La quota d’ombra – Mario Massimo
L’esperienza, mai avuta prima così travolgente, totale, di che può voler dire la bellezza di un essere umano: sete insieme e soddisfacimento, insaziabile.
Foggia, 1797
Siccome di fiabe nuove non ce n’è più (se n’è perduto il seme), al cinema ormai danno solo supereroi o biografie. Anzi, proprio come nella letteratura di alta classifica, le biografie stanno prendendo il sopravvento anche nella settima arte: abbiamo biografie di supereroi, di scienziati dall’ambigua moralità, di bambole dall’ambigua moralità, di Pierfrancesco Favino…
I tempi nostri sono quello che sono, volti all’inclusività, ma grazie al cielo qualche genio ha deciso di scatenare una guerra in grande stile, perciò si può ancora buttare un occhio ai soggetti militari. Insomma, si possono anche proporre delle biografie di condottieri. Ehi, sempre senza tradire la moda corrente: quindi il condottiero sì, ma parliamo dei suoi sentimenti, della sua interiorità, bla, bla, bla.
Proprio mentre scrivo, si sta già formando un hype intorno alla futura uscita (or ora è settembre, si parla di fine novembre) di Napoleon, biopic su… eh… Napoleone, diretta da… eh… Ridley Scott. Occhei, Scott è un mito del cinema, e… e basta. Però, come successo a tanti, passati gli anni Ottanta e Novanta, meh… oh, via Il gladiatore era una cazzata, e così Le crociate, e poi… House of Gucci?! Boh, con l’età che avanza, si sa, a volte il cervello fa brutti scherzi. Al buon Ridley è venuto un po’ il pallino degli strambi kolossal (fanta)storici, e purtroppo temo che questo Napoleon, brrr, finirà per mettermi i brividi. La tagline, del resto, non fa ben sperare: “He came from nothing. He conquered everything”, quando ben sappiamo che Napoleone non era proprio un nessuno, e che conquistò… qualcosa, sì, ma decisamente non “tutto”, e non quello che più gli sarebbe servito, eh. Be’, almeno non c’è Favino nel cast, e non è un film europeo, quindi non saremo comunque costretti a dividere il prezzo del biglietto con chi andrà a vederlo, casomai si ripeta la fantastica iniziativa Cinema Revolution.
Tutto questo per dire che… che ho per le mani un libro ambientato nel periodo napoleonico, LOL. E non è una biografia, è un romanzo. E Napoleone non c’è nemmeno. Via, trama de La quota d’ombra, e che non se ne parli più.
Mario Massimo, il nostro autore, ci schiaffa in una macchina del tempo, e quando ne usciamo il calendario segna l’anno 1797.
Una nave solca l’Adriatico: è diretta a Manfredonia. A bordo, tanto per portare un po’ di sfiga, c’è una donna: Maria Clementina d’Asburgo-Lorena, la quale sta per sposarsi a Foggia con suo cugino Francesco, duca di Calabria. Essendoci questa gran “festa” da organizzare, a Foggia si recano pure gli ufficiali del re Ferdinando, ospitati dai dipendenti dell’Amministrazione Regia. Ebbene, uhm… proprio fra questi dipendenti c’è un certo Don Raffaele, che si deve far carico di accogliere il tenente Guglielmo Satragni. Ovviamente, Guglielmo è un bel tipo, anzi è un autentico chad; e, altrettanto ovviamente, Don Raffaele ha una figlia, di nome Irma, carina, arguta e ribelle. Che succede? Ancora un’ovvietà: Irma si innamora di Gugliemo. Ecco, vista la sequela di prevedibili elementi, la storia va assolutamente sul sicuro, infatti Guglielmo è omosessuale. Ehm, che?! Eggià, il bel tenente non se la fila granché quella bella figliola di Irma, preferisce di gran lunga la compagnia di (Leo)Nello, figlio del marchese di Rofrano.
Apperò. E apperò al quadrato, perché, trascorsi due anni dai fatti, il prode Guglielmo sembra rivalutare Irma…
Ah, niente fantasie stavolta?
Va bene, lettori, all’osso quella che vi ho proposto è appunto la trama de La quota d’ombra. Uh, non… ma sì, dico, a prima vista non è malaccio il romanzo. L’ambientazione storica è un classico, però l’accoppiata con il tema dell’esplorazione dell’identità di genere è abbastanza originale: almeno, suppongo che La quota d’ombra non sia semplicemente un resoconto di piattolame quotidiano, come troppe volte si trova nelle classifiche. Le sfumature LGBTQ+, sinceramente, mi interessano, a patto che non siano telegrammi cretini in stile Bazzi o, peggio ancora, sermoni idioti in stile Desiati.
E, in effetti, sotto questo aspetto mi sento soddisfatta. Certo, abbiamo capito che c’è molta soggettività nel libro, altrimenti avrei menzionato più battaglie che personaggi. Ma, appunto, i personaggi sono un punto di forza del romanzo, tanto che essi da soli lo sottraggono a eventuali paragoni con le summenzionate schifezze. Un punto di forza, dunque, e soprattutto per due motivi.
Il primo, è molto semplice: i personaggi di Mario Massimo non sono Mario Massimo.
Ah, so che sembra stupido, soprattutto perché in tante eccelse opere letterarie il protagonista è l’alter ego dell’autore: perciò, mi insegnate, non c’è proprio niente di male in un protagonista che è anche lo specchio del suo creatore. Perché, allora, dico che la separazione fra Massimo e i suoi personaggi è un punto forte de La quota d’ombra? Considerate questo: Zeno Cosini e Giulio Lisi sono entrambi gli alter ego letterari dei loro autori. Occhei, bene: ora metteteli sullo stesso piano. Forza, fatelo, avanti? Che è, vi manca il coraggio?
Ah, ah, no, non è una questione di coraggio. È che Zeno Cosini è un inetto, un debole, un perdente, mentre Giulio Lisi è un cazz… ehm, ehm, be’, sapete già che cos’è Giulio Lisi. Quando Italo Svevo crea un alter ego, lo fa con la consapevolezza che quest’ultimo è semplicemente uno strumento per autoanalizzarsi, per disprezzarsi, per prendere le distanze da sé stesso. Quando Saraceni inventa un alter ego, ehm, è solo per dare una forma più tangibile a una sorta di daydreaming superomistico. E ciò che fa Saraceni, lo fa Galiano, lo fa la Ciarapica, lo fa Veltroni, lo fa la Giannone e… e forse finiremmo per farlo anche noi, a certe condizioni. Sì, perché in fin dei conti abbiamo tutti, chi più, chi meno, delle narcisistiche fantasie di onnipotenza, e la tentazione di “realizzarle” (quand’anche in modo molto, molto traslato, appunto con la scrittura) è sempre presente.
