L’educazione delle farfalle – Donato Carrisi

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IL GIUDIZIO:

l'educazione delle farfalle romanzo giallo di donato carrisi edito da longanesi

Ho il dovere di mettervi in guardia. Ciò che è accaduto a me può accadere anche a voi.

D’accordo, proviamo col secondo, allora…

È iniziato un nuovo anno, e quindi ci sono le classifiche definitive dell’anno vecchio. Ne ho passate in rassegna un po’, perché sono una nerd ossessiva compulsiva, e ho scoperto che… uhm, no, non ho scoperto un granché. Come mai? Primo: mi sono distratta, perché dalle mie parti c’è uno strano animale che fa un verso tipo “puà… puà… puà puà puà” e voglio scoprire che cos’è (e poi adottarlo… o mangiarlo, non so). Secondo: eh, di queste classifiche una dice una cosa, una ne dice un’altra… mah. Facendo una media, che ovviamente media non è per nulla, penso di poter estrapolare alcuni dati sicuri. Ad esempio, La portalettere è il libro più letto del 2023. Uhm… eh… perché?! Cioè, La portalettere?! Vabbè, pubblicità… come si fa a resistere? Anche se la pubblicità non è che l’abbia vista tanto in giro, uhm…

Ehm, occhei, poi? Poi, a quanto pare, piacciono i rosa e i gialli. Scontato, scontatissimo. Ma che vi dice il cervello, di farvi con tutti ’sti gialli, eh?! È letteratura minore, stupidina, cosa… cosa cercate? Magari, magari… magari vi piace risolvere enigmi. Sarà? Forse sì, non siete come il pubblico americano, che vuole storie semplici e con titoli semplici (come Harry Potter and the Sorcerer’s Stone, perché “Philosopher’s” era troppo difficile… storia vera!), a voi piace essere attivi. Ma poiché lavorate già tanto, non vi va di essere attivi su un trattato di metafisica: troppo impegnativo, troppo spaventoso. No, niente spaventi e niente rompicapo, la testa deve uscirne con al più un bernoccolino, non con una frattura. Oh, se è questo a muovere le vostre scelte, lettori, sono dalla vostra parte, fate bene, e una volta di più dimostrate quanto valete, rispetto a tanti altri babbei in giro per il mondo, che si accontentano di robaccia e che… possiedono… la… ehm… bomba… atomica. Sì…

Però, però, però. Vanno bene i gialli, ma ce ne sono di decenti? No, perché, ora che ci penso, nonostante ne abbia recensiti alcuni davvero carini, molti sono… uh… cretini. E se è divertente leggere delle detective story cretine, s’è appena detto che è il brain training insito nel giallo a essere ricercato, quindi con le veltronate viene meno proprio il senso di dedicarsi alla lettura, no?
Alle solite, è il trend della letteratura italiana: il pubblico vuole opere ben fatte, e… e i tre o quattro capoccia che detengono il monopolio se ne fottono. Fanno quello che gli pare. Non ci sentonooooo, chiaro il concetto? È inutile: se si vuole un giallo godibile bisogna passare ore (che non abbiamo libere) a spulciare tra le offerte degli store online o dei mercatini fisici, rivolgersi all’ultima uscita del nome sulla bocca di tutti è una perdita di tempo. Si sa già, è robaccia, è la solita cazzata pompata e strampompata, senza sapore, completamente brulla. Si corre addirittura il rischio di non ritrovarsi con una veltronata divertente, bensì con una pigra scocciatura.
Eh, già. Già?

Vi sembrerà strano, e infatti a me è sembrato strano, ma questo Donato Carrisi… ah-ah… sì, sa il fatto suo! Autore di classifica, da esposizione in vetrina, da interviste sui quotidiani, da rubrica settimanale sul tg24 di turno… eppure, eppure, ha scritto un bel giallo. Sì, vi tolgo subito la suspense e vi sbatto in faccia la mia opinione finale: L’educazione delle farfalle è una storia molto ben congegnata e molto ben riuscita. Leggerla è stato un piacere, ancor più se contiamo che ero partita con un pregiudizio, motivato dalla grande popolarità dell’autore e dell’editore. Ehi!, io cerco di essere una persona intelligente e giusta: per quel che riguarda l’intelligenza, mi affido ai pregiudizi (oh sì, che credete?, avere pregiudizi è evolutivamente vantaggiosissimo), mentre per quel che riguarda la giustizia, mi affido alla disciplina che mi impone di buttare nel cesso i pregiudizi, quando un fatto li smentisce.
E allora, e allora, bando alle ciance, ché di sicuro volete capire che diavolo è successo: e, appunto per capire, che c’è di meglio se non un, zac-zac!, riassunto lampo della trama? Eh, sì, sì… qualche piccolo spoiler, purtroppo inevitabile. Non vi garba? Allora prima leggete il romanzo. E poi tornate!, così ci confrontiamo insieme. Va bene, dai, vai con la trama, su, su!

