento. Eh, alla base c’è stata una spinta emotiva o spirituale, di sicuro: sapete, la presa di coscienza che la filosofia può essere pienamente veicolata solo dalla parola artistica, o un insistente invito della casa editrice a onorare certi obblighi contrattuali.
Bello, bello, bello. Oltretutto, se guardo su Wikipedia, il sito non per adulti preferito dal nostro autore (leggete le vecchie recensioni e capirete perché), praticamente pare che l’abbia inventato lui il genere “legal thriller”, e proprio con le avventure dell’avvocato Guerrieri, perciò… wow, mi aspetto meraviglie, mi aspetto bellezza. Niente confuse preoccupazioni metafisiche da donnicciole, buone per quella gne gne di Penelope, no. Legal e thriller: azione, suspense, colpi di scena, virilità. In tribunale.
Va bene, giustamente borbottate voi, se continuo così nessuno ci capirà mai niente. Volete la trama de L’orizzonte della notte. Ehi, mi accorgo di aver menzionato il titolo soltanto adesso. Uhm… eh sì, è un po’… un po’ da boomer, cioè… ma no, dai, dai, è tosto, tostissimo. Cioè, la “notte”… ci saranno delle prostitute, dei criminali tipo “mondo di mezzo”, cose del genere. D’accordo, d’accordo, trama.
Allora, Giovanni Petacci, a dispetto del suo cognome da amante di pelati insicuri, è uno di quegli uomini che seduce le donne per sfruttarle. Tutto regolare, gli uomini fanno quello e le donne esistono per quello: grande Gianni, così, senza un briciolo di politicamente corretto. Ebbene, Petacci, nel suo girovagare sperando di accoppiarsi, un giorno fa… amicizia… con una certa Elena Castell. Seguendo il copione senza tentennamenti, all’inizio Petacci si mostra premuroso e affidabile, poi pian piano comincia a ingrossarsi, e la povera Elena scopre la sua natura di parassita, scoperta che la porta prima a sprofondare depressione e poi a sprofondare nel suicidio.
Be’, sapete, Giovanni Petacci è uno di quei parassiti che continua a vivere nella conchiglia dell’ospite anche dopo il decesso di quest’ultimo; sfortunatamente per lui, però, la nuova proprietaria della conchiglia, cioè dell’appartamento di Elena, è Elvira, sorella della defunta. Priva dello spirito di carità e di accoglienza che le istituzioni ci suggeriscono di avere, la donna intima più volte al piattolone di alzare i tacchi. Nah, Petacci sta bene dove sta. Ah, sì?! E allora Elvira, che, da buona sorella di una suicida, ha istinti omicidi, prende una pistola e decide di dare una rinfrescata alle pareti di casa con schizzi delle interiora di Petacci.
Occhei, non è una bella cosa fare secco uno stronzo che ti ammazza un parente e ti ruba una proprietà. Cioè, le istituzioni lo spiegano sempre, e devo forse portarvi a fare un giro nelle patrie galere, lettori, così vedrete il triste destino di tutti quelli che hanno mandato al Creatore un delinquente?! Va be’, sono sicura che Elvira ci è rimasta un po’ male, però non vuole neanche finire dietro le sbarre. Ed è qui che entra in gioco il grande Guido Guerrieri, il quale appunto… eh… niente, Elvira lo assume per farle da avvocato difensore. La strategia difensiva è molto semplice: dimostrare, in Italia… IN ITALIA!… che la morte di Petacci è stata legittima difesa, non un omicidio premeditato come invece sostiene il pubblico ministero. Guido, che è un fico da panico e un uomo estremamente coraggioso, accetta. Accetta, benché una piccola parte di lui abbia il sospetto che l’accusa sia nel giusto e che il processo si svolgerà IN ITALIA.
Che volete, non posso nascondervelo: Guerrieri è un tantino scosso da tali intuizioni. Ed è forse per questo che l’eroe si decide per un ciclo di sedute presso uno psicanalista junghiano…
Se nessuno legge il libro, il libro fa rumore?
Basta, come riassunto de L’orizzonte della notte direi che è sufficiente. Allora, la storia… uh… ma sì, è qualcosa che… la trama… ah-ah, la trama… oh, andiamo, la trama non esiste! E no, non intendo sostenere che il nostro romanzo è un “no plot, only vibes” o addirittura un antiromanzo, dovrei essere più Trevi di quanto non sia, per azzardare un giudizio simile.
Il fatto è che l’aspetto narrativo de L’orizzonte della notte è più striminzito della mia già scarna presentazione: praticamente, ho romanzato il romanzo. Già, se voi vi aspettate sudore in aula, violenza scabrosa e scandaloso sesso che mette a rischio il processo… state freschi. La parte importante del libro, anzi praticamente l’unica parte del libro, è proprio la sequela di sedute dallo psicanalista! Cioè, non è un thriller d’azione in tribunale, è una specie di “viaggio nell’ansia della terza età”. Che poi, pure questo viaggio non è davvero un viaggio: in sostanza, si riduce a… un… saggio… un saggio… di… Carofiglio. L’orizzonte della notte è un saggio di Gianrico Carofiglio.
Oh, porc[CENSURATO], no, no… di nuovo?! Assolutamente sì, lettori, non si scappa, è il gemello de La nuova manomissione delle parole, e de L’ora del caffè, saggio di Carofiglio al 100%. Solo che stavolta il nostro Gianni furbacchione e malandrino ha deciso di gabbare tutti (editore in primis) travestendo il saggio da romanzo, con un costume di poliestere scrauso ordinato su Temu.
Ah, ma a me non la si fa, l’ho beccato subito. Come ci sono riuscita, io che non so leggere (sì, vi confesso qui il mio segreto più vergognoso)? Ma è ovvio, ho riconosciuto il marchio: la mole allucinante di racconti e di aneddoti. Oh, non ci vuole niente, già subito l’incipit è un aneddoto…
Anni fa ho letto l’autobiografia di un famoso avvocato americano.
Il libro era così così, in molti punti anche noioso, ma raccontava un aneddoto che mi è rimasto impresso.
L’autore, appena laureato a Harvard, viene assunto da un prestigioso studio legale. Dopo mesi di pratica trascorsi a preparare fascicoli per altri, arriva il grande giorno […].
Ah, ah, ah, ah! Cacchio, lettori, cacchio. Cioè, Carofiglio ha pensato bene di riportare una storiella… citazione… rielaborazione… boh… nell’incipit. L’incipit, che è uno dei passaggi più importanti di un libro: è infatti il primo contatto che il pubblico ha con il mondo narrativo che si appresta a esplorare, è il fondamentale crocicchio che richiede di decidere se vale la pena andare avanti con la lettura. È l’equivalente letterario dei famosi sette secondi in cui si stabilisce se chi abbiamo davanti è un chaddone o un verginello.
Eccallà, se una storia inizia con un aneddoto che non appartiene al mondo narrativo della storia, l’attenzione viene dirottata all’esterno della trama, e quindi quest’ultima passa immediatamente in secondo piano. Non proprio un romanzo che si mostra col mandibolone e lo sguardo alla Richard Gere, no?
Ma chi se ne fotte! È esattamente ciò che il Gianni voleva. Ho detto poco sopra che Carofiglio è stato malandrino, ma in realtà non è vero (tutto gli potrei rinfacciare, tranne di essere intellettualmente disonesto, mai lo è stato e mai lo sarà): fin dalle prime righe, Carofiglio mette bene in chiaro che la sua priorità è scrivere una roba che piace a lui, cioè un saggio psicosociofilosofico. Perché la filosofia è il suo nuovo e definitivo hobby, conviene che ce lo mettiamo in testa tutti quanti. La trama, l’aspetto romanzesco… sono lì solo per far piacere ai capoccia che possiedono l’inchiostro e i fogli A4, al nostro autore non interessano. Ribadisco: lui vuole la filosofia. E gli aneddoti, perché, per qualche motivo, Carofiglio pensa che fare filosofia sia pressappoco collezionare storielle e aforismi vari.
Non vi stupiate, dunque, se nel prosieguo della lettura la trama vi sembrerà via via sempre più moscia, fino a raggiungere una moscezza analoga a quella del [CENSURATO] del compianto onorevole [CENSURATO]. In compenso, le citazioni cresceranno a dismisura, al punto che neppure una chemio letteraria potrà sperare di salvare L’orizzonte della notte. Ai vostri occhi si aprirà un intero universo, lettori: aneddoti trovati su riviste lasciate nelle sale d’attesa dei dentisti, aneddoti trovati sul web, aneddoti che riguardano il diritto, aneddoti che riguardano il buddhismo yuppie, aneddoti che riguardano la storia della scienza…
Ci sono aneddoti a bizzeffe. Ho letto su una rivista che, dal 1976 a oggi, negli Stati Uniti si contano decine e decine di casi di rei confessi poi scagionati dal test del Dna.