Tenendo conto di ciò, va da sé, per ottenere un alter ego letterario almeno mezzo riuscito bisogna essere degli scrittori con le palle e, direi, con una certa dose di odio per sé stessi: altrimenti il disastro è assicurato. Ecco, Mario Massimo, saggiamente, ha deciso di non cimentarsi con difficili “advanced techniques”, e s’è risolto a dotare di una personalità autonoma le sue creature letterarie: d’accordo, probabilmente c’è un po’ dell’autore qua e là, ma non c’è tutto (il desiderio narcisistico) in un solo personaggio.
E quello era appunto il primo motivo che mi ben dispone nei confronti de La quota d’ombra. Il secondo è… be’, vi dirò che il nostro autore ha fatto un passetto in più: i suoi protagonisti sono psicologicamente complessi, a tratti intricati, e tutti portano con sé un lato oscuro, la quota d’ombra del titolo.
Irma, ad esempio: all’inizio è presentata come una ragazza ribelle, una sorta di bisbetica indomata, e poi… e poi eccola lì, tutta palpitante davanti al primo chad lite che le piomba in casa:
«La sua quota d’ombra…?» concluse Irma, alzando gli occhi su di lui e non andando incontro se non al fiorire, una volta ancora, di quell’agra vampata smagliante sopra i lineamenti di schietta seduttività.
Ecco: questo era.
L’esperienza, mai avuta prima così travolgente, totale, di che può voler dire la bellezza di un essere umano: sete insieme e soddisfacimento, insaziabile.
Sempre nella sua “fase ribelle”, la nostra protagonista accarezza tesi abbastanza radicali, nonché alquanto sagaci, dimenticandosene bellamente dopo essersi sposata con Guglielmo (eh già, si sposano…). Giusto per dare un’idea, inizialmente Irma sostiene che sia sciocco considerare la procreazione uno dei nobili scopi dell’esistenza, e pensa sia altrettanto stupido mettere al mondo individui che dovranno poi a loro volta dare un senso alla vita:
Irma avrebbe avuto da esprimere qualche perplessità, su quel punto, avere dei figli solo per far prendere un senso alla propria esistenza, e non rendersi conto che così li si costringeva a cercarsene uno a loro volta […].
Be’, be’, la filosofia della ragazza è sicuramente cinica, freddamente logica e fuori dagli schemi… mi piace. Purtroppo, però, non faccio in tempo a familiarizzare con questa Irma così sprezzante della maternità e del sistema in cui vive, che me la ritrovo sul finale del romanzo… così:
«Ma su! Smettila, con le cattiverie!» e Irma gli assestò sulla mano un suo schiaffetto finto-serio.
E di nuovo: «No, Arcangelo [cugino di Irma] sai che questo è un tema, i figli, averne o no», affilando di una severità come raccolta la voce «che non ho nessun piacere a sentir toccare»
«Ah sì, ti chiedo scusa, Irma: non ci pensavo», in un precipitato, compunto tono di autocorrezione. […]
Che del resto anche Arcangelo, con quelle sue scuse, e la fretta impacciata, dava a intendere di aver centrato in pieno; e sia pure nel suo solo strato, per dir così, di superficie, offerto agli sguardi di tutti: il fatto cioè che, sì, il primo figlio era venuto, e con una tempestività magari un tantino eccessiva.
Ma nessuno più, dopo.
[…] [D]opo la prima volta, e la cruenta, trionfale ordalia del parto – neanche troppo travagliato, assicurò la levatrice […] – vinta da quell’arrossato, grinzoso, incredibile cucciolo d’uomo dalle perfettissime dita strette a pugnelli, nessun’altra volta quel seme era più riuscito a maturare, nel grembo di lei: impietoso, cronometrico, arrivava ogni volta l’aborto, le ultime addirittura entro il primo mese.
È rammaricata per non aver sfornato legioni di bebè. Uhm, occhei, ci sta che giudichiate la nostra protagonista incoerente e contorta. E in effetti è tale, senza ombra di dubbio: solo che, state bene attenti, Irma non è quel tipo di personaggio incoerente che tradisce la sciatteria del suo autore. Per intenderci, anche Giorgio Caruso di Buonvino tra amore e morte è un personaggio incoerente, soprattutto quando spiega la pianificazione del suo suicidio con un linguaggio da burocrate. Nel caso di Giorgio Caruso, la contraddizione ci risulta insopportabile perché non è realistica: un uomo che ammette di volersi uccidere sta aprendo il suo cuore, sta facendo cadere tutte le difese, pertanto il suo linguaggio non può essere formale, anzi dev’essere intimo e confidenziale.
Irma, invece, nel suo oscillare, è un personaggio molto verosimile. È proprio la classica ragazza che da giovane si batte per la rivoluzione intellettuale, e poi da adulta si lascia andare, adeguandosi alla tradizione della massa. È una che nasce incendiaria e muore pomp… pompier… pompiera… ehm, vabbè. C’è qualcosa di sbagliato? Ma no, Irma cresce, scopre il mondo, scopre l’attrazione sessuale, scopre la paura della solitudine… scopre avere anche lei, innestato nel suo sistema animale, il cosiddetto “orologio biologico”. Sembra chissà che, ma è in effetti un animale parlante, e, per quanto ci provi, alla fine si scopre vinta dalla natura delle cose. E dico “animale” e “vinta” non a caso, perché sono in sostanza le parole che Massimo usa per descrivere il primo incontro fra Irma e il suo primogenito: “vinta da quell’arrossato, grinzoso, incredibile cucciolo d’uomo”, come abbiamo appunto letto. I tratti della nostra protagonista, fra loro confliggenti, sono dunque una bella prova dell’attenzione che l’autore riserva all’aderenza col vero. Insomma, l’incoerenza di Irma è prova della coerenza di Massimo, rispetto all’obiettivo di credibilità che ha inteso prefiggersi con la scrittura de La quota d’ombra.
Not so overly attached boyfriend
Ma, ma, ma. C’è un problema. I personaggi del romanzo sono realistici e complessi, e va benone solo che… eh, il modo in cui il nostro autore li racconta è un po’ frettoloso e superficiale.
Sempre Irma: sì, il suo cambiamento è naturale, però ci viene spiegato ben poco di quanta autoconsapevolezza in effetti ci sia nella protagonista, a proposito di tale crescita interiore. Il passaggio da Irma “childfree” a Irma “pancina” che s’intristisce per non aver avuto un secondo figlio è troppo brusco: che ne è dei lunghi mesi della gravidanza, della paura di non essere una buona madre, del dubbio di non saper proteggere a sufficienza il nascituro, o, anche, del terrore di partorire un povero neonato deforme? C’è in sostanza un buco fra il momento in cui Irma si preoccupa del senso della vita e quello in cui mette da parte ogni dubbio perché “vinta” dalla tenerezza. Ed è un buco, questo sì, causato da un approccio un tantino superficiale, o sbrigativo, alla trama.