Serena, la protagonista della nostra storia, è il prototipo della donna in carriera: sexy, intelligente, senza una famiglia alle spalle, decisa e solitaria. È una broker e fa i big money a… a Milano, ovviamente. A differenza di quel che di solito succede nella realtà, Serena non si serve dell’insider trading o delle spintarelle massoniche: ha un eccezionale intuito, e sa sfruttarlo per portare a casa gli affari migliori. Insopportabile perfettina? No, la sua intelligenza non è sufficiente per tenerla al riparo dagli imprevisti e dai casini che piombano nella sua vita. Succede questo: la spirale dà forfait, e la nostra protagonista, in vacanza a Bali, si ritrova incinta di uno sconosciuto. Non è tutto, altrimenti sarebbe troppo facile. Per una serie di sfortunate coincidenze, Serena scopre di aspettare un bambino soltanto al quarto mese di gravidanza. Embè? Eh, dettaglio interessante: al quarto mese non può più ricorrere all’aborto terapeutico. Ci si mette ancora la sfortuna: pianifica di partorire nella riservatezza di una clinica privata e di dare in adozione il neonato, ma… non ci riesce.
Insomma, contro ogni previsione e contro la sua volontà, Serena si ritrova madre di una bambina, che decide di chiamare Aurora. La nostra protagonista non è una cattiva madre, però non sa bene che cosa fare, e cresce la figlia con poche manifestazioni d’affetto e con tanti abiti lussuosi. Mette a disposizione una tata, e non fa mancare innumerevoli viaggi in giro per il mondo.
Ecco, c’è quest’ultimissimo viaggio… una settimana bianca a Vion. Non cercatela sulla cartina, è una fittizia località svizzera, una specie di St. Moritz che non può dare beghe legali se usata in una storia. Vabbè, Aurora non è sola, si gode il viaggio in compagnia di altre undici bambine. Praticamente una comitiva scolastica di lusso, che potrebbe andare storto?
Va storto che scoppia un incendio nello chalet in cui si trovano le vacanziere, arcicacchio! Oh, meno male, la specie umana è salva, undici bambine incolumi. Eh già, undici. Questo è un bel problema: non per la specie umana, ovvio, ma per Serena sì. Chiaro, no? Aurora è proprio quella travolta dal casino. Non è necessariamente morta, tuttavia, è solo scomparsa.
Com’è ovvio, Serena cade in una profonda depressione, ma un giorno… un giorno riceve, da un numero sconosciuto, un sms contenente il link a un video. Proprio nel video, si vede lo chalet in fiamme, prima dell’arrivo dei soccorsi. Uhm, scherzo di pessimo gusto? No, c’è un particolare: nonostante la notte del disastro fosse gelida, si vede chiaramente che la finestra della camera di Aurora è spalancata…

Diavolo di un Carrisi, mi tieni sulle spine!

Stop! Non voglio sciupare la vostra esperienza di lettura raccontandovi tutto tutto. Anzi, mi va di invogliarvi (mia personale iniziativa, eh, non prenderò un centesimo per questa “pubblicità”, e Carrisi nemmeno lo conosco) maggiormente, sottoponendovi qualche osservazione a proposito della porzione di trama che ho riassunto.
Uhm. Ma sapete che c’è? Sembra che L’educazione delle farfalle, per una parte non trascurabile, si trovi ben lontano dal giallo, o addirittura dal thriller. Comincia, e per un bel po’ prosegue, come un romanzo di narrativa generica. Si parla di vita quotidiana (benché di una vita non proprio qualunque), ci sono i sentimenti, gli imprevisti, le relazioni famigliari, i sensi di colpa, il desiderio di libertà. Sì, posso capire quelli di voi che, volendo lasciare un commento su Amazon, hanno sostenuto pressappoco che “il libro è lento e pure noioso”, che “per oltre un quarto è davvero prolisso”. Capisco, ma… ma non sono d’accordo. A mio parere, l’indugiare di Carrisi sulla vita della protagonista sia un segno inequivocabile della sua bravura. Oh, sì, certamente, ho dei motivi per crederlo.

La suspense, tanto per dirne una. Ah sì, la suspense.
L’educazione delle farfalle, e mi spiace se il mio riassuntino vi ha ingannato, non inizia parlando di Serena, bensì… bensì introduce l’incendio dello chalet e la scomparsa di una bambina. Di una bambina: non si sa chi è. Solo dopo il primo capitolo, Carrisi ci presenta la protagonista e le beghe della sua vita sentimentale. Pertanto, l’ampia trattazione della vita di Serena è una sorta di intermezzo fra la presentazione del mistero e il suo epilogo. A che serve un tale intermezzo? A irritarci, ovvio. Che?! Eh sì, è proprio così: ma è un’irritazione positiva, perché ci tiene sulle spine, ci fa quasi dire “bastardo di un Carrisi, e dimmi che succede, che succede?!”, e se cominciano a frullarci in testa simili parole, be’, è palese che siamo curiosi. Vogliamo arrivare al punto, e disperatamente, non per noia o perché ci stiamo capendo un tubo.
Non ho dunque da stupirmi se da molti l’intermezzo sia stato giudicato fastidioso: eh, proprio quella era la sua funzione! Il nostro istinto ci spinge ad appagare subito la curiosità, tende a rifuggire le “perdite di tempo”, però… però, dovete sapere, il nostro cervello non rilascia tutta ’sta dopamina, se si raggiungono gli obiettivi facilmente e rapidamente! Perciò viviamo un conflitto: da un lato vogliamo tutto e subito, dall’altro, eh, l’attesa ci fa godere maggiormente, e proprio perché la odiamo. Siamo complicati e distorti, lo so, sarebbe meglio essere dei fortunati protozoi che reagiscono soltanto alle variazioni luce e non devono trovarsi un compagno per il ballo scolastico, ma… checce volete fa’?

Insomma, è vero che il romanzo è prolisso, come dicono i commenti su Amazon. Tuttavia, quella è la prima impressione: vorrei invitare gli stessi commentatori perplessi a riflettere un po’ di più, e a confessare con onestà se la “noia” de L’educazione delle farfalle ha davvero impedito loro di godersi il romanzo. Ha spento la loro voglia di girare pagina? Sì? Mah, ho i miei dubbi.
Anche perché il nostro ampio intermezzo è importante per costruire non soltanto una buona suspense: serve a indurre un autentico coinvolgimento emotivo. Sapete, no? Che ci frega di seguire una storia per conoscere una serie di eventi? A noi va di conoscere gli effetti che tali eventi hanno sui personaggi. Titanic non commuoverebbe nessuno, se la nave fosse stata un mercantile senza pilota; allo stesso modo, uno tsunami sarebbe un “meh”, se si abbattesse su una scogliera deserta. Insomma, tendiamo a misurare la drammaticità di un evento in base alle conseguenze soprattutto emotive. Un capace autore di gialli e di thriller dovrebbe saperlo, facendo perciò attenzione a non trascurare l’individualità dei suoi personaggi, prediligendo ad essa altri elementi della trama. Che so, gli indizi, l’azione… le descrizioni d’ambiente.
Eh, diciamolo, l’eroe non sta nel romanzo solo per mostrarsi fico e traghettare la storia alla fine, è anche il nostro “termometro emotivo”. Considerate uno dei miei soliti esempi: Seven, diretto da David Fincher. Se nel film non si fosse indugiato sulla vita matrimoniale del detective David Mills e di sua moglie Tracy, quando alla fine scopriamo che nel pacco c’è la testa di quest’ultima (ops… scusate, se non l’avevate visto), non ci sentiremmo distrutti e confusi. Non riusciremmo a comprendere il dilemma morale (vendicarsi o seguire la legge), che in effetti si rivela il filo conduttore della trama.