Il compasso magnetico, cioè la bussola. Fu inventata in Cina durante la dinastia Han, ma la sua importanza venne compresa molti secoli dopo. Sulle prime il compasso magnetico era utilizzato per scopi religiosi o come strumento di divinazione, per prevedere il futuro. Fu solo nel XII secolo dopo Cristo che cominciarono a usarlo come strumento per navigare. L’aver capito quale potenziale avesse un oggetto creato tanti secoli prima determinò una vera e propria rivoluzione. Permise di aprire nuove rotte commerciali. Insomma: cambiò il mondo. Qualcosa di simile è accaduto con la scoperta del microscopio. Fu inventato da un olandese dal nome impronunciabile, ma non ne fu subito colta l’importanza. Inizialmente era considerato alla stregua di un giocattolo […].
Quella storia mi fece pensare a qualcosa che avevo letto girovagando sul web un pomeriggio che non avevo voglia di lavorare. Era a proposito di un’arte giapponese, chiamata kintsugi, che consiste nel riparare ceramiche rotte usando lacca mescolata con polvere d’oro. La rottura e la riparazione diventano parte della stria di un oggetto, piuttosto che qualcosa da nascondere. […]
È tipico del buddismo zen accettare l’imperfezione e accogliere la bellezza dell’effimero […].
Il rimedio alla patologia dell’accumulo, suggeriva l’autrice dell’articolo, poteva dunque essere non l’astratta (e per certi aspetti gelida) indifferenza del minimalismo radicale, quanto piuttosto un rapporto gioioso e di cura per alcuni oggetti carichi di significato.
Be’, almeno sono citazioni… uh… inedite… ehm, inedite per il nostro Carofiglio? Col cazzo! A un certo punto troverete lui, l’albero solitario che magari fa rumore…
Forse era un po’ ingenua, ma coglieva una questione non insignificante. Simile a quella dell’albero che cade rovinosamente nella foresta deserta. Se non c’è nessuno a sentire il rumore, si può dire che il rumore esista? Se non c’è nessuno a leggere un libro, si può dire che questo libro esista? Io non ce l’ho una risposta.
Basta, porco cane! ’Sta strunzata, che non è nemmeno una genuina questione filosofica (che io sappia compare la prima volta in un articoletto a margine di un quotidiano inglese dell’Ottocento) è almeno la terza volta che spunta fuori: prima me la sono beccata in Della gentilezza e del coraggio, dove era incomprensibilmente definita un “kōan zen” (Gianni… no… lo so che Lisa la chiama così in un episodio de I Simpson, ma… no… occhei?!), e poi di nuovo l’ho gustata ne La disciplina di Penelope, lì tra l’altro esposta praticamente pari pari a come si legge ora, ne L’orizzonte della notte! Cioè, aiutiamo quest’uomo, lettori, non riesce più a dormire! Non dorme, e finisce per avere dei vuoti di memoria, dimenticandosi di aver già scritto le stesse identiche cose!
Allora, volendo aiutare il buon Gianni, si possono dare diverse risposte al dilemma, le quali dipendono ovviamente dalla dottrina generale, dal sistema filosofico, che si sceglie come riferimento. La mia risposta preferita è questa: in tale situazione il rumore esiste, ma non è oggetto di nessuna percezione da parte di nessun essere vivente dotato di un apparato capace di percepire il rumore. Al nostro autore non piacerà, come soluzione? E va bene, allora se ne scelga un’altra, tipo… uh… esiste soltanto l’io soggettivo, individuale, ed esso è la causa di ogni percezione, percezione che coincide assolutamente col proprio oggetto: se non c’è l’io, se non c’è nessun percipiente, non c’è nient’altro, quindi il rumore non esiste. Ma neanche l’albero esiste. Oh, via, Gianri’, fatti andar bene la prima, che ha premesse e conseguenze più interessanti. D’accordo? O dobbiamo tornarci ancora?
E che cacchio, Carofiglio è entusiasta, si crede di aver scoperto un incredibile continente filosofico, qualcosa di analogo al paradosso di Russell (che il vecchio Bertie, in fondo, ha solo riformulato e sistemato), ma… oh, è roba da boomer su Facebook! Va be’ che c’è poco da fare: Carofiglio è IL boomer per eccellenza, l’ha dimostrato alla grande ne L’ora del caffè. E se pensate che l’albero silenzioso ma anche no sia l’apice della boomeraggine del nostro, sappiate che non ci siete nemmeno vicini.
Ecco un altro grande classico, l’opinione sugli omosessuali. Eh, eh, eh. Allora, Guerrieri sta spiando una coppia di donne che si baciano… sì, proprio così… e gli viene in mente che…
Lo so che non si fanno certi discorsi, lo so che i ruoli sessuali devono essere sottratti agli stereotipi di genere della cultura patriarcale, so tutto. Ma insomma, accettando per un attimo i suddetti stereotipi di genere, la bruna senza dubbio ricopriva il ruolo maschile. Qualcun* si incazzerà per questa annotazione, e va bene, accetto il rischio.
Ma… LOL! Che cavolo è ’sta roba?! È una battuta, è una provocazione, è uno sfogo, è un delirio preorgasmico?! Lettori, posso capire che i vari asterischini abbiano rotto le palle, perché evidentemente delle cavolate per intrattenere babbalei incapaci di ragionare su effettive questioni metafisiche, però… però la cosa che i “ruoli sessuali” non sono per tutte le stagioni è sacrosanta! Non è che c’è per forza “l’uomo e la donna” in ogni relazione, comprese quelle omosessuali, non è manco vero che rigorosamente e rigidamente (no pun intended) c’è il passivo e l’attivo! L’idea che balena nella testa di Guerrieri è semplicemente una puttanata, ossia un luogo comune da boomer: a che pro riportarla? Insomma, posso capire che magari Guerrieri sia sotto sotto un coglionazzo, ma perché Carofiglio non ha fatto fare una bella figura al suo protagonista, tagliando una simile cringissima sequenza?! Tanto più che Guerrieri è un eroe positivo: può avere dei difetti, delle debolezze, che però devono rivelarsi dei momenti di sconforto, dei dubbi (veri, sulle proprie capacità, non sugli alberi), non dei pensierini che può avere il cazzone medio di Facebook.
L’unica spiegazione che mi viene per tale folle scenetta, a parte un improvviso moto di ribellione da parte del Gianni (che pure ai tempi del L’ora del caffè ci aveva deliziato con un “ué, ma guarda, pure i pinguini sò f***i!”), è che Guerrieri sia arrabbiato e che quindi stia sragionando. Per quale motivo sospetto questo? Perché una delle due femmenazze che limonano è la sua ex fidanzata. Ohi marò… ma questa roba succedeva pure a Buonvino! Che diavolo frulla nella testa dei nostri autori boomer, lettori? La ex moglie ninfomane e lesbica è un nuovo topos letterario… in particolare del thriller? Dio ce ne scampi! Che poi, per dovere di cronaca, L’orizzonte della notte è la prima avventura che leggo di Guerrieri, e non so se in effetti la moglie mangiapatate sia in circolazione da un pezzo. Ehm, quel che voglio dire è che non so chi ha copiato chi, tra Carofiglio e Veltroni.
Quel che so è che sono spaventata dal pensiero dei boomer: che è, possono affrontare l’idea di un tradimento dalla parte della donna solo se questa sviluppa una passione per le passerine? Nel senso che, in ogni caso, nessun uomo è all’altezza dell’eroe boomer, potendo la donna fedifraga trovare appagamento sessuale soltanto in un’altra bella topa. Ehm… bello.
Secondo me, la recensione potrebbe finire qui, dopotutto il materiale è di buona qualità, e di sicuro avete capito l’andazzo de L’orizzonte della notte. E poi le migliaia di parole che scrivo, a quanto pare, stancano alcuni di voi.
Perciò, chiudo qui, ciao.
Un (vero) giorno in pretura
Frittata con cipolle, tiramisù, psicofarm… ehi, che ci fate ancora qui?!
Come? Non vi basta?! Ah, ho capito, volete il parere professionale, l’analisi tecnica. Eh, ma siete incontentabili, lettori! E va bene, lo faccio per voi, in fondo accontentarvi è il mio mestier… hobb… attiv… ehm, è una cosa che mi riempie la giornata.
Dunque, lasciamo perdere (per ora) le boomerate e concentriamoci sulle due paroline che aleggiano sulla recensione sin dall’inizio: “legal” e “thriller”. Wikipedia (.it), ho anticipato, sembra suggerire che Carofiglio ha spianato la strada a tutti gli autori del genere; in più, il Gianni ha una laurea in materia di tribunali, o qualcosa di simile. Tutto a posto, no? Cioè, se togliamo i momenti da boomer che scopre i social, L’orizzonte della notte sarà anche decente, avrà la struttura che deve avere un legal thriller. Due paginette proprio, ribadisco che è comunque un saggio di Carofiglio, ma… due paginette quantomeno ben fatte. Sì?
Cominciamo ab ovo, con un’osservazione forse banale, ma che vale la pena mettere in chiaro: tutto ciò che accade all’interno di un tribunale è una rottura mostruosa. Fidatevi, avendo io legali in famiglia, so di che parlo. Gli avvocati, se fossero esseri umani, sarebbero i peggiori del mondo, anche perché non fanno altro che parlare, parlare e parlare… e i cavilli, e il codice, e le perizie… e il tutto con quella loro caratteristica, insopportabile, logorroica e soporifera prosodia di chi l’università l’ha frequentata per davvero.