È Gugliemo, però,il personaggio tratteggiato in maniera più superficiale di tutti.
Eh, accidenti!, questo non va bene, no. Vi ho detto che il bel tenente, a un certo punto, sente di dover cambiare vita, ma… eh… non vi ho riferito per quale ragione. Per via di un omicidio. Uhmmmmm!
Ebbene, Guglielmo uccide il suo amante Nello, poi si presenta a casa di Irma, con l’intenzione di sposarla, e a essere sincera… si tratta di una scena che mi ha lasciato parecchio perplessa. Soprattutto, perché non si riesce a capire bene quale sia il movente di Guglielmo. Leggiamo insieme il brano decisivo:
Nello era rimasto per terra, in una delle stanze da sempre lasciate meno arredate, al buio, e tremava.
«Se venuto!» [rivolgendosi a Guglielmo] gli balzò incontro, al vederlo inquadrarsi contro la notte, alla poca luce.
Lo abbracciò, gli cercava il viso:
«Nun m’e lassà cchiù, ‘e capito? Mai cchiù!»
E, in un bamboccesco spavento, baccagliò che poteva accettarla da tutti, una cosa simile, meno che da lui, da Guglielmo. E non l’avrebbe accettata.
Mai, da quella sera, mai.
Lo capiva o no?
Ma Guglielmo […] ora stava avvertendo, segreto, infrenabile, il nuovo svegliarsi sordo entro la propria carne… e seppe ciò che andava fatto: dove far scivolare la canna, nel buio, sul corpo di cui si sentiva serrare addosso il respiro – un insinuante, acre e insieme speziato sentore di vita –, contro il proprio respiro. E far fuoco.
A intuito, secondo me Guglielmo ha deciso di liberarsi dell’amante perché si è sentito soffocare (non è certo un caso che nel testo si parli di respiro serrato) dalle attenzioni di quest’ultimo. Il problema, però, è che Nello non è davvero un amante ossessivo, c’è un motivo ben preciso per cui supplica Guglielmo di non lasciarlo solo: Napoli è in subbuglio, coloro che hanno sostenuto la Repubblica lottano contro l’armata sanfedista capitanata da Fabrizio Rufo, e in città dilagano violenze e saccheggi. Eh, converrete con me, è naturale che in situazioni simili si cerchi rifugio in coloro che fanno parte della nostra vita, se non altro per il timore che possa accadere un’irreparabile separazione. Che Nello sia tanto piagnucolone e agitato, quindi, non è strano; strano è, semmai, che Guglielmo di punto in bianco si scazzi e decida di far saltare il cervello al compagno.
E non è tutto. Dalle pagine precedenti allo stralcio riportato, si deduce addirittura che Nello sia un amante… uh… che bada ai fatti suoi? Considerate le seguenti parole, le quali raccontano che Guglielmo, appena tornato a Napoli dopo una spedizione militare, è scontento del fatto che Nello non si sia fatto vivo…
Né, dal canto suo, il ragazzo era mai venuto a cercarlo, al reggimento, o negli altri luoghi in cui entrambi contavano di poterlo far derubricare a casualità disinvolta, l’essersi incontrati.
E un po’, sicuramente, Guglielmo ne pativa un morso asprigno di disillusione: così facile era dunque per Nello fare a meno di lui, dopo tutte le esclamazioni sviscerate in contrario, e il guardarlo occhi negli occhi, sentendosi stretto contro il petto il pulsare l’uno dell’altro?
Uhm, che niente niente Nello è un po’ un farfallone menefreghista? Quel che avete appena letto non è tutto. Non molto tempo dopo, i nostri eroi si incontrano per caso, e trascorrono del tempo insieme: non va granché bene, infatti Nello si accorge che Guglielmo è freddo, completamente sovrappensiero. Qual è la reazione? Eh, è una davvero interessante…
Peggio dello strappo, il rammendo: Nello non fece fatica, a sentirlo distaccato, estraneo; e glielo buttò in faccia, sgarbato… una sola cosa, come se sputasse uno spino di pesce, gli mancava: chi era l’altro.
L’altra, addirittura?, e ne rise, esagerato, argentino.
Ah, be’, per ridere di un tradimento bisogna essere davvero dei tipi… ehm… cazzuti.
Ebbene, credo abbiate capito, lettori, dove voglio arrivare: in definitiva, non ci sono elementi nel testo che giustifichino l’omicidio di Nello, così come esso è descritto dal nostro autore. Il poveraccio non sembra affatto una “overly attached girlfriend”, anzi, sembra decisamente disinvolto e indipendente. Se Guglielmo ha motivo per ucciderlo, questo dev’essere più profondo: magari il nostro protagonista sviluppa una sorta di (auto)omofobia, oppure è schizofrenico, o magari è addirittura segretamente un serial killer. Sono ipotesi totalmente campate in aria, ma pure hanno un pelo più senso dei fatti che ci propone La quota d’ombra.
Gay o non gay? Questo è il problema…
Sì, lo so. Abbiamo incontrato un gran bel guaio, però c’è davvero un elefante nella stanza, come dicono gli inglesi: mi riferisco, ovviamente, al matrimonio fra Irma e Guglielmo.
Occhei, ehm… il fatto, di per sé, non è che mi stupisca più di tanto: quanti sono (e sono stati) gli omosessuali che si vergognano della loro natura e che preferiscono fingersi etero per farsi accettare dalla società? Ecco, appunto. E allo stesso modo non mi stupisce che Guglielmo a un certo punto senta il bisogno di sposarsi e di avere una discendenza. Tuttavia, rinnegare i propri naturali impulsi non è qualcosa che si può fare senza subire delle conseguenze: la decisione di abbracciare la vita da etero, dunque, deve essere una decisione sofferta, e questo è proprio il genere di tema che in un romanzo vale la pena indagare.
Eccallà: ne La quota d’ombra non emergono né prima il disagio sociale né dopo la sofferenza della decisione.