High-Powered Ultra Energy Super Career Woman

D’accordo, ma non vi vedo troppo convinti. Sono proprio tanti ad essersi lamentati della scelta narrativa di Carrisi. Cinq… uanta lettori italiani non possono sbagliarsi (eh, eh, eh… eh, le mie citazioni del cazzo… non riesco a resistere, sono una millennial!), dopotutto. Non avete torto a pensarla così. Non avete ragione, però non avete torto. E non avete torto perché Carrisi ha azzardato.
Come? Con la scelta di avere Serena per protagonista. Ammettiamolo, la tipa non è amabile. Anzi, è direttamente odiosa. Rappresenta in sostanza il topos della “High-Powered Career Woman”, a cui appartengono anche Miranda Priestly de Il diavolo veste Prada, la madre di Haruhi dell’anime Ouran High School Host Club, e la madre di Angelica del cartone Rugrats.
Se avete presente almeno uno di questi personaggi, vi renderete subito conto che la High-Powered Career Woman spesso ricopre nelle trame un ruolo antagonistico (primario o secondario), perché è calcolatrice, aggressiva, spietata e anaffettiva. Insomma, non ha semplicemente qualche difetto, è un personaggio al limite del disturbo antisociale, verso cui è naturalmente difficile instaurare un legame empatico. A sostegno delle mie parole, una mia collega bookblogger, nella sua recensione de L’educazione delle farfalle, definisce Serena una “madre snaturata e priva di senso materno che riesce a farsi odiare per buona parte dell’inizio del romanzo”. Già.

E quindi, il buon Carrisi ha azzardato. Ha anche commesso un errore?
Nope! È un altro colpo da maestro, e scusate se mi sbilancio. Come vedremo, la struttura dell’enigma alla base de L’educazione delle farfalle è piuttosto banale, è pieno di cliché arcinoti, nulla di eccezionale, davvero. Da un lato, bene, perché torniamo alla mia introduzione e al bisogno di una certa semplicità. Dall’altro, è evidente, se il mistero è banale, occorre un espediente per far sì che L’educazione delle farfalle possa attirare l’attenzione.
Eh, sapete già che cosa attira l’attenzione più di tutto, vero? Sicuro: il cambiamento. Aggiungere alla collaudata impalcatura giallistica un viaggio dell’eroe, in cui la protagonista è costretta ad abbracciare un nuovo stile di vita, è la soluzione ideale per dare una rinfrescata a una trama stantia. Non qualcosa di inedito, sicuro, però neppure qualcosa di totalmente ordinario, pertanto… ci sta, è una decisione azzeccata.
Con questo in mente, capite bene che Serena era il personaggio perfetto da sottoporre a un cambiamento. Da buona High-Powered Career Woman, è una maniaca del controllo ossessionata dall’organizzazione e dall’esercizio del potere, e la comparsa (e poi scomparsa… LOL) di Aurora ci incuriosisce, perché è la base di un esperimento di cui subito vogliamo conoscere l’esito: che succede quando una stronza dio-in-terra si rende conto di non poter esercitare davvero il controllo sulla realtà?
Uh-uh. Se al posto di Serena avessimo avuto un altro tipo di soggetto, magari uno docile e incline ad accettare con rassegnazione tanto gli ordini dei suoi superiori quanto gli imprevisti dell’esistenza… meh, che ci avremmo fatto? Sì, d’accordo, avremmo potuto goderci un po’ di sano e tragico fatalismo, magari condito con una goccia di teodicea, ma… ammettiamolo, i cazzuti (specie se odiosi e pieni di sicumera) ci catturano maggiormente, siamo lì pronti a dire “eh, e mo’ che fai, eh?”, con eccitazione. In breve, ci piace che Serena sia prima lo “squalo biondo” dell’alta finanza, poi una donna che nega il suo dolore facendo buon viso a cattivo gioco, e infine una semplice impiegata di una casa editrice, le cui opinioni vengono tenute in scarsa considerazione:

Era a capo di un dipartimento strategico per gli investimenti ad alto rischio ed elevato rendimento di una banca d’affari, ed era diventata sfacciatamente ricca come i suoi clienti. Nell’ambiente la chiamavano «lo squalo biondo», la rispettavano e la temevano. Ma, solitamente, gli squali biondi non potevano permettersi nemmeno la più piccola défaillance. E stava arrivando la scadenza del primo semestre, Serena doveva impostare il nuovo portafoglio titoli e ribilanciare il budget. Per farla breve, si trovava nel bel mezzo del più incasinato periodo dell’anno e non poteva sgarrare.

Cosa si aspettavano, che scoppiasse in lacrime? Non si poteva aggiungere dolore al dolore, e Serena ormai ne era satura.
Ma il gesto delle piccole sopravvissute aveva mandato a monte i suoi piani. Ormai aveva perso il controllo, la vista si era annebbiata e infine era svenuta come una stupida.

Però, dovendo comunque portare avanti una parvenza di vita, aveva dovuto cercarsi un lavoro. […] Infatti aveva trovato un impiego in una casa editrice […] e il suo compito consisteva nel leggere e valutare manoscritti inediti. In realtà, Serena non decideva nulla. Poteva soltanto segnalare alla direzione editoriale i romanzi che le sembravano più interessanti. Molto spesso i suoi suggerimenti venivano ignorati, ma lei si riempiva d’orgoglio quando uno dei suoi scrittori veniva pubblicato.