In pratica, ciò che accade nei tribunali, ossia il “legal”, è l’esatto contrario dell’azione, ossia del “thriller”: vi sembrerà un po’ strano, a questo punto, però è così. E infatti, se ci pensate, non è certo un caso che, in opere come Law & Order, la parte “order” occupi molto più spazio (spesso intere puntate) a scapito di quella “law”: è meglio vedere lo sbirro sporco e sudato dopo una colluttazione, che l’avvocato sporco e sudato dopo una colluttazione. Verbale.
E quindi abbiamo la prima, solida certezza: per scrivere un buon courtdrama (qui prendetelo come equivalente di “legal thriller”), bisogna avere una certa inventiva, ispirandosi alla realtà, sì, però adattando la stessa per annullare la sua caratteristica… noi… noiose… noiosità, ecco.
Il tutto con intelligenza, ovvio, perché va bene l’azione, ma un Guido Guerrieri che entra in aula con un M4, e spara alla corte urlando: “Chi è a favore della mozione dica «crepa»! Blblblbl!!!”, è forse un tantino esagerato. Uhm… nota per la futura me: fare in modo che Carofiglio garantisca a Guerrieri l’accesso a un M4.
Insomma, l’azione pura va inserita sapendo ciò che si fa. E, volendo andare sul sicuro, cosa c’è di meglio che affidarsi ai consigli della nonna? Appunto, la nonnina ci spiega che: per creare azione, ci vuole innanzitutto uno scontro. E, per creare uno scontro, ci vogliono due fazioni opposte. E affinché ci sia un minimo di coinvolgimento emotivo da parte nostra, è opportuno che una fazione ispiri la nostra empatia, mentre l’altra ci sembri odiosa. Perché la sconfitta finale dei cattivi, ossia l’happy ending poca spesa e grande resa, deve indurci un senso di soddisfazione, non di tormento interiore.
Uhm, non siete convinti, pensate che la nonna sia una bischera e che seguirla porterà soltanto alla stesura di Harmony ambientati alla Corte di Cazza… ops, di Cassazione? D’accordo, allora vi invito a considerare Il momento di uccidere, sia esso il bestseller di John Grisham o l’adattamento cinematografico di Joel Schumacher, fate voi. Oh, legal thriller di… razza… sì, di razza pura, in entrambe le versioni.
La storia, per chi non lo sapesse, ruota intorno al processo che vede imputato Carl Lee, un padre di famiglia afroamericano che uccide gli stupratori bianchi della sua bambina, poiché consapevole che in Ital… volevo dire, nel Mississippi tutto Bibbia e Ku Klux Klan non otterrà giustizia.
Ebbene, dove stanno l’azione, il dinamismo? Ma è ovvio: nella tensione che accompagna l’attesa del verdetto. Sono stata chiara, in un legal thriller non ci sono… cioè, non dovrebbero esserci… esplosioni, inseguimenti su autostrade tedesche, Hulk: e poco male, infatti l’azione può essere sostanzialmente ridotta alla partecipazione emotiva del pubblico, al senso di incertezza che accompagna i vari “se la caverà?”, “capiranno, come capisco io, che i fatti sono andati così e cosà?”.
Ora, nel caso di Lee, ci sale l’adrenalina appunto cercando di capire se alla fine sarà condannato: speriamo, pagina dopo pagina, o minuto dopo minuto, che il suo avvocato difensore riesca a salvargli la pellaccia, perché non vogliamo che il giudice gli dia la sedia elettrica. Perché noi sappiamo che il giudice non deve azzardarsi. Uhm, però Lee è un assassino, non ci piove, com’è che abbiamo simili aspettative in testa? È che la storia stessa ci ha “manipolati”, proponendoci sin dall’inizio una netta polarizzazione dei personaggi: Lee è un omicida, vero, ma sta di fatto che ha ucciso per vendicare un’innocente. Non solo: ha ucciso degli autentici pezzi di merda, dei villain del tipo “pure evil” (Fiore, prendi nota).
La naturale conseguenza della polarizzazione morale è la nostra simpatia per Lee: vogliamo che i cattivi si becchino una bella punizione, e che il protagonista sia almeno lasciato in pace. Oh!, mirate: l’eterna questione della retribuzione spettante ai buoni e ai cattivi! Socc’mel!, ci credo che siamo disposti a seguire con interesse una simile storia, passando sopra al fatto che essa si svolge… sigh… in mezzo a roba di diritto. Dopotutto, converrete, il consiglio della nonna funziona… no?
Bello, anche se i più accorti fra voi sicuramente sapranno che quello di Grisham è uno dei possibili canovacci… uh, mi viene in mente ad esempio Schegge di paura, che sembra essere la perfetta nemesi de Il momento di uccidere: neanche a dirlo, il risultato, a proposito dell’azione e della nostra partecipazione emotiva, è lo stesso. Quindi com’è che la meno tanto con Grisham, e con la sua trama approvata dalla nonnina?
Be’, con un minimo di attenzione, si capisce subito che, in effetti, la struttura del nostro Carofiglio è analoga a quella de Il momento di uccidere: in entrambi casi, il (co)protagonista è in effetti un assassino, è parente di un soggetto che è stato in precedenza maltrattato, e agisce secondo il topos “dog bites back” (tu fai del male a me e prima o poi io lo farò a te, in sintesi). La vittima (le vittime, per Grisham) dell’imputato, poi, è tra le altre cose una “asshole victim”, ovvero un soggetto irrimediabilmente disprezzabile, tanto da essersi senza dubbio meritato la morte. Almeno, a nessuno fotte niente che sia morto, vabbuò?
Bene, il Gianni, a conti fatti, sembra essersi mantenuto sulla retta via, e… e porco cacchio, perché Il momento di uccidere funziona e L’orizzonte della notte è palloso esattamente come è palloso un (vero, senza la Petrelluzzi a presentare) giorno in pretura?! Eh… non mi dire!, Carofiglio trascura la polarizzazione morale dei personaggi, ’nagg!
Giovanni Petacci: il “cattivo” della storia, il villain pure evil, la asshole victim. Nah. Come già accaduto in passato, il mio riassunto è stato un po’ fuorviante, e vi ha dato false speranze. In verità, Petacci è più che altro… LA Petacci, sì? Uhm, non proprio, ma poco ci manca. Leggete la testimonianza di una delle sue ex, in teoria una tipa sedotta, sfruttata e abbandonata…
– Signora Giordano, lei ha avuto una relazione con Giovanni Petacci?
– Sì, parecchi anni fa.
[…]
– Nel corso della vostra relazione ci sono stati momenti di violenza?
Sospirò. […]
– È stato un rapporto difficile, ho cercato di dimenticare.
– Ha mai subito atti di violenza?
– A volte qualche schiaffo.
– Ha mai sporto denuncia?
– No.
– Petacci l’ha mai minacciata?
– Gridava. Era un rapporto difficile.
– Le ha mai detto che l’avrebbe sfregiata?
[…]
– Gridava, diceva tante cose. Non lo so se era una vera minaccia.
– Però lo ha detto?
– Sì.
Sì, picchiare una donna (un uomo invece no?) è un’orribile violenza, d’accordo, però… andiamo, siamo umani, cioè siamo una specie di animali, e in quanto tali facciamo schifo a noi stessi. Voglio dire che sì, Petacci è cattivo, ma qualche schiaffo, qualche minaccia e delle liti non sono sufficienti per farne un cattivo pure evil al pari degli stupratori di Grisham. Quelli sono degli stupratori pedofili, sono dei razzisti, sono degli stupratori pedofili, sono dei maniaci delle armi, sono degli stupratori pedofili, sono degli assassini e sono degli stupratori pedofili. Sono degli stupratori (e assassini) pedofili! Che piaccia o no, è questo genere di violenza che ci ripugna a livello del nostro istinto animale; disprezziamo la “semplice” violenza domestica, ci indigna, certo, ma… ma non con lo stesso trasporto, rispetto allo stupro di una bambina! Fa male constatarlo, fa male a me per prima, eppure è così. Petacci è uno stronzo, che però… uhm… non so, forse si merita di essere picchiato a sua volta? Umiliato? Ci vorrebbe uno Steven Seagal che lo prende a calci nelle palle? Non so, vorremmo vederlo all’ergastolo. Venticinque anni, forse.
Vederlo morto, invece… uhm, occhei, I guess, but… può darsi che sia un filino troppo? Eh, il dubbio c’è lettori. E quindi cosa dobbiamo pensare? Cioè, vogliamo un’assoluzione, sì? O una condanna, perché l’omicidio era sproporzionato? Oppure non sappiamo bene cosa vogliamo? Eccallà. Ci troviamo con un problema. Ma non con un problema di quelli che ci coinvolgono! Il pathos, per noi, è praticamente assente. Non tifiamo, non ci preoccupiamo. Al più, giacché ci siamo, andiamo avanti giusto per scoprire cosa diavolo accadrà a Elvira, però così, tanto per.