Addirittura pare che la relazione con Nello sia d’aiuto per le capacità relazionali di Guglielmo. Mah! Figlio del capitano di una goletta, il nostro tenente è cresciuto in un mondo in cui l’omosessuale è odiato “più che se lo avesse messo al mondo una zoccola, più che se l’avesse avuta per moglie, una zoccola”, e insultato con l’obiettivo di “marchiarlo a fuoco”. È sicuramente un contesto terribile per il nostro eroe, e se ci volgiamo invece a quello in cui bazzica Nello, eh, concludiamo che la relazione fra i due è un bel passo in avanti per Guglielmo. Infatti, a un certo punto troviamo un’eloquente descrizione dell’alta società napoletana, appunto l’habitat del buon Nello, e…
In quel vorticare di abiti di gala e acconciature sperticate e rutilanti parure di gioielli, il tenente Guglielmo Satragni poté dare un’altra incantevole prova della sua bravura nel ballo: certo, non porgendo la mano in una écossaise alla sola persona cui doveva la sua presenza lì, il più giovane cioè dei rampolli di Sua Grazia il marchese di Rofrano.
Sarebbe stato lui per primo, Guglielmo, a sentirsi sommerso dal ridicolo, nell’immaginarsi mentre ripeteva le figurazioni aggraziate e insistenti della danza tenendo per mano non più una di quelle poco attraenti mature madame di nobile stirpe, […] ma Nello, lì, davanti alla gente…
A quel punto neanche avrebbe osato spingersi il ragazzo stesso, pur avendo di mira […] un modello di rapporto a due che, senza essere dichiarabile mai apertis verbis in faccia al mondo, era visto, sì, da quest’ultimo, specialmente nel suo strato, diciamo così, più elevato in cui Nello si stava ingegnando di cooptare il suo nuovo e decorativo amico, con una indulgenza di fatto, che non escludeva tuttavia uno sfumare nelle reazioni […] da salaci perplessità fino a una ripugnanza da cui farsi storcere in smorfie pulcinellesche la bocca, in gesti sdegnosi le mani, a tenerla lontana da sé, onninamente.
Chiaro, non che nei salotti aristocratici si respiri l’atmosfera dei gay pride, ma i nobili manifestano “indulgenza” nei confronti degli omosessuali, e questo, per uno che è cresciuto sentendosi “marchiato a fuoco”, è senz’altro una boccata d’aria fresca.
Ricapitolando: se abbiamo il passaggio del protagonista da una situazione negativa a una più favorevole, perché mai Guglielmo sceglie di porre fine alla tranquillità appena conquistata, uccidendo l’amante e stravolgendo il proprio orientamento sessuale? Non per assicurarsi un posto nella società civile (in quella militare, ricordo, è già sistemato, essendo tenente). E non per sfuggire a una trappola: perché, sì, potrebbe pure darsi che in effetti, sotto la superficie, il mondo di Nello sia altrettanto crudele e pericoloso di quello della goletta, però… eh, se così è, occorre che La quota d’ombra ce lo faccia capire.
A proposito, poi, della sofferenza psicologica cui ho accennato in precedenza, be’… andiamo, un omosessuale può fingersi etero, ma non può “diventare” completamente etero, soprattutto non può diventarlo dal giorno alla notte, senza che ci sia una causa, direi, fisica, organica (il discorso è molto complesso, non sono sicura che ci sia modo di cambiare davvero l’orientamento sessuale, comunque… lasciamo stare). Benché senza dubbio un gay (una lesbica, un… una… quello che volete) possa vivere “da etero” e avere dei figli, può forse smettere, così, da un momento all’altro, di provare attrazione per il genere, o per i generi, versi cui… uh… ha sempre provato attrazione? Magari non è impossibile, anzi, logicamente non lo è, però di sicuro non è realistico. Nel nostro caso, fatico a credere che Guglielmo non si interroghi su ciò che sta facendo, fatico a credere che non provi una sorta di autodisprezzo, fatico a credere che non abbia paura di risultare uno “strano, troppo strano” etero. Soprattutto, fatico a credere che riesca a eccitarsi con estrema facilità di fronte al corpo femminile. Oh, be’, il nostro protagonista potrebbe sempre scoprirsi bisessuale, o comunque non “completamente gay”, ma… eh, appunto, da qualche parte nel romanzo dovrebbe saltar fuori una simile scoperta.
Insomma, Mario Massimo s’è un po’ lasciato sopraffare dal suo stesso intreccio. L’idea di fondo non è male, tuttavia è complicata e insidiosa, e prima di dare gas alla penna è opportuno tornarci su più e più volte. È interessante che la trama si sviluppi con il matrimonio di Guglielmo e di Irma (a patto d’aver sistemato bene la faccenda di Nello), tuttavia bisogna tener conto che è poco plausibile che Guglielmo non cerchi mai il contatto con gli uomini (anche solo un innocuo, leggermente voluttuoso, contatto visivo) dopo il matrimonio, e che abbia una vita sessuale soddisfacente con la moglie. Per risolverla in maniera semplice, il nostro autore avrebbe potuto lasciar intendere che Irma e Guglielmo hanno avuto un solo figlio, e con fatica, a causa di difficoltà a letto, anziché affermare che il primogenito è arrivato subito (come se Guglielmo non aspettasse altro che trapanare Irma) e che non ce ne sono stati altri… a causa degli aborti spontanei! Una soluzione immediata che avrebbe amalgamato bene tutti i suddetti elementi, offrendo una spiegazione causale delle vicende perfettamente in linea con il tema principale del romanzo.
Nel finale, avremmo dunque potuto assistere sì al quadretto familiare che Massimo ci propone, ma esso si sarebbe rivelato complesso e decisamente pieno di quote d’ombra…
Quando si dice “fare i compiti”…
Va bene, avete capito la mia opinione, lettori. Adesso cambiamo argomento, e anche tono. Lo dico in maniera decisa: un pregio del libro è l’attenzione che il nostro autore ha dedicato alle informazioni storiche.
Ora, di romanzi storici se ne scrivono, se ne pubblicano e se ne leggono tanti, anche perché il genere soddisfa con facilità il desiderio di esotismo del pubblico e il suo bisogno di evadere dalla quotidianità, compiacendosi però di essere un pubblico intellettuale, che non ha in troppa stima la fantasia selvaggia. Il risultato? Eh, La portalettere: una bella pippa in cui la Giannone sembra non aver cognizione del concetto di “evento storico”. Oppure, Chi dà luce rischia il buio, con la sua profonda questione operaia trattata alla stregua di una questione del cazzo. Vabbè, per farla breve, puro egosploitation alla Saraceni, però con i personaggi che indossano abiti vintage e che non ascoltano gli Arctic Monkeys.