È un bel cambiamento, no? Radicale, direi. E, ribadisco, del tipo che sa stimolare la emotività. Evidentemente, a suggello di questa parte di recensione, dobbiamo concludere che la nostra protagonista doveva davvero risultarci odiosa, al principio: e dunque, sì, giustissimo, Serena è insopportabile per una buona fetta della trama, però questa constatazione deve essere associata a quel che succede in seguito, e va considerata sotto una luce molto positiva. La collega che ho poc’anzi citato s’è fermata alla partenza, mentre io (ansimando, perché non so correre e sono pigra) credo di essere arrivata al traguardo dell’analisi: Carrisi ci ha consapevolmente causato un travaso di bile, per decine e decine di pagine. Grazie, s’è rivelata la scelta giusta.

Racconta-balle

Passiamo ad altro, abbiamo parlato a sufficienza della protagonista. Voglio ora concentrarmi sul modo in cui procedono le indagini. Sul groviglio di indizi e di intuizioni. Mi tocca ribadire: il “mistero della settimana” proposto da L’educazione delle farfalle sembrerebbe un po’ banale, davvero abbonda di cliché, mh, mh, mh!
Tanto per dirne una, è ormai ovvio che la storia ruota intorno al classico topos del “missing child”… uhhh, ideona, sintonizzatevi nelle ore pomeridiane sul canale Nove e quei gran pezzi di Warner Bros. vi soddisferanno con una sequela di “true crime” in cui il povero ragazzino afroamericano di turno evapora senza che nessuno possa farci niente. Poi ci sono le telefonate anonime che mettono in moto l’indagine; poi c’è la polizia che sembra non proprio pulita; poi ci sono gli abitanti del paesino che hanno un qualcosa di inquietante… via, su, è roba da “colora seguendo il numeretto”. C’è da essere indulgenti con il povero Carrisi, s’è sbattuto a delineare la psicologia e l’evoluzione di Serena, non poteva esaurirsi inventando qualcosa di originale pure per la struttura degli eventi.

No, non possiamo essere indulgenti. Non possiamo, perché non c’è motivo: la prevedibilità della storia, la sua banalità, è in effetti un’illusione. Un grande giallista, anzi il Maestro del giallo, una volta ha detto che “[i]n un romanzo giallo […] l’autore [sic] deve stare attento, pronto[,] [s]a che l’autore proverà a depistarlo[,] [e] l’autore sa che il lettore sa…” (affermazioni rilasciate da Walter Veltroni in occasione del festival Pensavo Peccioli): oh… oc… occhei, sì, a parte la confusione, il concetto è intuibile. E Carrisi, che essendo bravo (a questo punto mi sbilancio e glielo riconosco) si nutre della saggezza dei migliori, ha deciso bene di depistarci proprio servendosi dei cliché. Questi ultimi, infatti, ci inducono continuamente a elaborare delle previsioni sulla trama, e… e di volta in volta scopriamo che tali previsioni erano errate, che mancava un dettaglio.
Uhm, è meglio far parlare il testo. Nel seguente brano, incontriamo Gasser, capo della polizia di Vion:

«Buongiorno» si presentò Gasser, trafelato. […]
Lui le porse una mano sudaticcia. […]
Prima di rinchiudere la porta, Gasser controllò che fuori dal suo ufficio non ci fossero sguardi indiscreti. Un accorgimento inutile visto che, a parte la poliziotta all’ingresso, erano soli.
«Appena mi è stato detto che era qui, mi sono precipitato » si giustificò, senza che ce ne fosse bisogno. […]
In realtà, era abbastanza evidente che la presenza di Serena lo mettesse a disagio. Lei era convinta che, da quando aveva ricevuto la chiamata della poliziotta, Gasser si stesse scervellando sul motivo di quella visita. […]
Piccole gocce di sudore iniziarono a imperlare la fronte del capo della polizia locale. «Non ha raccontato questa storia in giro, vero?»
Intendeva sicuramente i media. […] Sicuramente il comandante temeva che là fuori ci fossero in agguato un cameraman e un inviato armato di microfono. Una pessima pubblicità per la località che non aveva sospeso la stagione turistica nemmeno il giorno della disgrazia e che, dopo un anno, aveva nascosto i resti dello chalet dietro un ridicolo trompe-l’œil, come si fa con la polvere sotto un tappeto.
La speranza di Gasser e di Vion era che il mondo dimenticasse presto la tragedia.
«Non ho parlato con nessuno della finestra aperta» lo rassicurò Serena, anche se avrebbe voluto assestargli un pugno sul naso.

Suda, si guarda intorno con circospezione, è agitato e preoccupato che Serena abbia raccontato ad altri la storia: se Gasser non vi sembra sospetto, allora non so che pensare di voi, siete dei sempliciotti! Il suo è il tipico atteggiamento di chi sta nascondendo qualcosa e ha paura di essere scoperto, no? È normalissimo presumere che L’educazione delle farfalle segua lo schema tipico, e quindi Gasser deve essere invischiato nella scomparsa di Aurora. D’altronde, lo dice espressamente il principio della pistola di Čechov. Ve lo ricordate?, ne avevamo già discusso in un’altra recensione: nella trama, ogni elemento introdotto deve avere uno scopo narrativo, perciò se il nostro autore è un autore capace, e ci fa notare che il capo della polizia suda con fare guardingo, ah-ah, c’è un nodo che arriverà al pettine.
E… no. La storia non procede affatto secondo le nostre immediate aspettative. Più in là scopriamo infatti che Gasser è in realtà un poliziotto virtuoso e onesto…

Le macerie [dello chalet] erano state portate lì per essere esaminate a dovere.
[Serena] Fece un passo in avanti e le mancò il respiro.
«Non abbiamo mai smesso di cercare tracce di sua figlia» affermò Gasser alle sue spalle. «Ho provato a dirglielo il primo giorno, ma lei si è rifiutata di ascoltarmi.»
Aveva sottovalutato quell’uomo e la polizia di Vion.
Adesso lo sconcerto e i sensi di colpa le attanagliavano lo stomaco.