Schizzi di paura
Elvira, ah!, poteva essere la nostra Carl Lee. Sicuro, se avesse ammazzato un evidente merdoso ladro stupratore (che poi, ne abbiamo avuti, anche nella cronaca recente, il Gianni non poteva modellare Petacci su uno di quelli?), e se, magari, dopo l’omicidio si fosse scoperta frastornata e afflitta. Un disturbo da stress post–traumatico, no? Eccerto, uccidere per una giusta vendetta (sì, perché esistono le giuste vendette, e non voglio sentire pipponate da pseudoilluministi) va bene, ma è comunque un evento terrificante da compiere, se non si è dei sociopatici: e, infatti, pure Schumacher, nell’adattamento, si premura di mostrare un Carl Lee che si stringe la testa fra le mani, mentre è detenuto. Non si pente dell’assassinio, tuttavia è visibilmente turbato dalla sua stessa violenza.
Avete già capito, eh?, drittoni che non siete altro! Giusto, lettori, Carofiglio ha la brillante idea di descrivere Elvira proprio come una sociopatica. Spesso, e sottolineo “spesso”, la nostra è un soggetto chiaramente inquietante, che mostra un innaturale distacco di fronte alla morte di Petacci. Ehi, non sono mie paturnie, Guerrieri stesso è intimorito, e magari sarà di suo una femminuccia, nondimeno la presenza di Elvira lo spaventa ben oltre il dovuto:
Mi rivolsi di nuovo a Elvira.
– Vuole raccontarmi?
Si schiarì la voce, come per prepararsi a una lezione o a un discorso, poi cominciò a parlare. Il contenuto drammatico, anzi tragico, della sua storia strideva con il tono quasi astratto con cui la narrava.
– Non l’ho ancora detto, ma ovviamente voglio nominarla mio avvocato di fiducia, – aggiunse.
Annuii facendo caso ancora una volta al tono lucido e asettico, privo di emozione [con cui gli parla Elvira]. Non quadrava.
– La vedrò, – mentii, pensando ancora una volta che quella persona [Elvira] era un enigma. Non pareva sconvolta per essere stata messa in una cella; e non sembrava terrorizzata alla prospettiva, piuttosto concreta, di doverci restare a lungo. Chiacchierava di una serie televisiva suggerendoci di guardarla.
Ci demmo appuntamento in aula di lì a due settimane.
Ignoravo il motivo, ma quando uscii dal carcere portai con me una vaga, indefinibile sensazione di disagio.
WHY?! Siamo in una copia tarocca di Schegge di paura, adesso? Al diavolo Grisham? Be’, mi piacerebbe: i tratti spaventosi di Elvira avrebbero senso se, con un colpo di scena, si rivelasse la vera cattiva (pure evil) della storia. Che so, alla fine si scopre che in realtà è stata proprio Elvira a uccidere Elena, per impossessarsi della casa: Petacci, per quanto stronzo, manesco e maschilista, è stato un’ulteriore (non asshole, a tal punto) vittima.
E… e ’sti cazzi, no? Nessun colpo di scena, l’intuibile sociopatia di Elvira è l’ennesima pistola di Čechov comprata su Shein: ci segnala un prossimo capovolgimento dei ruoli, ma poi si inceppa e rimane bloccata fino alla fine. Le stranezze comportamentali di Elvira, quindi, sono semplicemente delle cose che compaiono in mezzo alla trama… così, senza una ragione precisa.
Occhei, dunque abbiamo un cattivo non esageratamente cattivo, e una buona che fa paura. Per adottare un lessico un pelo più tecnico, la distanza morale fra l’eroe (il co-eroe, nel nostro caso) e l’antagonista è ridotta, e ciò ci costringe a una certa fatica per stabilire la corretta interpretazione della storia. Fatica che, con le premesse offerteci dal romanzo, non vogliamo assolutamente accollarci.
Va da sé, non sapendo bene per chi parteggiare, quando la pubblica accusa e il macho Guerrieri si scontrano… si “scontrano”… ehm, ce ne sbattiamo? Proprio così, peccato che sbattercene renda triste L’orizzonte della notte, e confuso il caro Gianni.
Lo max. e lo min.
Abbiamo visto che le scelte narrative e i topoi scelti dal nostro autore hanno spezzato in due l’aspetto “thriller” del libro, trasformando quest’ultimo da “romanzo d’azione in tribunale” a “romanzo in tribunale”. Come dite, lettori? Oh, no, no, nemmeno i trucchetti narrativi (non) usati dal nostro autore riescono a coinvolgere. Purtroppo (per noi, per Carofiglio, per tutti), è l’ormai genetico difetto della letteratura italiana contemporanea: la totale assenza di beat.
Al solito, vi preparo con un bell’esempio che gronda sex appeal da tutti i pori. L’avvocato del diavolo: Kevin Lomax interroga Barbara, una ragazzina che accusa di molestie sessuali il suo professore (altro pedofilo, poi pure assassino… visto?), cliente di Lomax…
Lomax: Lei ha mai dato una festa a casa sua, Barbara? Durante l’assenza dei suoi genitori?
Procuratore: Obiezione, la domanda non è pertinente.
L: Il teste è prevenuto, vostro onore.
Giudice: Obiezione respinta, risponda alla domanda.
Barbara: Sì.
L: Lei conosce un gioco chiamato “Posticini particolari”?
[Barbara non risponde]
L: Lei è sotto giuramento [con tono assertivo]. Ha in mano la carriera, la reputazione e la vita stessa di un uomo [indicando il professore]. Questo non è un gioco! Ha mai fatto quel gioco? “Posticini particolari”?
B: Sì…
L: E si tratta di un gioco erotico? Si tratta di un gioco di natura sessuale [detto con enfasi]?
B: Ci abbiamo giocato una volta sola…
[Brusio sgomento fra i presenti]
L: E a questa festa particolare, Barbara… fu quella la prima volta che lei parlò di questa storia del professor Gettys, vero?
B: Sì…
L: Io ho parlato con alcune ragazze presenti quel giorno. Non le viene in mente altro, Barbara, che possono avermi detto circa quelle feste?
P: Obiezione! Vostro Onore, se l’avvocato ha altri testi li chiami…
L: Se lei mi costringe a chiamare quelle ragazze, io lo farò!
[Barbara inizia a piangere]
G: Obiezione accolta. Avvocato Lomax, riformuli la domanda.
[Lomax tira un lungo sospiro]
L: Lei ha minacciato quelle ragazze, vero?
B: No, non è andata in questo modo!
L: Lei ha chiesto di mentire, di affermare falsamente che il professor Gettys aveva insidiato anche loro!
B: [piangendo flebilmente] Quelle cose sono successe veramente…
L: Perché se non l’avessero fatto, lei avrebbe raccontato a tutti che cosa successe a quella festa particolare!
B: Sono successe veramente…
L: Lei si inventò una storia, una squallida storia, la storia di un insegnante di matematica molto severo con lei che la tratteneva in classe, un grosso porco, che le faceva schifo! È questo che è successo realmente, lo dica, è così?
B: No… io non volevo più essere l’unica…
L: Non ho altre domande, vostro onore.
Certo, una bambina e tizi che parlano, gne gne… gne gne un corno! Perfino un americano troverebbe emozionante il suddetto dialogo, e… ehi, per la verità è accaduto, LOL, L’avvocato del diavolo è stato un successo in patria, presso gli sbronzoni, e intendo sia il romanzo, sia il film.
Dallo stralcio che ho proposto, potete notare i vari elementi su cui ho tanto insistito, sin dai tempi di Erri De Luca: in breve, i personaggi lottano verbalmente per raggiungere un obiettivo o per sottrarsi all’attacco, e il lessico, al pari della prosodia, si adatta al crescendo di tensione e di aggressività.
Le atmosfere d’ambiente, poi, sono utilizzate per sottolineare i momenti chiave del combattimento: il brusio sgomento del pubblico, per dirne una, non è lì a caso, bensì marca decisamente il passo falso di Barbara.
A posto, avete inquadrato. Posso perciò dare il via a un altro scontro: venghino signori!, i possenti dialoghi de L’avvocato del diavolo se la vedranno con i dialoghi mammoletta de L’orizzonte della notte, venghino signori! Fate il vostro gioco signori!, puntate e vincete, signori! Forza, forza!
Ecco che il romanzo del Gianni esce dall’angolo e tenta un’azione offensiva:
[Pubblico ministero Consoli] – Lo odiava, vero?
[Elvira] – Lo disprezzavo. E non sono andata lì per ucciderlo.
– Allora perché gli ha sparato un colpo di pistola diritto al cuore?
– Per difendermi da un’aggressione.
– Che aggressione?
– Ha spaccato una bottiglia di cristallo che era su un tavolino e ha detto che mi avrebbe sfregiato. […] La discussione è diventata subito violenta. A un tratto aveva in mano quella bottiglia. Non ricordo tutto, ma aveva quella bottiglia, mi ha offeso, ha offeso mia sorella, ha detto che mi avrebbe sfregiata… e io ho sparato.