Ehi, al contrario della Giannone, della Ciarapica e di molti, molti, altri, Mario Massimo sembra sapere di cosa parla. Conosce il periodo storico che ha scelto come palco della sua trama, e non è una conoscenza superficiale, scolastica. La quota d’ombra tratta, oltre che della politica, delle guerre e delle rivolte del tempo, anche di fenomeni culturali e fatti secondari, come i problemi coniugali fra Maria Antonietta e Luigi XVI, o la genesi della cosiddetta “moda alla greca”:
Non era poi molto diversa da quel tipo di umiliazioni quella del re di Francia in persona: avercelo, quel loro aggeggiuzzo di cui vanno così tanto orgogliosi, i maschi (glielo vedi, no?, lasciato a far gobba nel bianco della lana, o dall’attillatura setosa delle braghe), avercelo dunque, proprio Luigi Sedici, tutto scaravoltato, e non come Dio comanda che stia su, di suo, ben dritto, e pronto alla strada che ha da fare […].
Sia come sia, fu sempre Sir William [ambasciatore inglese a Napoli] a escogitare per lei [sua moglie, Emma Hamilton] […] la mise che trasformava in pregi i difetti, certo ad andar cercando il pelo nell’uovo!, del suo personale, vita troppo alta e seno d’anno in anno più florido: quella, in definitiva, che Ileana De Nitti, e con lei mezza Europa a dir poco, avrebbe poi qualificato di “greca” […].
Passava per certo che l’ambasciatore di Sua Maestà britannica fosse chi si dava più da fare a convincere Ferdinando IV a intraprenderla, pur essendoci un trattato di neutralità con il Regno di Napoli, contro la Francia miscredente e regicida: il momento migliore era questo, abbacchiati com’erano dopo la batosta sul Nilo, e il pretesto poteva essere Malta che, nominalmente, era feudo del re di Napoli e il Bonaparte aveva preso e messo a sacco, a inizio giugno, o di ristabilire la sovranità del papa confinato, da gennaio, prima a Siena e ora al Galluzzo, rispetto alla Repubblica Romana; o un altro qualsiasi, a ben vedere…
Occhei, bene! Ne La quota d’ombra il contesto storico non è una cornice apposta giusto per evitare che l’ego dalla narrazione tracimi sulle nostre ginocchia: esso è parte stessa del quadro, e non è meno curato, rispetto alla caratterizzazione dei protagonisti. Questo è un aspetto importante, perché se l’autore conosce il reale ambiente fattuale e culturale in cui si muovono i personaggi, allora ha sotto controllo la trama: sa che se un personaggio farà una determinata cosa, in un determinato luogo, e in un determinato momento, a tale azione seguiranno precise conseguenze che, sostanzialmente, indicheranno passo dopo passo la direzione della storia. In breve, conoscendo a fondo la realtà, lo scrittore che intende proporre un testo plausibile restringe via via le opzioni narrative, in un certo senso arrivando al punto in cui il romanzo si scrive da sé.
Un esempio. Vi ho già detto che Guglielmo uccide Nello in un intervallo temporale totalmente caotico, durante il quale chi passeggiava per Napoli incrociava di continuo cadaveri in condizioni ripugnanti:
No, non erano giorni in cui mettersi a girare per Napoli, se non si aveva il fegato di farsi avanti fra corpi straziati buttati uno sull’altro in strade e piazze, senza più addosso quasi nulla di valore, o nulla addirittura (spogliavano donne lacerando a colpi di spada la camicia in petto, e “Vediamo” gridavano “dov’è che ce l’hai tatuato, l’albero della libertà, eh?”, “Ce l’hai sul culo, no? Fammi vedere!”), sfondata a colpi di bastone la testa, le budella eruttate dallo spacco del ventre, in oscena divaricazione le gambe, e sangue su tutto, facce, pietre, terra, lordura, sangue e putridume ovunque.
Non solo: una volta tornato l’ordine a Napoli, il re Ferdinando emise “un provvedimento di amnistia generale, nei confronti perfino dei pochi di cui era riuscita a rabberciare l’identità un’apposita, inconcludente commissione di disciplina”, e pertanto “nessuno più, mai, avrebbe potuto legittimamente far nulla, o provare a perseguirlo, chi aveva sparato nella notte del 14 giugno al giovane ultimogenito dei Rofrano, Leonello.”
Ebbene, se Massimo avesse ignorato sia lo scenario napoletano del 14 giugno, sia l’esistenza dell’amnistia, non avrebbe realisticamente potuto fare di Guglielmo un assassino e allo stesso tempo lasciare che non fosse incriminato; avrebbe invece dovuto scegliere fra l’omicidio di Nello e il lieto fine di Guglielmo. Ossia, avrebbe dovuto sottomettersi alle esigenze della trama anziché sottomettere la trama alle sue esigenze, come farebbe un vero scrittore demiurgo.
Ecco, per l’autore è sicuramente importante conoscere il più possibile dei luoghi e dei tempi in cui è ambientata la storia, abbiamo capito. Ma per il pubblico… meh… è meno importante.
Alert: inf(lo)odump
Noi non abbiamo bisogno di sapere proprio tutto tutto riguardo il contesto storico, ci è sufficiente quel tanto che basta per familiarizzare con lo sfondo della trama e per comprenderne le vicende, intuendo magari anche ciò che conta, ma che non è esplicitamente riportato. Un bravo autore deve studiare molto e molte cose, tuttavia istruirà il suo pubblico solo su una minima parte delle nozioni apprese, no?
Purtroppo, il nostro Mario Massimo ha risposto “no” alla mia domanda retorica: forse perché entusiasta delle sue ricerche, ha farcito La quota d’ombra di una quantità considerevole di informazioni storiche. Certo, molte di queste sono curiosità anche interessanti, come la fimosi di Luigi XVI, tuttavia… eddai, sono fuori tema! Appunto, la fimosi. Che cosa ce ne frega? È un problema che non riguarda i personaggi principali, bensì il marito della zia della loro regina… ehi, della loro regina! Quest’ultima è una figura che appartiene a tutt’altro mondo, rispetto a quello cui sono ascrivibili Irma e Guglielmo. Dico, se a soffrire di fimosi fosse stato, per esempio, il marito di un’amica di Irma, allora avrebbe avuto senso parlare del disturbo nella trama: Irma avrebbe potuto compiangere la sua amica e convincersi ancor più che il matrimonio è solo una fonte di grane. Ma così com’è il romanzo? La fimosi di Luigi XVI non ha (e non può avere) alcuna conseguenza sui protagonisti! Perciò, è una di quelle chicche da espungere il prima possibile dalle pagine del libro.
E di chicche del genere ce ne sono tante. Leggete un po’…
«È la stessa cosa» Irma ebbe quel suo modo riflessivo e nitido di aprirsi un miracolo nello sguardo, avanti a una cosa di ogni giorno «di quando si va in Cattedrale e c’è la Cappella».