Apperò, Carrisi ha completamente eliminato il senso del cliché del poliziotto corrotto: la trama non si puntella su di esso, è un mero espediente con cui la nostra attenzione viene sviata, come se stessimo assistendo a una specie di numero da illusionista.

Vi sento brontolare, cosa c’è che non va? Oh, sì, giusto, la pistola di Čechov. Mi obiettate che d’accordo, va bene, il capo della polizia sudaticcio serve solo a indurci a fare delle previsioni sbagliate… però c’è, è lì che suda. Perché cazzo suda?! Se in realtà Gasser non è coinvolto nella scomparsa di Aurora, come si giustifica Carrisi?
Inserire un elemento carico di significato che alla fine non porta da nessuna parte è tutto il contrario di una finezza, è una str… una str… una stronzata, va bene? Eccallà, Gasser è il Jack Jill di questo romanzo, l’elemento insulso e incomprensibile che addirittura si domanda da sé che ci sta a fare nella storia. Ma…
Ma tranquilli, tutto torna: è che ci siamo imbattuti in un narratore inattendibile. Be’, in realtà in questo caso non è proprio corretto parlare di “narratore inattendibile”, giacché il narratore è in terza persona… uh… semmai è inattendibile il punto di vista (quello di Serena) che il narratore adotta per parte della narrazione. Però, meh, “narratore in terza persona che occasionalmente adotta un punto di vista inattendibile” è troppo lungo… facciamo che parliamo di “narratore inattendibile” e basta.
Ebbene, finalmente, posso dirvi che ci troviamo davanti un narratore inattendibile fatto come si deve. Sì, sì, sono seria.
Se vi ricordate di Sembrava bellezza, e non so perché dovreste ricordarvene, allora pure vi sovverrà uno dei suoi tanti difetti, appunto il narratore inattendibile che non aveva un valido motivo per essere inattendibile (ad esempio, la Ciabatti non alludeva mai a una psicosi della voce narrante), e che non veniva affiancato da un contronarratore che marcasse tale inattendibilità.
Ne L’educazione delle farfalle, invece abbiamo tutto: abbiamo Gasser, che funge da contronarratore e smentisce la versione della protagonista, ma soprattutto abbiamo la spiegazione dell’inattendibilità di Serena. Infatti, prima ancora che quest’ultima riceva il video dell’incendio, leggiamo che la nostra eroina abusa di alcol e di farmaci. Ma certo! Le sostanze la inducono a interpretare i segnali che le arrivano dall’esterno in maniera… diciamo distorta:

C’erano vari modi per reagire alla perdita di un figlio. […]
Solitamente, madri e padri continuavano a sopravvivere, vergognandosene.
Serena se ne fregava del giudizio altrui. E anche del proprio. La sua maniera di gestire il lutto la faceva rientrare nella schiera degli ottimisti. Non era sicura che quella categoria esistesse, ma era così che si sentiva.
La sua prima reazione era stata quella di creare un cocktail.
Per anni aveva frequentato i locali più alla moda di Milano e aveva visto all’opera decine di abilissimi bartender. Rubando i loro segreti, aveva concepito la ricetta di un drink in onore di Aurora e l’aveva ribattezzato teddy-bear. […]
Dopo gli eventi di Vion, era mancata dal lavoro appena una settimana. Il tempo che era occorso a sbrigare le pratiche che sancivano il fatto che Aurora non facesse più parte dell’umanità. […]
Trascorsa qualche settimana dall’episodio fatale, Serena aveva ripreso un po’ di vita mondana. Uscite con amici fidati, qualche cena. […] Sul posto di lavoro era tornata a essere lo «squalo biondo» che tutti conoscevano e aveva la sensazione che i suoi capi la stessero considerando per una promozione. […] Ma il merito di quella specie di rinascita non era solo del suo carattere volitivo. A essere onesti, doveva condividerlo con il cocktail di Aurora.
La ricetta del teddy-bear era abbastanza semplice. […]
Due parti di vodka per 77 cc di acqua. La combinazione ideale era Belvedere ed Evian. A questa miscela si univano dodici gocce di Xanax, una pasticca polverizzata di Felopram e una di Vicodin […].
La mistura perfetta per fregare l’angoscia senza perdere completamente lucidità. […]
O almeno, questo era ciò che credeva. Perché le cose stavano diversamente da come le percepiva.
La sofferenza aveva modificato il suo senso della realtà. Serena non si accorgeva del proprio aspetto trasandato, dei capelli in disordine o del fatto di indossare per giorni sempre gli stessi vestiti. […] Gli amici non la invitavano più a cena e, le poche volte che erano usciti insieme, si erano vergognati di lei. […] La deriva della condizione psicofisica stava per ripercuotersi sul lavoro. Da tempo ormai non ne azzeccava una e i capi le stavano per dare il benservito.

Avete capito, immagino. Carrisi non soltanto ci sta raccontando che la nostra protagonista non è lucida, ma ci spiega anche il modo in cui si manifesta la sua momentanea follia: Serena, in preda a una specie di allucinazione paranoide, vede ciò che vuole vedere. Vorrebbe smettere di soffrire, vorrebbe riavere indietro il controllo sulla sua vita, e… e queste sono delle ottime basi per un attacco di paranoia bello tosto. In un accesso di delirio, si convince di essere tornata quella di prima, come se nulla fosse mai accaduto. Comprendiamo quindi che anche tutti gli indizi che Serena trova via via che la storia procede non sono davvero significativi, bensì spesso si tratta di dettagli fraintesi o addirittura irrilevanti, a cui l’eroina si aggrappa perché vuole avere la prova che Aurora è ancora viva. Ecco, riprendiamo il passaggio in cui Serena incontra Gasser:

In realtà, era abbastanza evidente che la presenza di Serena lo mettesse a disagio. Lei era convinta che, da quando aveva ricevuto la chiamata della poliziotta, Gasser si stesse scervellando sul motivo di quella visita. […]
Piccole gocce di sudore iniziarono a imperlare la fronte del capo della polizia locale. «Non ha raccontato questa storia in giro, vero?»
Intendeva sicuramente i media. Per questo la poliziotta all’ingresso si era affrettata ad avvertirlo della presenza di Serena. E sempre per lo stesso motivo, prima di chiudersi nell’ufficio insieme a lei, Gasser aveva controllato se per caso fosse tornata a Vion col codazzo di qualche troupe televisiva. Sicuramente il comandante temeva che là fuori ci fossero in agguato un cameraman e un inviato armato di microfono. Una pessima pubblicità per la località che non aveva sospeso la stagione turistica nemmeno il giorno della disgrazia e che, dopo un anno, aveva nascosto i resti dello chalet dietro un ridicolo *trompe-l’œil*, come si fa con la polvere sotto un tappeto.
La speranza di Gasser e di Vion era che il mondo dimenticasse presto la tragedia.
«Non ho parlato con nessuno della finestra aperta» lo rassicurò Serena, anche se avrebbe voluto assestargli un pugno sul naso.