– Si rende conto di quanto sia poco credibile quelli che sta affermando?
Era il momento di intervenire.
– Opposizione, presidente, il pubblico ministero può fare le domande che vuole sui fatti, sul ricordo dei fatti che ha l’imputata. I tentativi di polemizzare o anche solo i commenti argomentativi non sono previsti e tantomeno ammessi. Le valutazioni potrà tenerle da parte per la sua requisitoria.
– Passi a un’altra domanda, pubblico ministero.
Consoli sospirò in modo teatrale. Un modo per dire alla corte: non mi lasciate svolgere il mio lavoro, cercate di intralciare la giustizia, è difficile lavorare così, ma in ogni caso, con la consueta abnegazione, farò quello che deve essere fatto.
– Signora Castell, lei, in sostanza, dice di avere sparato a Petacci uccidendolo praticamente sul colpo per difendersi da un’aggressione. Ho capito bene?
– Sì.
– Nel corso delle indagini preliminari, prima davanti a me e poi davanti al giudice, lei si è avvalsa della facoltà di non rispondere. Può spiegare alla corte per quale motivo?
– Non ricordavo quasi nulla dell’accaduto e con il mio avvocato abbiamo ritenuto che fosse meglio non correre il rischio di raccontare le cose in modo sbagliato o lacunoso.
[…]
– Quando si è ricordata di questa bottiglia e della minaccia di sfregio?
– Non so dire esattamente quando. La scena è riemersa anche parlando con il mio avvocato, a sprazzi, a tasselli che a poco a poco collimavano gli uni con gli altri. Ma ancora adesso non ricordo tutto.
– Dove avrebbe preso la bottiglia il Petacci?
– Era su un tavolino del salotto, dove… insomma dove è accaduto il fatto. Era una bottiglia di un certo valore, di un artigiano di Murano. Un oggetto ornamentale, lì da molti anni.
– Come l’avrebbe impugnata?
– L’ha presa per il collo e l’ha spaccata sul bordo del tavolino.
Consoli scosse platealmente il capo […].
– Mi dica ancora qualcosa sulla pistola. L’arma aveva il colpo in canna quando lei è uscita di casa.
– Sì.
– Quindi lei la custodiva in cassaforte con il colpo in canna, pronta a sparare?
– Gliel’ho detto, così la riponemmo insieme all’amico di mio padre. Con la sicura.
– E quando ha tolto la sicura?
[…]
Oh no!, il lungo sospiro di Lomax è troppo forte, e L’orizzonte della notte è a terra, pare che se la stia letteralmente facendo sotto! Nemmeno un round, signori, buuuh!
Dai, dai, seriamente. Carofiglio ci ha provato, e infatti anche il pm Consoli sospira dopo l’obiez… l’opposizione, pardon… uh la-la, il signorino parla legalese! Ehm… sì… solo che il sospiretto è troppo moscio e, soprattutto, è l’unica mezza (mezza!, tra poco capirete perché) cosa dritta che si può riscontrare nel dialogo!
Cioè, guardate, tanto per cominciare l’interrogatorio di Consoli è logorroico (e l’ho pure tagliato!): ma è forse così che si comunica l’adrenalina al pubblico?! Da che mondo è mondo, più una cosa si protrae nel tempo, più ci si abitua a essa, e l’abitudine non è compatibile con uno stato di tensione, di eccitazione. D’accordo, probabilmente nei veri tribunali accadono delle pallosità simili, non lo so, lo scoprirò quando mi processeranno per diffamazione e vilipendio, però… ehi… ricordate?, bisogna agghindare la realtà, perché non si sta imbastendo una cronaca, il prodotto finale dovrebbe essere artistico!
A proposito di lungaggini… ma le battute?! Anche qui, quando il sangue ribolle, i pensieri si fanno più rapidi, più brutali, più essenziali… insomma, più brevi. Certo, uno dei motivi per cui l’interrogatorio di Lomax ci risulta adrenalinico è proprio questo: le battute del dialogo sono brachilogiche e ricche di esclamazioni, le quali tradiscono l’animalesco desiderio di sopraffazione sotto l’apparente rispetto delle formalità (il “lei” d’obbligo è mantenuto). Eh, nell’interrogatorio di Carofiglio, invece, sono di casa frasi lunghe, concetti complessi e tantissime informazioni. Peccati originali che strabordano addirittura dalle battute, contagiando gli inserti descrittivi. Il sospiro di Consoli, eh? Col cazzo che assomiglia a quello di Lomax: il Gianni, non domandatemi perché, si premura di lodare il tipo, sbrodolando una spiegazione talmente dettagliata da infastidirci (siamo scemi, no?, che non potevamo interpretare da soli il sospiro). Cioè, ma se era assolutamente impossibile farne a meno, non bastava scrivere: “Consoli sospirò rumorosamente, esasperato”?
Infine, ed è questo che mi addolora maggiormente, il dialogo de L’orizzonte della notte non funziona a causa delle continue domande aperte. “Quando si è ricordata di questa bottiglia e della minaccia di sfregio?”, “[d]ove avrebbe preso la bottiglia il Petacci?”, “[c]ome l’avrebbe impugnata?”, “[e] quando ha tolto la sicura?”: ooooooh! Ebbasta! Lomax, avete visto, usa quasi esclusivamente domande chiuse (“[l]ei conosce un gioco chiamato “Posticini particolari”?”, “[…] si tratta di un gioco erotico?”…), con l’effetto di mettere Barbara alle strette. Le domande chiuse sono l’equivalente di un latrato a denti scoperti, che si fa sempre più insistente, sempre più vicino: un cane che, nello scontro, sta guadagnando terreno e, ci scommettiamo, tra non molto darà il morso decisivo, alla gola. Invece, le domande aperte danno l’impressione che i personaggi non stiano affatto combattendo: nah, sono dei nobili figli di t… di talia!… perciò è il minimo che attendano con garbo ciascuno la mossa dell’altro. Che poi, stupida io, no?, un Carofiglio che si sporca il cervello, abbassandosi a immaginare brutalità animalesca? Ma che, scherziamo?!
Freudolento
VABBENEEE! Va bene, va bene, questa era l’analisi delle due pagine “legal thriller” de L’orizzonte della notte.
Uhm. Uhm. Voi… uhm. Volete quello, eh? Sì, le boomerate, i tecnicismi da narratologa (che non è nemmeno un lavoro)… non… cioè. Voi volete proprio che approfondisca quella roba dello psicologo junghiano, vero? Non è che posso… magari… no?… no, d’accordo.
Allora, fuckin’ Guido va da uno psicoterapeuta. Occhei, perché?!
Non sto scherzando, lettori, inizialmente sembrerebbe che il macho Guerrieri sia un tipo sensibile, e che voglia elaborare il dolore causato dalla morte di una sua ex compagna, tale Margherita…
Dovetti rileggere diverse volte quella frase: «leggerai queste parole quando io non ci sarò più», per accettarne il significato. […]
Non ricordo esattamente in che momento scoppiai a piangere e nemmeno ricordo per quanto tempo continuai a farlo, singhiozzando senza controllo […].
Intanto, però, dopo quella mail l’insonnia aveva ripreso a tormentarmi più del solito. Una notte […] Ottavio, guardandomi in faccia, dovette vedere qualcosa che non gli piacque. Mi disse che avevo bisogno di aiuto e mi consigliò un certo dottor Carnelutti, psicoanalista di scuola junghiana.
Si parlerà del lutto, quindi. NOPE! La povera Margherita, che a questo punto avrebbe fatto meglio a comparire nel romanzo con un nome d’arte, è menzionata distrattamente in un unico momento, e quel rinco di Carnelutti addirittura manco sa di chi si sta parlando…
– Quando sono venuto da lei la prima volta le ho detto i motivi per cui mi ero deciso a provare la psicoterapia. Ricorda?
– Mi ha parlato della fine di una relazione e del messaggio ricevuto da una compagna di tanti anni fa. Senza dirmi i nomi di queste donne, allora.
– Annapaola e Margherita. Chissà perché non glieli ho detti. Comunque, mentre cercavo di pensare alla paura mi sono reso conto di essere molto arrabbiato con Annapaola.
Già, “chissà”, eh, eh, eh… eh. Sì, sì, giusto, quando si va dallo psicologo si inizia con un argomento e poi Dio solo sa dove mai si va a parare, procedendo con le sedute. Ma è anche vero che, in genere, il primo argomento rimane un tema importante, che riemerge costantemente durante la terapia. It’s I Soprano time, yu-uuuh! Tony inizialmente va dalla dottoressa Melfi per guarire dagli attacchi di panico, e dopo poco scopre che gli attacchi non sono casuali: sono scatenati da situazioni che gli ricordano i conflitti con la madre. Bene, grazie all’aiuto della Melfi, Tony si libera degli attacchi di panico: quindi non se ne parlerà mai più, giusto? Sbagliato, sono un argomento ricorrente delle sedute, sia perché sporadicamente ricompaiono (cioè David Chase ha cura di non farne un caso chiuso, basta, fine), sia perché Tony o la Melfi ci ritornano, per riflettere sui progressi fatti o per dare il via a una nuova introspezione.