Le uniche occasioni, quelle, in cui fosse dato di ascoltare delle belle voci, e una musica che ti lascia dentro come se non ti gravasse più tutta la tua carne: un teatro, a Foggia, non esisteva; seppure alle volte c’era una perla nel letamaio, come quel Matteuccio più di settant’anni prima, il cantante castrato figlio di una prostituta, in un feudo poco lontano, dei Sangro di San Severo, che era arrivato a incantare la gente con la sua carne d’angelo, forse persino più che con la voce, in scena; ma a Napoli, e non lì da loro.
Ahi, ahi, ahi, Massimo si è fatto prendere la mano dall’infodump! Lo stralcio inizia con uno scambio di battute fra Irma e suo cugino Arcangelo, e inizialmente l’accenno a Matteuccio sembra proprio un’estensione del dialogo: l’autore scrive infatti “quel Matteuccio”, con il “quel” che suggerisce un distacco emotivo nei confronti di un individuo lontano nello spazio e nel tempo. Insomma, il narratore, a questo punto del romanzo, sta adottando il punto di vista dei personaggi, facendo coincidere la sua voce con il loro sentire. Subito dopo, però, ecco arrivare una sequela di informazioni su questo Matteuccio, informazioni in netto contrasto con il “quel” usato poco sopra. Ma come, prima si usa un vago “quel Matteuccio”, e poi si puntualizza perfino in quale feudo viveva?! E, soprattutto, perché dare così tante attenzioni a un soggetto che non ha alcun ruolo ne La quota d’ombra, e che non è nemmeno contemporaneo dei fatti narrati?
Eh, mi duole notare che spesso e volentieri il nostro autore devia da ciò che conta solo per trovare un posto a tutte le belle cose che ha imparato. Davvero, la conoscenza è un tesoro bellissimo, e che va condiviso, solo… non in un romanzo, perché un romanzo è il prodotto di un’arte che ha le sue regole, regole codificate nel tempo proprio col fine di produrre qualcosa di… uh… bello.
Che poi, e anche questo mi duole ammetterlo, anche con le nozioni utili alla trama non va poi tanto meglio. Prendete questo brano:
Quando poi si venne alle armi, il 5 dicembre, all’altezza di Civita Castellana, giacché Championnet e Macdonald, fidando anche in truppe maggiori promesse da Joubert, da Perugia puntavano nuovamente su Roma, a restaurarvi la Repubblica, e il comandante supremo dell’esercito napoletano, il K. & K. Generale Mack che Maria Carolina aveva imposto con gran sicumera, gli si era mosso incontro, non fu che il trionfo dell’inettitudine: errori marchiani nella strategia, in chi comandava – truppe soverchianti sprecate smembrandole in troppi tronconi, che Macdonald affrontò uno dopo l’altro, e sconfisse tutti –, codardia in chi doveva combattere, e non resse molto oltre il primo assalto, e nemmeno a quello, in più casi; fuga precipitosa, abbandonando al nemico pezzi d’artiglieria con le casse delle munizioni e tutto; e poi, feriti, morti, prigionieri in quantità umilianti…
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Il tenente Satragni rischiò per un pelo di esserci, fra quei cinquantadue ufficiali presi dai francesi, per aver accennato a un minimo di controffensiva, con il suo plotone: che venne stornata sul nascere da un ordine di ripiegamento di cui anche un ciuco avrebbe visto chiara la stupidità, ma che tuttavia, eseguito, risparmiò a Guglielmo e ai suoi uomini l’onta della prigionia.
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Non quella della fuga però, o ripiegamento che fosse, di lì a poche ore, quando, arrivata anche l’ulteriore disfatta di Otricoli, Ferdinando IV abbandonò a rompicollo Palazzo Farnese, via, per Porta San Giovanni; mentre, a fiumane, il suo esercito in rotta gli passava accanto alla carrozza, ora sulla via Casilina verso Valmontone, e Ceprano, e Capua, Sua Maestà impose, al suo modo spiccio e vernacolare, al duca d’Ascoli che gli occupava il sedile di fronte, di alzarsi, su, e scambiarsi i vestiti coi suoi.
Bene, avrete notato che ci sono due file di puntini: che… che diavolo sono? Tranquilli, li ho messi io: mi servono per evidenziare, racchiudendola, la parte in cui si parla di Guglielmo e del suo ruolo in guerra. Notato niente? Eh, e come no: rispetto al resto del brano è una frazione minuscola. Perché, perché? Così si capovolgono le priorità narrative: le informazioni storiche dovrebbero servire unicamente a capire meglio dove, come e quando si muove il personaggio (e quindi il personaggio stesso), invece nello stralcio riportato esse prendono del tutto il sopravvento. Ma in questo modo il libro non ha più niente a che fare con i romanzi e, diventa anzi una specie di saggio con le toppe cucite sui gomiti.
Parla, Miserabbbileee!
Oh, avete un’obiezione, lettori: i romanzi di Hugo sono noti per le lunghe digressioni storiche, eppure non li si può certo definire dei saggi pallosi. Vero, vero. E ciò perché in effetti Hugo le digressioni le fa… eh, in un certo modo. Innanzitutto, non sono impersonali, alla maniera dei manuali scolastici: no, no, niente affatto, esse mantengono sempre il focus sui personaggi. Prestate attenzione a questa digressione su Waterloo tratta da I miserabili:
L’imperatore, sebbene ammalato e disturbato a cavallo da un dolore, non era mai stato di buon umore come in quel giorno; fin dal mattino, la sua impenetrabilità sorrideva. […]
Fin dalla vigilia, all’una di notte, mentre esplorava a cavallo, sotto l’uragano e la pioggia, in compagnia di Bertrand, le colline delle vicinanze di Rossomme, […] gli era sembrato che il destino, da lui citato a comparire a data fissa su quel campo di Waterloo, fosse esatto al convegno. […]
Non s’era concesso un minuto di sonno e tutti gli istanti di quella notte erano contrassegnati per lui da un gioia. Aveva percorso tutta la linea delle grandi guardie, fermandosi qua e là a parlare colle vedette; alle due e mezzo, vicino al bosco d’Hougomont, sentito il passo d’una colonna in marcia, aveva creduto per un momento che Wellington indietreggiasse […].