La prima volta che abbiamo letto questo brano ci siamo concentrati semplicemente sulle informazioni nude e crude (Gasser è a disagio, suda e si preoccupa che non ci siano fughe di informazioni): adesso, invece, sappiamo che Serena non è lucida mentre è a Vion, ed è facilissimo intuire che l’intera scena non è oggettiva, per così dire. È un collage composto dalle deduzioni affrettate di un personaggio (in quel momento) fuori di testa. Guardate quante supposizioni campate in aria Serena deduce dall’osservazione delle gocce di sudore sulla fronte di Gasser: soltanto perché il capo della polizia sta sudando (magari anche solo per lo sforzo fisico, dato che in precedenza ci viene detto che Gasser si presenta in ufficio “trafelato”… eh, altra sottigliezza importante!), la nostra inizia a guardarlo con sospetto e perfino con ostilità (“lo rassicurò Serena, anche se avrebbe voluto assestargli un pugno sul naso”), e conclude che si sia precipitato da lei non per aiutarla, ma con il solo scopo di salvare la faccia della comunità. L’implicazione del ragionamento di Serena, benché taciuta, è chiara: se la reputazione di Vion necessita di essere salvata, allora essa ha almeno una macchia, e perciò c’è qualcosa di poco chiaro che gli abitanti del villaggio stanno nascondendo… e chi può dire che il tutto non riguardi proprio Aurora?

Ci metto un deus ex machina e mi faccio una pizza

Be’, niente male, secondo me, chi cerca una scrittura di qualità trova pane per i suoi denti, con L’educazione delle farfalle.
A questo punto, passo a discutere più dettagliatamente della seconda parte del romanzo, in cui… in cui il mistero si risolve e ogni domanda trova risposta. Semplice, senza menate, una scelta di collaudata efficacia. Eppure, eppure… anche questa seconda parte si è beccata delle strigliate, da parte alcuni miei colleghi. Ah! E io che credevo di essere la rompipalle, quella a cui non piace nessun libro. Vabbè, ancora una volta riporto una recensione critica a nome di tutte, ed essa lamenta che “le ultime cento pagine sono una coincidenza dopo l’altra”, con il finale che introduce “un ennesimo elemento magico” di cui non si capisce “quale utilità possa fornire alla storia”.

Uhm. Proviamo a ragionare con calma. Le coincidenze. In effetti… in effetti devo dare ragione al collega che ha scritto le suddette parole: non si può negare, le coincidenze sono molte, e sono decisamente eclatanti. Senza fare troppi spoiler, vi basti sapere che Serena trova la chiave del mistero… dopo esserci quasi caduta sopra:

Fu allora che le tavole sotto di lei cedettero e si ritrovò a precipitare in quell’antro nero. […]
Dopo un breve volo, atterrò col sedere su una superficie dura, quindi iniziò a scivolare lungo un costone. Puntava i piedi, ma non riusciva a fermarsi. La discesa terminò in una pozza d’acqua freddissima che le arrivava fino alle ginocchia. […]
Serena decise di chiamare il numero delle emergenze. […]
Poi allungò lo sguardo oltre il corso d’acqua. Ebbe un sussulto.
Sulla riva opposta c’era qualcuno.

“[C]ol sedere”?! Mmmh! Soprassediamo, via, non è troppo grave. Va bene, lo ammetto, se avessi trovato un episodio simile in un altro libro ci sarei andata già pesante, ma… ma in questo caso non lo farò. Che è, sono diventata una marchettara, Carrisi mi aspetta per consegnarmi un sacco con il simbolo del dollaro?
Tranquilli, non sono una venduta. È che le coincidenze e i deus ex machina sono deprecabili solo quando sono evidentemente una scappatoia dell’autore incapace (per inesperienza, per pigrizia o chissà per cos’altro) di imbastire una trama complessa. Ad esempio, il “passaggio segreto” di Marina Di Guardo. Eh, lo so, scusami Marina, però… cazzo, lo inserisci ogni volta! Oppure, i testimoni fortuiti, che nei gialli del grande Veltroni praticamente risolvono il caso. Vedete da voi, si tratta di elementi inverosimili, correttamente percepiti come al limite del magico, e da soli provano a sopperire all’assenza di una complessa rete di indizi.