Voglio dire che, se Guido inizia la terapia per superare un lutto, quest’ultimo e la strategia di “coping” adottata per affrontarlo dovrebbero essere esplorati a fondo, durante le sedute. Invece nah, a L’orizzonte della notte serviva una scusa per ficcare uno psicanalista nella sua trama, perché, ehi!, la psicanalisi, insieme agli animali, alla statistica, agli aforismi e al uebb, è un chiodo fisso del nostro Carofiglio!
Che poi, psicanalisi è un parolone: stavolta il Gianni ce l’aveva con l’interpretazione dei sogni. Sì, esatto: pagine e pagine de L’orizzonte della notte sono interamente dedicate al resoconto dei sogni di Guerrieri. E, ovviamente, al resoconto segue una… eh… “spiegazione”… psicologica.
Confesso, l’idea non mi dispiace: cioè, è un po’ pseudoscienza, siamo lì lì al confine con l’oroscopo di Paolo Fox, tuttavia… c’è un certo fascino nella cosa. A patto che si tratti di onirismo d’alto livello, qualcosa tipo Schnitzler, e… baaaaah, che perdo tempo? Ne L’orizzonte della notte i sogni manco sembrano sogni, figuriamoci la loro interpretazione.
Lettori, di là di tutto, la caratteristica peculiare di un sogno è la sua illogicità. I suoi elementi assurdi, slegati, esagerati. Il surreale. Torniamo a Tony Soprano, anzi a un suo sogno. Ora è su un molo deserto, in un’atmosfera sghemba, ora è in un mercato del pesce, anch’esso deserto; parla con un affiliato morto, e immediatamente dopo guarda dentro uno di quei cannocchiali per turisti, vedendo sé stesso intento a giocare una mano di poker in un capannone industriale. Si cosparge di benzina e si dà fuoco, e poi eccolo chiacchierare con un pesce che ha la voce del suo migliore amico, in realtà talpa dell’FBI. E il pesce parlante, be’, riporta a chiare lettere i sospetti inconsci che Tony, da tempo, nutre nei confronti del suo amico.
Noi, il pubblico, come reagiamo? Da un lato, essendo la rappresentazione del tutto inverosimile, ci sentiamo smarriti, siamo inquieti, quasi spaventati. Dall’altro, essendo la rappresentazione del tutto inverosimile (!), immediatamente riconosciamo che essa è un sogno: eh, d’altra parte, ciascuno di noi sogna, giusto? Quindi, per riassumere, le buone rappresentazioni artistiche dei sogni ci rendono irrequieti e ci lasciano con un senso di famigliarità: ed entrambi i risultati sono ottenuti da… l’inverosimiglianza, esatto.
Ora, c’è bisogno che vi spieghi per filo e per segno come sono i “sogni” di Guerrieri? Avete indovinato subito, tranquilli, beccatevi questo stralcio per conferma:
La villa […] all’interno era ristrutturata e arredata con mobili bellissimi in stile scandinavo. Che è il mio preferito; mi piacciono le cose asciutte, essenziali. […] Fuori era tutto in decadenza. Erbacce, piante secche, emanava tristezza. E poi c’era una piscina piena di ninfee. […]
Camminavo per le stanze stupendomi di come fosse cambiata.
Addirittura, mi viene in mente adesso, mi chiedevo quanto avessero speso per sistemarla in quel modo. Poi andavo nella mia stanza da letto che affacciava sulla parte posteriore del giardino e vedevo la piscina. E questo non mi stupiva affatto, come se ci fosse sempre stata. Era grande, occupava quasi per intero lo spazio esterno. Una cosa strana, ora che ci ripenso, è che mentre mi aggiravo per la casa ristrutturata c’erano i raggi del sole, bassi, che illuminavano l’interno. Era una bella giornata, ma non estiva, più un pomeriggio primaverile. Invece se andavo alla finestra sul retro era tutto grigio, pareva autunno, o addirittura inverno.
Occhei, cazzo!, meno male che Carofiglio definisce preventivamente il brano un “sogno”, altrimenti avrei pensato che l’eroe Guerrieri avesse fatto pure il concorrente queer d’obbligo a Casa a prima vista. Cioè, lettori, il nostro Gianni non s’è risparmiato con le descrizioni instagrammabili dell’ambiente, mentre ha saltato a piè pari l’assurdo. E che, ti pare? L’assurdo è una cosa brutta, a squola te lo segnano col rosso, e poi come puoi essere l’ometto più affascinante di tutta la festa? Il famosissimo sondaggista non ti noterà mai se concepisci delle scene surreali, e che cacchio!
L’unica cosa… ehm… “strana” del passo riguarda la luce (“[e]ra una bella giornata […]. Invece se andavo alla finestra sul retro era tutto grigio, pareva autunno, o addirittura inverno.”), ed è… troppo poco, come al solito. Il pesce parlante, Tony che guarda sé stesso dal cannocchiale… eh.
Quindi, onirismo del romanzo: bleargh! Ma ovviamente non è finita. Vogliamo arrostire il rapporto fra Guido e Carnelutti?
Inutile fare la modesta, sono una veterana del settore, e posso garantirvi che, se la seduta è di quelle serie, è sempre lo psicologo che tiene le redini del discorso, anche interrompendo il paziente e dirottando la conversazione. Il motivo è evidente: lo psicoterapeuta non è interessato a chiacchierare, anzi deve stare attento ai fenomeni del transfert e del controtransfert. Lo scopo del professionista, che poi è anche lo scopo del paziente, è la guarigione: guarigione che si ottiene, in sostanza, attraverso l’acquisizione, anche manipolatoria bisogna dire (ma a fin di bene!), di informazioni utili alla pianificazione della terapia.
In fondo, è un rapporto di potere, e i benefici per il paziente sono proporzionali al potere che il serio psicologo/psichiatra riesce a esercitare su di lui. Indovinate? È proprio questo rapporto che ha reso la figura dello psicologo/psichiatra così popolare nella narrativa degli ultimi anni: la sua autorevolezza e la sua decisione, unite alla sua capacità di risolvere problemi emotivi e comportamentali, lo rendono il tipo di personaggio ideale a ricoprire il ruolo archetipico del mentore, dello stregone, del grande saggio. Un ruolo centrale, in qualunque viaggio dell’eroe.
Bene, Carnelutti si impone e Guerrieri si sottomette.
In un altro romanzo.
Ahimè, che ne sia consapevole o no, Carofiglio è un nobile nell’anima (è anche un nobile d’animo, ma sono cose diverse), pertanto mi sa che non ha assolutamente idea di che cosa significhi “sottomettersi e obbedire” a qualcuno: di conseguenza, il suo personaggio mentore assume i contorni di un personaggio “mentula”, e più che una guida per Guido (trattenete le vostre mani, lettori), Carnelutti è un Milhouse che va su di giri quando è in compagnia di Bart.
Pensate che stia esagerando? Sappiate allora che Carnelutti: 1) è costretto a contenere il suo entusiasmo per non subissare Guido di domande riguardanti il lavoro di avvocato; 2) si eccita così tanto, ma così tanto, quando ascolta i sogni di Guido, che non riesce a stare fermo e deve addirittura cambiare posizione sulla poltrona; 3) lascia che Guido ignori le sue domande e gli permette di procedere a ruota libera. Ed è tutto documentato, lettori:
– Non voglio chiederle cose che non può dirmi, però confesso di essere curioso. L’omicidio di oggi è un episodio di criminalità organizzata o è di matrice diversa?
– La mia cliente è accusata di aver ucciso l’ex compagno della sorella. […]
Parve sul punto di aggiungere o chiedere altro. Poi lasciò perdere. Ebbi come l’impressione che la sua compostezza e il suo autocontrollo professionali – fino a quella sera li avevo percepiti come inscalfibili – si fossero un po’ allentati. Aveva una curiosità personale per quanto gli avevo appena detto.
– Insomma sono uscito, l’aria era fresca, quasi freddina, e io mi accorgevo di indossare solo dei jeans e una maglietta a mezze maniche. Il ragazzo era vestito allo stesso modo.
Il dottore cambiò posizione sulla sua poltrona. Spesso avevo l’impressione che i cambiamenti di postura fossero deliberati, che facessero parte di una liturgia terapeutica. Quella volta nel movimento ci fu qualcosa di spontaneo, di non calcolato.
– Gliele ha dette, queste cose?
Ignorai la domanda. – In quel preciso momento mi è tornato in mente un film […].
Questo sarebbe lo psicoterapeuta, addirittura “junghiano”?! Ammazza che… schifezza… ehm. Carnelutti è un leccaculo, è simile al professore matto teorizzato da Galiano: ma i bravi maestri devono essere distaccati dai loro allievi, perché è proprio la distanza a far sì che l’allievo (o il bisognoso, in generale) possa trarre giovamento dall’azione del maestro (o di colui che ha i mezzi per aiutare, in generale).
Invece, mi dite voi cosa viene fuori, se chi dovrebbe condurre molla le redini e si siede a fianco del passeggero, sventagliando le ciglia e comportandosi da signor Smithers?!