Alle tre e mezzo del mattino aveva perduto un’illusione: alcuni ufficiali mandati in ricognizione gli avevano annunciato che il nemico non faceva nessun movimento. […] Alle quattro, gli era stato condotto davanti dagli esploratori un contadino, che aveva servito di guida a una brigata di cavalleria inglese […]. Alle cinque, due disertori belgi gli avevan riferito d’aver abbandonato allora il loro reggimento e che l’esercito inglese aspettava la battaglia. […] Alle otto, era stata recata la colazione dell’imperatore, che aveva invitato parecchi generali; e mentre mangiavano, avevan raccontato che Wellington, l’antivigilia, s’era recato al ballo, a Bruxelles, in casa della duchessa Richmond. […]
Alle nove, nel momento in cui l’esercito francese, scaglionato e messo in marcia su cinque colonne, s’era schierato colle divisioni su due linee, […] l’imperatore, commosso, aveva esclamato in due riprese: «Magnifico! Magnifico!»
Fra le nove e le dieci e mezzo, cosa incredibile, tutto l’esercito aveva preso posizione […].
(I miserabili – Napoleone di buon umore)
Notiamo due particolari. Primo: le varie informazioni ruotano intorno al Napoleone personaggio e alla sua percezione di Waterloo. Hugo non ci sta impartendo una lezioncina sulla battaglia, ci sta in effetti raccontando come (può darsi che) Napoleone ha vissuto quell’esperienza. Ovviamente, i dettagli reali sono mantenuti, perché il mondo possibile de I miserabili è accessibile (uh, non chiedetemi di spiegare questo concetto) dal nostro, vero: e proprio su quei dettagli deve essere costruita la narrazione dello stato d’animo di Napoleone. Ma è appunto quest’ultimo che importa.
Secondo particolare notevole: il modo in cui è architettata la digressione. Il brano è infatti scandito da un ritmo quasi marziale, una sorta di conto alla rovescia verso la disfatta, e questo accorgimento rende tangibile quell’atmosfera elettrica che antecede uno scontro (“[a]lle tre e mezzo del mattino aveva perduto un’illusione […]”, “[a]lle quattro, gli era stato condotto davanti dagli esploratori un contadino […]”, “[a]lle cinque, due disertori belgi gli avevan riferito d’aver abbandonato allora il loro reggimento […]”, e così via). L’effetto di tutto questo? Catturare l’attenzione del pubblico, la nostra, insomma.
E inoltre, appunto sempre per mantenere viva l’attenzione, Hugo cerca di coinvolgerci usando spesso la prima o la seconda persona plurale, addirittura servendosi di interrogative che abbattono la quarta parete, come possiamo apprezzare in quest’altro stralcio:
Torniamo indietro (il narratore ha diritto di farlo) e ricolleghiamoci all’anno 1815 […].
Se non fosse piovuto nella notte dal 17 al 18 giugno 1815, l’avvenire dell’Europa sarebbe stato diverso. Poche gocce d’acqua in più o in meno hanno messo in bilico Napoleone; per far di Waterloo la fine d’Austerlitz, la provvidenza ebbe solo bisogno d’un po’ di pioggia e una nube che attraversò il cielo a dispetto della stagione bastò per il crollo d’un mondo.
La battaglia di Waterloo, e ciò diede tempo a Blücher di giungere, non poté incominciare che alle undici e mezzo. Perché? Perché il terreno era bagnato e bisognava aspettare che si rassodasse un poco, affinché l’artiglieria potesse manovrare. […]
Supponete che il terreno fosse stato secco e che l’artiglieria avesse potuto manovrare: l’azione sarebbe incominciata alle sei del mattino e la battaglia sarebbe stata vinta e terminata alle due pomeridiane, tre ore prima dell’intervento prussiano.
Quale parte d’errore spetta a Napoleone nella perdita di quella battaglia? È imputabile al pilota, il naufragio? O, forse, l’evidente declino fisico di Napoleone si complicava a quel tempo con una diminuzione d’intelletto?”
(I miserabili – Il 18 giugno 1815)
Eh, eh, Hugo sa ben padroneggiare alcune tecniche che rendono una digressione non un ammasso informe di infodump, bensì un autentico “racconto intorno al falò”. Eppure, sappiate, molti di coloro che si avvicinano a I miserabili poi si lamentano delle informazioni storiche date da Hugo; pensate dunque quali reazioni possono suscitare quelle offerte da Massimo ne La quota d’ombra…
Sembrava bellezza… e stavolta lo è, dai
Purtroppo, esse si rivelano a noi come peccatucci d’inesperienza, per la loro incapacità di raccontare e per il difetto di ritmo che manifestano, già. Oh, a proposito di ritmo, è adesso arrivato il momento di affrontare lo stile, che ne dite?
Non c’è bisogno che lo sottolinei troppo, perché da quel che ho fin qui riportato l’avrete capito da voi: il romanzo non è scritto in uno stile “da tutti i giorni”. Anzi, è decisamente altisonante e barocco, ha un sapore arcaico, ed è ricco di immagini… di sorprendente bellezza! Sì, sono sinceramente appagata, ad esempio da queste parole:
[…] [Maria Clementina] accoglieva la diteggiatura del vento di mare nei capelli crespi e fulvi, di una leggerezza lanosa.
Bello, bello davvero, dai! Non trovate anche voi efficacissima l’immagine del vento che diteggia come un pianista sulla chioma di una fanciulla? E, siate onesti, quante altre volte avete incontrato il verbo “diteggiare”? Sono sicura che potete contarle sulle… LOL… dita di una mano.
C’è di più. Considerate con quale eleganza il nostro autore racconta di Guglielmo che, intuito l’amore di Irma, lo rifiuta:
[…] il bruciore con cui le era sprofondato dentro, ritraendosene, lo sguardo di lui […].
Non ho molto nel mio vocabolario per commentare in maniera efficace, pertanto mi limito, ancora una volta, a un “bello!”.
Però, però, però. Mantenendosi sempre sull’ondeggiare che abbiamo portato alla luce, anche per quel che riguarda lo stile La zona d’ombra propone un po’ delle brutture. Confesso candidamente che in più d’un’occasione il romanzo mi ha fatto penare nella lettura.
Certe frasi sono spesso inutilmente complicate, oberate da elementi del tutto inutili e che le rendono pressoché illeggibili.
Primi fra gli elementi “no”, gli incisi. Massimo, per carità non l’unico né colui che più s’è distinto, fa di essi un autentico abuso, tanto che accade di perdere il filo del discorso:
Ancora quella disparità dell’estraneo che ormai a due settimane viveva in casa loro – una notte in cui non le riuscì di riprendere sonno per un paio d’ore almeno, ne aveva avvertito, distinto e sfrontato, stagliarsi contro l’immobilità senza forme della casa addormentata il profondo, calmissimo ansito, come di un congegno infallibilmente in funzione –, meglio percepita a ogni nuova conversazione.