Ora, Carrisi, al contrario di Marina Di Guardo, di Veltroni e degli altri “autori forse”, non sembra avere difficoltà a costruire un’indagine verosimile, appunto fondata su… indizi. Una prova indiretta delle sue capacità ce l’ha già data con la faccenda nel narratore inattendibile, perché… be’, perché non è facile mantenersi sulla retta via, quando il processo logico di un’investigazione passa attraverso un filtro di paranoia e di allucinazioni: bisogna che esso si scopra, appunto, fallace, pur mostrandosi perfettamente plausibile a una prima lettura.
Considerando che il compito gli è riuscito, ritengo improbabile che Carrisi si sia improvvisamente rotto le palle e abbia detto fra sé e sé “fanculo, qui ci metto un deus ex machina e mi vado a fare una pizza”. Mi viene un sospetto… sarà mica che la coincidenza stessa è una briciola carica di significato, un… un indizio?
Mah, mah, proviamo a fare noi i detective, adesso.
Abbiamo detto che Serena, all’inizio, è una maniaca del controllo: le piace programmare la sua vita, e si illude di poterlo fare senza difficoltà. Presto però la realtà la contraddice, prima con una gravidanza e poi con la scomparsa della figlia. Da questo possiamo già intuire che non è possibile esercitare davvero il controllo su ciò che ci circonda.
Occhei, e non è finita: Serena inizia a indagare sulla scomparsa di Aurora, cerca cioè di riprendere il controllo sulla situazione, di sistemare quanto successo e di riprendersi la figlia che le è stata sottratta. Che cosa succede? Succede che Serena diventa prigioniera della sua mente e che non arriva da nessuna parte. In breve, tutti i tentativi della protagonista di governare il mondo circostante falliscono.
Facciamo un passo avanti, e… e arriviamo appunto al momento in cui Serena cade e si trova faccia a faccia con la chiave del mistero. Ebbene, questo deus ex machina avviene in un frangente della vita della protagonista ben preciso: avviene cioè quando Serena momentaneamente rinuncia a combattere per avere indietro la figlia…

Dopo il ritrovamento dei soldini di cioccolata, non se la sentiva di rimanere un minuto di più a Vion. Per la prima volta, la paura aveva preso il sopravvento.

Ah-ah! La situazione si risolve praticamente da sola soltanto dopo che Serena ha rinunciato a risolverla con le sue forze. Insomma, per risolvere il mistero la protagonista deve rinunciare con assoluta convinzione al ruolo di demiurgo, e deve infine riconoscere di non avere alcun potere su ciò che le può capitare, come fra l’altro viene più volte ribadito nel corso del romanzo:

Però, nonostante non si aspettasse e non cercasse nulla di nuovo, non poteva impedire alla vita di sorprenderla.

«Ascolta» disse Ric [amico di Serena]. «Per anni mi sono torturato per ciò che era accaduto a Filippo. Continuavo ad analizzare l’evento, chiedendomi dove fosse l’errore. È annegato in soli cinque centimetri d’acqua, ci pensi? Cinque centimetri. E aveva già due anni. Perciò, quando è finito dentro la piscina gonfiabile, era in grado di risollevarsi da solo. Allora come è stato possibile?»
[…]
Oltre all’assurdità della morte di un figlio, quell’uomo doveva anche tollerare il fatto che non esistesse una logica.
«Niente di ciò che ci capita è casuale» asserì l’amico.
«È il frutto della catena di eventi che l’hanno preceduto. […] Perciò le cause dell’annegamento di mio figlio risalgono a un prima in cui lui nemmeno esisteva. […]»

Ciò che al principio ci era sembrato un deus ex machina non è quindi davvero tale. È in sé un ulteriore indizio, come ho anticipato, solo che è un indizio riferito non tanto al mistero del romanzi, bensì alla filosofia che anima L’educazione delle farfalle. Dall’idea dell’homo faber, o meglio della “self made woman”, approdiamo a una forma di determinismo in cui la volontà personale è uno dei tanti ingranaggi; e se a Serena è andata bene, l’effettiva conclusione del libro mi sembra racchiusa nella constatazione che sarebbe bastato pochissimo, perché le fosse andata male.
Tenendo a mente quanto appena messo in luce, si riesce poi senza sforzo a giustificare l’elemento dichiaratamente magico introdotto nel finale (ancora una volta, non voglio rovinarvi la sorpresa, ma si tratta di un personaggio del folklore di Vion, solito rapire bambini e appiccare incendi, il quale sembrerebbe diventare assurdamente reale nell’epilogo della storia). È una sorta di metafora, no? E ha il compito di sottolineare, nel caso ancora non fosse evidente, che la realtà in cui siamo immersi è smisurata e ineffabile, perché sì determinata, ma determinata da cause in numero enorme, interagenti fra loro in maniera per noi caotica e incontrollabile. Paradossalmente, l’elemento magico simboleggia niente più che la complessità del sistema in cui si muovono i personaggi, e i sistemi complessi sono qualcosa di molto scientifico. Ah, la magia per ricordarci della scienza e della filosofia. Carino.
Sicuro, niente di eccezionale dal punto di vista teoretico, però… niente di stupido o di sbagliato! Non avevo certo la pretesa che Carrisi cogitasse un sistema di metafisica, nel suo giallo (ehi, torniamo alla mia introduzione…), e perciò non ho da lamentarmi se la filosofia de L’educazione delle farfalle mi insegna delle tesi che… eh… già conoscevo; anzi, mi fa piacere che il nostro autore non si sia limitato a esporre una sequenza di eventi, per quanto ben incastrati gli uni con altri. Un certo “significato”, dietro ai fatti, è gradito, quando non è ipocrita e non è campato in aria.

Tell me your show, Carrisi

Insomma, altri ci hanno trovato ormoni per farsi crescere du’ palle così, mentre io, nel romanzo di Carrisi, ci ho trovato una buona trama, suspense, psicologia… un po’ di filosofia… non male, non male. Com’è scritto, però? Cioè, va bene tutto, ma se è un papocchio per quel che riguarda la tecnica narrativa… eh!
Nah, tranquilli, tranquilli, avete intuito correttamente: è ben scritto. In particolare, Carrisi si destreggia a meraviglia con lo show don’t tell. Uh, non è cosa da poco.
Anche perché, sappiamo, lo show don’t tell è l’ultima moda nel campo della narrativa, no? Devi stare al passo, zio, non provarci nemmeno se non c’hai lo show don’t tell. Ecco perché qualsiasi corso di scrittura creativa, anche quelli istituiti ieri e presieduti da macachi, ti chiederà poi di fare l’esamino sullo show don’t tell. Per tutto questo, capite, rabbrividisco quando scopro i primi segnali che l’autore si sta cimentando con tale tecnica: le mode inflazionate spingono sempre torme di baluba a sentirsi “i nuovi esperti nel campo”.
E, neanche a dirlo, la maggior parte dei suddetti baluba finisce per convincersi di star operando bene quando riempie le pagine di descrizioni inutili e morbosamente dettagliate. Vorrei riportare qualche esempio illustre tratto dalle mie precedenti recensioni, ma, avendo parlato di “baluba”, non voglio finire ar gabbio per diffamazione aggravata, e quindi non so, cercateveli da voi gli esempi, se pensate di averli trovati.
Comunque… comunque… è fuori da ogni dubbio: Carrisi NON appartiene alla suddetta genia di autori. Il nostro uomo sa bene quali sono gli elementi importanti da riferire nella descrizione di una scena. Volete la prova regina? Nel seguente stralcio, lo chalet di Vion è riarso dal fuoco, e undici bambine si sono messe in salvo insieme a tre tutor; una di queste tutor si sta assicurando che le bimbe ci siano tutte, ma…