Appunto, Carnelutti non serve a nulla, e la dimostrazione definitiva viene dal fatto che Guerrieri scopre una verità nascosta e sgradevole su di sé (ovvero, scopre di aver difeso Elvira, la quale non meritava di essere difesa, e solo perché a lui stava antipatico Petacci… che casino…) per conto suo, IN TOTALE AUTONOMIA! E nel mentre Guido scopre sé stesso, Carnelutti non dice neanche una parola… uh, si masturba… che ne so?! Leggete:
– […] ho indotto una narrazione [si riferisce alla difesa di Elvira] falsa e l’ho sostenuta con la mia impostazione difensiva. […] [I]o non avevo mai fatto una cosa del genere. Perché adesso l’ho fatta? […] Senza riconoscerlo a me stesso ho pensato che fosse giusto cercare di farla [si riferisce a Elvira] assolvere. Una questione di giustizia sostanziale. […] Ho sempre pensato che la giustizia esista solo nel sistema delle regole e fin qui avevo cercato di attenermi a questo principio: non si imbroglia per vincere un processo, e in generale non si imbroglia nella vita.
Carnelutti non fece commenti e nemmeno domande.
La parolina con la enne (“ennesimastrunzatadiCarofiglio”)
Colpa mia! Il mentore, tzè! No: il “personaggio utile come un sedere senza buco”, il nuovo archetipo per il frenetico mondo moderno! E, anche questa vi sembrerà ormai un’ovvietà, Carnelutti non è l’unico a ricoprire tale ruolo. In effetti, L’orizzonte della notte è pieno di personaggi una tantum che arrivano, pendono dalle labbra di Guido che fa alcune sue considerazioni origgginaley, e poi se ne vanno.
Filippo. Filippo! Oh, lettori, questo è il barbiere di fiducia del Guerrieri. Perché lui è un avvocatone, quindi è ricco sfondato, ed è anche nobile, come un certo autore di nostra conoscenza: che, vi pare possa abbassarsi a radersi con le Bic (e no, non le lamette, intendo proprio le penne, dopo aver affilato la plastica)?
Vabbè, Filippo fa il suo memorabile ingresso nel romanzo per… oddio… LOL… per dire che si sente colpevole per… non ce la faccio… ah, ah, ah, ah, ah!… ah, ah, si sente colpevole perché ha PENSATO la parola: “negro”. Ah, ah, ah, ah! Occhei, allora, devastato dalla cosa, fa quello che farebbe chiunque: va dal bellissimo Guido e cerca un consiglio… o una raccomandazione presso il Padreterno, boh…
Lo guardavo nello specchio. A sua volta lui mi guardò nello specchio. Fece per dire qualcosa, poi ci pensò su e decise che era meglio di no. Passò ad altro.
– Lei lo sa che io sono di sinistra.
– Me lo hai detto. Di questi tempi è un concetto sfuggente ma, per quello che vale, anch’io.
– Noi di sinistra non siamo razzisti. Siamo contro il razzismo, giusto?
– Giusto. Cosa stai cercando di dirmi, Filippo?
– Oggi, mentre venivo al lavoro col motorino, un tizio di colore che guidava una vecchia Panda non si ferma a uno stop e quasi mi prende. […] E sa cosa ho pensato?
– Cosa?
– Guarda ’sto negro di merda. […] L’ho pensato prima di rendermene conto e quando me ne sono reso conto mi sono vergognato. Io non sono razzista. Però ho pensato a quella cosa. […]
– Capisco. Ci sono strutture nascoste nella nostra mente. Non ne siamo responsabili e spesso non ne siamo nemmeno consapevoli, fino a quando non saltano fuori per qualche evento improvviso che sfugge al nostro controllo. Tutti noi abbiamo in testa cose che non conosciamo e che non ci piacciono.
– Mi vergogno, mi sento in colpa.
– Uno psicanalista ti direbbe che non devi sentirti in colpa. Prima di tutto perché è sbagliato in generale, sentirsi in colpa. Bisogna riconoscere le cose sbagliate che abbiamo fatto, provare a rimediare quando è possibile, prendere spunto dagli errori per cercare di non ripeterli. Ma il senso di colpa non serve a niente e dei pensieri non siamo responsabili: sono qualcosa che accade, in maniera indipendente dalla nostra volontà. Hai mai provato a dirti: non devo pensare a niente? […] Facciamo un gioco, una cosa che ha scritto un grande autore russo in un suo racconto. Adesso non devi pensare a un orso bianco. Provaci, dai.
Smise di tagliare, serrò le labbra, indirizzò lo sguardo verso l’alto a sinistra, come se ci fosse qualcosa da guardare. Infine scosse il capo, sorridendo.
– È impossibile anche questo.
– Non controlliamo i nostri pensieri. A volte arrivano e basta. Ma possiamo controllare le nostre azioni […].
Lettori, ho riportato il pezzo per intero perché questa merda è oro. È ORO! Gianni, sei un fottuto mito, ti adoro!
Bene… uh… c’è sicuramente dell’egoxploitation in tutto ciò, e forse anche della blaxploitation, ma sappiamo che l’autocelebrazione non è il fine ultimo di Carofiglio, per niente. Come ho avuto modo di affermare altrove, io sono straconvinta che il nostro autore è serissimo. Carofiglio vuole davvero rassicurarci. Lui sa che ognuno di noi, di tanto in tanto, così, magari la mattina durante la cacca post–caffè, lui sa che ognuno di noi pensa delle cose che non vorrebbe pensare, tipo: “sesquipedale a reazione”, “lingerie di Margareth Thatcher” o, appunto, “negro di merda”. Sono cose che capitano, solo che poi ci si sente in colpa, ed è lì che possono cominciare i problemi, quelli grossi, quelli pisssigologggigi. Tranquilli tutti, vabbuò?! Primo: essere di sinistra, perché bisogna fare rete, come gli alcolisti anonimi. Secondo: capire che “abbiamo in testa cose”. Terzo: … uh… occhei… facciamo che va bene pensare quelle cose, però non bisogna dirle, eh?
E scriverle? No, perché il Gianni “negro di merda” l’ha scritto. Ops, l’ho scritto anch’io. Oh no, adesso ho paura, mi sento in colpa. GUIDO DOVE SEEEEI?!
Ah, ah, ah, lettori, è difficile, ma provo a mettere insieme due parole sensate. Eddai, dico… la scena è totalmente inverosimile, cioè… porca vacca, ci sto pensando adesso, questa era l’assurdità buona per un sogno, e Carofiglio l’ha messa al posto sbagliato! Santo cielo, vi pare che con tutti i problemi che la gente comune affronta quotidianamente, un tizio qualunque (non uno spostato di suo, quindi, non uno… eh, eh… come me) fermi di botto la sua vita perché ha MENTALMENTE apostrofato un pirata della strada nigeriano (ghanese? Congolese? Hutu? Tutsi? Zulu?) con un “negro di merda”? Cosa ci si aspetta, ehm, che pensi: “stupiduccio africanuccio abbronzatuccio che mi hai quasi ammazzatuccio”? La nostra natura animale non funziona così, Gianni!
E poi, è mai possibile?! Il “sapere” che Carofiglio decide di condividere con l’umanità è sempre una centrifuga di puttanate pescate nelle peggiori pagine Facebook, quelle piene di bot russi, vietnamiti e (ancora, ma effettivamente è vero) nigeriani! Capisco l’esuberanza intellettuale del nostro autore: a lui piace imparare, coltiva interessi in vari campi, e lo ammiro per questo. Sono sincera, non è una perculata, posso tranquillamente considerare Carofiglio un filosofo, ossia uno che ama imparare e vuole imparare. Però un filosofo pasticcione che pasticcione così non s’era mai visto! È invariabilmente affascinato dall’internet, da bravo boomer non riesce a distinguere le cazzate del web dalle rare perle di (vera) saggezza, e c’è anche da dire che ha parecchie difficoltà a ragionare cinicamente sulle informazioni che incontra. Il nocciolo, penso, è in quel “cinicamente”: può darsi che si debba essere un po’ degli stronzi, per scoprirsi buoni filosofi (del resto, Aristotele, Abelardo, Newton… eh). E Carofiglio, ci metto la mano sul fuoco, non è uno stronzo, neanche lontanamente.
Ecco perché ha composto quel brano allucinante: se nelle sue vene ci fosse stata almeno una goccia di stronzaggine, avrebbe capito subito che quella dell’incontrollabilità dei pensieri è robaccia considerata cringe sin da quando ne parlava Niki di Ssuca… ops, scusate, refuso… Scusa ma ti chiamo amore. Nel 2007…
“A che stai pensando?”
“Io?”
“E chi?”
“A niente.”
“Impossibile non pensare a niente.”
“No, sul serio, non pensavo a niente.”
“Ah sì? Provaci sul serio a non pensare a niente…”
Rimangono per un secondo in silenzio.