Uh, difficile! In linea di massima, gli incisi andrebbero usati con parsimonia, perché inevitabilmente interrompono il flusso del testo. Tenendo a mente questo loro limite intrinseco, sarebbe buona norma servirsene solo se necessario, e solo per inserire una breve precisazione. Nel passo che ho riportato, invece, l’inciso è talmente lungo e denso che, quando finalmente arriviamo a “meglio percepita a ogni nuova conversazione”, ci sentiamo disorientati, e siamo costretti a tornare all’inizio del periodo per ricomporne il senso complessivo. Oltretutto, l’inciso è in sostanza il racconto di un episodio a sé, non una precisazione: perché non dedicargli uno spazio autonomo, anziché stiparlo nel mezzo di un altro?
Stessa situazione accade in quest’altro stralcio:
[Irma] Era venuta su, in quei poco meno che vent’anni, diritta, svelta (Ileana invece era rimasta più polputa, chiar di colorito, la voce cantante, pronta a zampillarle in risata fra due labbra colme, di fragola), il piccolo dolcissimo seno di colomba e lo scatto delle anche, insieme nervose e danzanti nel passo.
Iniziamo con una descrizione fisica di Irma, e siamo subito bruscamente interrotti da un inciso che tratteggia la sorella, Ileana. Cielo, perché?! Perché mai parlare di entrambe, nello stesso momento, incastonando le descrizioni l’una nell’altra? Di nuovo, arriviamo alla fine della frase e dobbiamo riprenderne l’inizio, per afferrarne il significato complessivo.
Non solo gli incisi, però, rendono La quota d’ombra di ostica lettura. Guardate un po’ qui…
Come la giornata di giugno scivolata, di ora in ora, al suo stemperarsi aurato, fra case basse, strade e più pretenziosi palazzi, all’azzurro fresco della sera in cui Venere brillava alta su Palazzo Dogana, mentre ci erano arrivati da casa De Nitti, Irma a un passo dal provare imbarazzo, in mezzo alla gente comune, per via del vestito di gala (non “alla greca” magari, ma fatto pur sempre per dare, col blu notte della stoffa e l’accorto gioco di drappeggi, un giusto risalto alla silhouette che a lei non smetteva di parere fin troppo affilata) e i racemi d’oro dei pendenti a rubini che sua madre aveva voluto a ogni costo farle indossare, togliendoli con solennità dal segreto cremisi del suo cofanetto privato […].
Non ho proprio voglia di riprendere i miei manuali di grammatica e di mettermi a fare l’analisi logica, tuttavia mi sembra evidente che nel periodo (nemmeno riportato per intero) ci sia un cospicuo accavallarsi di subordinate, in cui pure si accavallano complementi di ogni tipo: eh, via, tutto questo appesantisce la scrittura, e invece di un effetto “barocco”, qui si ottiene più che altro un effetto “minestrone”.
Ultimo appunto sullo stile: il testo trabocca di pleonasmi. Soprattutto, incontriamo moltissimo dei pronomi che riprendono un sintagma già presente, con la stessa funzione, nella frase cui appartengono. Ecco qualche esempio, tanto per non farla troppo lunga:
[…] avercelo, quel loro aggeggiuzzo di cui vanno così tanto orgogliosi […].
Le uniche occasioni, quelle, in cui fosse dato di ascoltare delle belle voci […].
E vederlo, Guglielmo Satragni, al mattino di quel venerdì, nella grand’uniforme gloriosa di alamari […].
[…] tenerselo in braccio, in fin dei conti, un bambino, una bambina […].
Voglio essere chiara: il pleonasmo può rivelarsi prezioso, specie se si vuole sottolineare un elemento, o se si vuole che una frase abbia una particolare intonazione o un leggero slittamento semantico. Dire “non glielo hai mai detto” è chiaramente diverso dal dire “a Tizio, non glielo hai mai detto”: nel primo caso ci si limita a constatare un fatto, nel secondo si sta probabilmente cominciando una polemica.
Perfetto, peccato che Massimo usi i pleonasmo molto spesso in maniera impropria, accentuando parti del testo senza che, alla fin fine, sia percepibile un’apprezzabile sfumatura. Per la maggior parte, i pleonasmi de La quota d’ombra sono solo un altro modo con cui il nostro autore (inconsapevolmente, suppongo) appesantisce il testo; e se plaudo al tentativo di abbellire il più possibile la prosa, mi trovo costretta a giudicare il risultato complessivo… eh, poco soddisfacente.
E va bene, mettiamo la parola fine a questa recensione. Sarò stringata, perché in fondo quel che avevo da spendere l’ho speso tutto. Di là dai problemi, La quota d’ombra non è affatto spazzatura. Riconosco senz’altro a Mario Massimo il merito di aver preso sul serio la faccenda dello scrivere. Ah, no, lettori, niente affatto, non è una cosa scontata: cioè, ma il Maestro del giallo? L’inno che ha vinto lo Strega? Galiano… Galiano! Su, oggigiorno è raro intuire da un’opera l’impegno che l’autore ci ha messo: e per la semplice ragione che non si impegna praticamente nessuno, almeno di quelli che fanno classifica.
Massimo, decisamente, ha preso le distanze da un simile atteggiamento: ha lavorato e studiato. Ha lavorato sui personaggi, per renderli complessi e distanti dai cliché. Ha studiato la realtà storica, per dare consistenza e tridimensionalità all’ambientazione. E ha curato con puntigliosità maniacale lo stile, cercando le immagini più evocative e d’impatto. Il risultato, ripeto, non è forse stato proporzionato allo sforzo, tuttavia è bene ricordare che così avviene necessariamente, quando si affina la propria arte: nessuno (e a nessuna età) nasce imparato, e lungo il percorso per abituarsi alla tecnica, piegandola poi al proprio stile, ci sta che vengano alla luce molti “quasi”. Opere per nulla brutte, ma… eh, ancora lontane dal modello ideale.
In definitiva, va letto o no La quota d’ombra? Io dico di sì, a meno che non si abbiano grosse lacune in tema di classici: in un simile caso, meglio prima recuperare. Però, appunto, se i classici già li abbiamo in memoria, perché no? Dico, perché non concederci anche un incontro con il nostro Massimo? Insomma, se la Ciabatti e compagnia si approcciano a noi, poveri lettori, con il tirapugni e l’uccello dritto dei maranza, Massimo è invece quel galantuomo che fa ancora il baciamano. E anche se non inizierà una storia d’amore (letterario), non saremo irritati e delusi con noi stessi, per avergli prestato attenzione.
Oh, via, so che anche voi desiderate ardentemente che la letteratura sia di nuovo trattata come merita, e cioè come una vera signora! Pertanto, quando accetterete l’invito a cena de La quota d’ombra, sono convinta che, comunque vada, giudicherete di aver impiegato il vostro tempo in una buona lettura!