Sarà difficile anche per le tre tutor rimuovere dagli occhi il bagliore della scena. In questo momento, due di loro non riescono nemmeno a sbattere le palpebre. La terza, invece, continua a fare la spola fra una bambina e l’altra. Le conta a bassa voce. E poi le riconta di nuovo. Per sicurezza. Senza ancora pensare ai nomi. Coi nomi è più facile sbagliare. Allora, per non fare confusione, le chiama assegnando un numero a testa. La uno, la due, la tre, e così via. Le passa in rassegna poggiando una mano sul capo di ciascuna, come fosse un nuovo battesimo.
In fondo al cuore, la donna spera sempre che il numero finale cambi. Ma rimane sempre lo stesso. E allora, imperterrita, lei ricomincia.
Non sono solo undici, non sono solo undici – continua a ripetere a se stessa. Intanto non le guarda nemmeno in faccia, per non essere costretta a riconoscerle.
Se lo facesse, dovrebbe anche pensare al nome di quella che manca. La dodicesima.

Lettori, avete presente quei video che girano sui social, in cui un bambino che si fa male (o crede di farsi male) non piange finché non vede il genitore preoccuparsi enormemente?
Ecco, sappiate che la nostra natura di animali sociali ci impone di adattare il nostro stato d’animo a quello di coloro che ci circondano. Potete constatarlo voi stessi: se in una situazione che reputate ansiogena vedete gli altri comportarsi in maniera rilassata, inizierete a moderare la vostra preoccupazione, e (se non siete patologici come me) finirete per convincervi che non c’è nulla da temere. Al contrario, se la situazione vi sembra tranquilla, ma vedete qualcuno con l’espressione turbata, entrerete presto in allerta, e pur non sapendo che diavolo c’è da temere!
Quest’ultima situazione, in particolare, è davvero molto, molto stressante. Così stressante, che ovviamente è sfruttata per fini narrativi e commerciali: eh, che volete, è un efficacissimo booster da applicare alle scene adrenaliniche. Solito esempio cinematografico, ché ci piacciono tanto? La comparsa del velociraptor (che poi è una specie di grosso deinonico con la rogna) nel ristorante di Jurassic Park. Appunto, Spielberg non introduce de botto il predatore mentre Lex e Tim stanno mangiando, bensì ha cura di inquadrarlo soltanto dopo aver indugiato sul volto paralizzato dalla paura di Lex e sulla sua mano tremante.
E il nostro Carrisi, perché è di lui che parliamo, cosa fa? Ma diventa uno Steven Spielberg della carta stampata, come abbiamo visto! Non si sbaglia, preso dall’eccitazione, raccontandoci direttamente che le bambine erano solo undici: no, “inquadra” invece la tutor che, con crescente terrore, conta e riconta le bambine. È proprio dalle emozioni attribuite al personaggio, che noi riusciamo a intuire la gravità dell’accaduto: ancora non abbiamo le informazioni nude e crude, eppure entriamo immediatamente in uno stato di allarme. Di allarme e di ansiosa curiosità: e la curiosità, torniamo sempre lì, è la benzina che ci fa voltare pagina.
Ah, sì, posso dirlo con una certa soddisfazione, quella che abbiamo esaminato è scrittura fatta con classe, gnam, gnam!

E va bene, ho appena (ri)proposto una mezza frase conclusiva degna di questo non troppo lungo (perché i buoni libri sanno difendersi da sé) commento, tanto vale espanderla e farne una vera chiusa.
Allora, è ormai ben motivato il fatto che non butterete via il vostro tempo sfogliando L’educazione delle farfalle. Non può essere un libro imprescindibile, un nuovo classico che aumenterà la vostra dotazione culturale, già il suo genere lo penalizza, sotto tale punto di vista: ma ehi, non di sola alta cultura vivono le nostre meningi, e, appunto nel suo genere, è un romanzo ben fatto. Rispetta le regole artistiche, raggiunge il suo obiettivo di intrattenimento, mantiene una qualità alta dal principio alla fine. Certo, se vogliamo essere pignoli qualche macchiolina ce l’ha. Ad esempio, mi è capitato di leggere qualche stronzatina, mi è saltato all’occhio (ouch!) “[…] un altro tipo di insetto[,] [u]n lombrico […]” (magari un anellide, anche se… uhm… potrebbe non essere davvero un errore, bensì un ulteriore piccolo segnale voluto? Non lo so, si sbalio, mi corrigerete), ma… ma via, si tratta di inezie. Non ho mai bocciato un’opera soltanto a causa di sviste, refusi, cantonate random, e non ho proprio intenzione di cominciare ora.
Ebbene, cosa s’era detto all’inizio? Che siete una truppa di lettori giallofili, thrillerofili? È il vostro giorno fortunato, perché avete ritrovato la speranza. Anche le grandi pubblicano delle trame lodevoli, gaudio e giubilo! Non vi resta molto altro da fare, quindi: datemi fiducia, e mettete da voi alla prova la scrittura di Carrisi. Oh, mal che vada, tornerete a commentare con una vostra personale controrecensione. Ma non credo che succederà, anzi, sono straconvinta che anche voi, come me, farete una buona lettura!

Sara

Ciao! Sono la fondatrice del blog letterario "Il pesciolino d'argento", amo profondamente i libri, l'arte e la cultura in generale.

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