“Vedi? È proprio impossibile. Comunque affari tuoi se non me lo vuoi dire…”
[Scusa ma ti chiamo amore, capitolo ventitré]
Il commissario Lattarulo (non so, mi faceva ridere)
Lettori, questo è il finale della recensione. Pertanto, vi parlerò un poco dello stile de L’orizzonte della notte. Sì, è il “finale”, poi ci sarà la “fine”, ho copiato il format di Uomini e donne.
Ebbene, avvocati, nobiltà italiana, psicologia… va da sé che il tono è invariabilmente aulico, accademico, formale. Tuttavia, l’avete visto dallo stralcio poc’anzi discusso, c’è anche quella parolina: “sinistra”. Ecco quindi che, quando compare un termine giuridico sconosciuto a noi del popolino, Guido giustamente si erge sulla massa e subito dimostra all’ideale professorone che è lui il più uguale nella classe sociale più uguale delle altre. Cioè, ogni volta che (inspiegabilmente, perché è un cazzo di legal thriller!) compare una definizione giuridica, lo stile del romanzo diventa all’improvviso formalissimo, per poi riabbassarsi, ridiventando solo formale.
Un bell’esempio: Guido, posseduto dallo spirito di Wikipedia, non si trattiene e, guardando in camera, spiega una volta per tutte cos’è la concussione…
Avevo appena concluso un processo per concussione in cui difendevo la persona offesa costituitasi parte civile. La concussione è quel reato particolarmente odioso in cui un pubblico ufficiale, abusando dei suoi poteri, costringe la vittima a dargli soldi o come dice la legge «altra utilità». In sostanza: un’estorsione commessa da chi ricopre una funzione pubblica. C’è concussione, per esempio, quando un medico ospedaliero pretende soldi da un paziente per fornirgli cure cui avrebbe diritto in forma gratuita […].
E qui ci erudisce sulla natura del sostituto commissario, passaggio chiave del romanzo, da cui dipende la trama intera:
Il primo teste era il sostituto commissario Lattarulo. Sostituto commissario è una denominazione che serve a indicare il grado più alto nella carriera degli ispettori. Recitò la formula di rito e Consoli cominciò a esaminarlo.
Occhei, grazie… me lo segno, eh?
Ora che posso fare anch’io l’avvocato, vi dirò, trovo godibilissime e gustose non soltanto le suddette lezioni di Guerrieri, ma anche tutte le scene in cui il burocratese condisce l’eloquio dei personaggi. Oh sì, certo, nel mondo inventato da Carofiglio la gente è pedantina e garbata, le parolacce, tipo “negro di merda” o “governo Meloni”, al massimo si pensano (e più per sbaglio che altro, come abbiamo visto), però mai e poi mai si dicono. Le parolacce? Pfui!, manco le espressioni terra terra e nonsense da coattone, come “viè ’n bò qui” o “non so dirle se la parola aspirazione sia giusta, ma posso dire che da Presidente del consiglio sono fra le donne considerate più affermate in Italia”, sono consentite. Guardat… ehm… mirate, o villici:
– Mi stai ascoltando? Sembri da un’altra parte, – disse lui.
– Ti ascolto, certo. Va’ avanti.
– A quel punto ho chiamato il factotum della Castell, il ragionier Servidio, e gli ho chiesto se potevo dare un’occhiata all’appartamento.
Il ragionier Servidio, porca troia! Marò, meno male che sappiamo cognome e titolo di studio di quel benemerito “factotum”, sennò come avremmo potuto… uhm… fare… eeeeh… qual… cosa?
Ah, ah, ah!, cioè, chi se ne frega, no?! Nemmeno a dirlo, Servidio non ha alcun ruolo nella storia, e lo scambio di battute riportato è incredibilmente cervellotico e irritante, proprio il genere di pomposo (e falso) decoro che piace ai nuovi nobili… uh… roba che va bene alle feste in cui lo spogliarellista è anche uno dei più famosi sondaggisti italiani (Gianri’, non dovevi proprio scriverla quella). Risultato? Vorremmo (almeno, noi proletari) picchiare e derubare il libro, senza dubbio: tanto, ogni eventuale senso di immedesimazione con la sua storia è svanito, perciò nessun freno emotivo può trattenerci.
E se pensate che stia esagerando, perché picchiare i libri è ancora un reato punibile con la tortura, sappiate che a mio parere è un rischio minimo, rispetto al beneficio che otterremo dal pestaggio. Sì, solo agendo riusciremo ad alleviare l’insopportabile prurito alle mani che L’orizzonte della notte ci avrà causato. E non solo per via dei suoi burocrati che cinguettano frasi d’amore, oh no, no: anche per l’eccezionale dedizione che il romanzo dimostra nel riportare uno dopo l’altro tutti i dettagli più inutili che siano umanamente concepibili. Volete essere istigati alla violenza, lettori? E allora beccatevi questa sequenza, che illustra il desinar del dottor Guido de’ Guerrieri, gentiluomo avvocato:
Feci una doccia veloce, preparai un’omelette con parmigiano e funghi, un’insalata di valeriana e pomodori con olio e una spolverata di curcuma. Per compensare un po’ questo eccesso di salutismo aprii un Malbec (di regola è argentino, ma quello era campano, una discreta rarità) che mi aveva regalato un cliente e che era molto buono.
D’accordo… vaaaabbene.
A dire il vero, a proposito del suddetto brano, mi sento in dovere di sottoporvi l’ultima, seria e scolastica osservazione di questo mio estenuante commento. Ecco… in realtà il resoconto di una cena potrebbe essere tutt’altro che inutile: a patto, però, che il cibo in sé comunichi qualcosa. Vi ricordate delle uova rivestite di pasta frolla e ripiene di beccafico che, nel Satyricon, Trimalcione offre ai suoi ospiti? In tal caso, le uova e il cibo in generale sono l’implicita descrizione che Petronio fa dell’animo rozzo ed eccessivo di Trimalcione. Invece di scrivere “Trimalcione era un uomo incontenibile, dedito alle apparenze” e bla bla bla, Petronio va direttamente con le uova in tavola: ottimo espediente, no?
Sì… e l’omelette di funghi che Guidolino prepara è… uhm… occhei, allora: non possiamo dedurre che Guido è ’o re do’ quartieeere (è solo un’omelette!), ma neppure è in difficoltà economiche (ci mette i funghi, è una omelette chic!). E, a dispetto delle sue stesse parole, non possiamo dedurre che è un salutista (mangia le uova, e si sgargarozza il Malbec, che credo sia una specie di vino ma sono troppo con le pezze ar culo per esserne certa), ma neppure sembra essere un godereccio (un’insalata?!). Insomma, a che cacchio è servita la presentazione della cena? O Carofiglio ha vissuto l’ennesimo momento Eataly e si è fatto prendere dalla menata dello storytelling, oppure ha visto un episodio di Cucina botanica e la voce erotica di Carlotta Perego l’ha confuso e disinibito, facendogli mettere nero su bianco casuali fantasie culinarie.
Basta.
Buonanotte, dolce principe (dei so bad it’s good)
Sarò breve con le conclusioni, perché, ehi!, è Gianrico Carofiglio!
L’orizzonte della notte è tutto ciò che avete letto fino a questo punto. Ed è… è un so bad it’s good, alla fin fine. Se Fiore Manni è la regina dei so bad it’s good, Carofiglio è… uhm… non so, il principe ereditario (nel senso che il suo “dono” letterario è congenito) dei so bad it’s good? Ed è anche il duca del cringe. Dalle recensioni che ho fatto, sì, senza dubbio, i libri testimoniano; però mi mancano i primi romanzi, e rimango con il cruccio che il Guido Guerrieri primitivo possa pure essere un eroe coi fiocchi. Gianrico, ormai, è stato assorbito dall’ossessione per la filosofia (spicciola), e quindi c’è poco da stupirsi se le sue attuali (e, c’è da star sicuri, anche future) fatiche letterarie si rivelano invariabilmente dei minestroni stile I mercoledì di Pippo: opere goffe, senza senso e… che fanno morire dal ridere. Ma i suoi primi romanzi? Dovrei proprio cercare di recuperarli. Magari potrei anche riuscire a laurearmi in Gianrico Carofiglio, con una tesi su Gianrico Carofiglio. Relatore: Gianrico Carofiglio. Uh, sarebbe bello.
E ancor più bello, per me, sarebbe dare finalmente tre stelle (o più) al mio autore feticcio. Ero partita con grandi speranze per questo romanzo, lo ammetto sinceramente, nondimeno ho dovuto cedere alla verità ed elargire la solita stellina sola soletta. Peccato, peccato davvero, io adoro quest’uomo, e adoro i suoi libri. Sì, continuerò a ripeterlo: le recensioni negative non significano che io sia una hater di Gianrico Carofiglio. Non potrei mai, perché mi ha regalato tante buone letture, cioè mi ha divertita e mi ha impegnato le meningi quanto basta per lasciarmi soddisfatta ogni volta.
Perciò, dico a voi, seguite la recensione e non fatevi scappare nessun Carofiglio, vi do la mia garanzia che non riuscirete a dubitare di aver fatto, come ho fatto io, una buona lettura!
Questa recensione è una goduria.
È in lotta per il primo posto con la recensione di Spatriati. Mi sa però che vince questa.
Tènk yu