La Malnata – Beatrice Salvioni
Aveva il demonio dentro e con lei non ci dovevo parlare.
Il migliore degli immondi possibili
Occhei, siamo onesti: in un mondo ideale ci vergogneremmo di avere La Malnata di Beatrice Salvioni in casa… ci vergogneremmo perfino di utilizzarla come carta per le chiappe! In un mondo ideale, se ci capitasse in casa un ospite, cercheremmo di non fargli vedere che abbiamo La Malnata aperto sul comodino, perché altrimenti ci prenderebbe per il culo fino alla fine dei nostri giorni. E se, nonostante tutti i nostri sforzi, disgraziatamente si accorgesse che abbiamo La Malnata in casa… oh, cielo! Ci getteremmo in ginocchio davanti a lui, supplicandolo di lasciarci spiegare, assicurandogli che non è come sembra, che è stato La Malnata a farsi avanti, e infine gli chiederemmo perdono, mentre l’ospite si allontanerebbe scuotendo la testa scioccato.
Ma questo non è un mondo ideale: esistono la violenza, la miseria, la morte, Bazzi…
Perciò, se non vogliamo che si alzi il cortisolo pure al nostro cortisolo, vi dico già da ora che è meglio fare un bel respiro profondo e cercare di adattarsi alla cacca quel tanto che basta per non andare completamente fuori di testa… con moderazione però, ché di Saverio Tommasi ne è sufficiente uno, e uno a dire il vero è già troppo.
Fatto? Ottimo! Allora siete pronti ad accogliere quanto sto per dirvi: La Malnata non è… proprio così malaccio.
Sì, be’, intendiamoci, non è uno di quei libri che ti cambiano la vita… però, ecco, non è nemmeno al livello de La portalettere, questo è certo. Diciamo che è un libro che ce l’ha quasi fatta, via. Ma prima di capire che cosa c’è dietro quel “quasi”, voglio parlarvi un po’ della trama…
La narrazione è affidata alla voce della protagonista, Francesca. Francesca ha dodici anni e appartiene a una buona famiglia di Monza. Suo padre possiede infatti un cappellificio, mentre sua madre è una ex attrice, raffinata e alla moda. Ma tutto questo non interessa alla nostra giovane protagonista: Francesca desidera soltanto avvicinarsi a Maddalena, una coetanea che gioca sempre sulla riva del fiume, in compagnia di altri due ragazzi. Stringere amicizia con lei, tuttavia, non è semplice, a causa delle voci che girano in città: Maddalena è una bambina baciata dal demonio e che porta sventura a coloro che le sono accanto, per tutti lei è “la Malnata”. Francesca, però, nella Malnata ci vede altro: ci vede sfrontatezza, il sapore della libertà, bellezza, e soprattutto tanto coraggio. Ci vede tutto ciò che nella sua agiata vita borghese le manca, ed esattamente tutto ciò di cui avrebbe bisogno. Pertanto Francesca e Maddalena diventano amiche, stringendo un legame che va al di là di ogni loro differenza. Ma Francesca pecca di leggerezza: non sa che le voci sul conto di Maddalena non sono poi così infondate…
L’amica tale e quale
Va bene, diciamo a voce alta quello che stiamo pensando tutti: la trama de La Malnata è originale quanto la “Polystation” e le magliette di “Dolce & Banana”. Siamo infatti palesemente davanti a una versione tarocca de L’amica geniale: come già nell’opera della Ferrante, la protagonista borghese e perbene è anche la voce narrante, la storia ruota intorno alla sua amicizia con una ragazzina povera ed emarginata e il romanzo è ambientato nel secolo scorso…
Insomma, che la Salvioni l’abbia fatto apposta o meno, è fuor di dubbio che la storia di Francesca e Maddalena assomigli parecchio a quella di Lenù e Lila.
Ma ehi, vi dirò… trovo che non ci sia niente di male nel replicare uno schema narrativo, se funzionante. E lo schema narrativo de L’amica geniale funziona… oh, altroché se funziona! L’amicizia fra una ragazzina perbene e una selvatica ribelle rappresenta infatti il conflitto, da noi tutti condiviso, fra il desiderio di inserirci in società e quello di esprimere con forza il nostro individualismo. Lila e Maddalena non sono da intendersi come “veri” personaggi, bensì come l’incarnazione del desiderio delle protagoniste, Lenù e Francesca, di essere libere. Libere di non curarsi del parere altrui, libere di deludere i propri genitori, libere da tutte le convenzioni sociali che quotidianamente ci impediscono di fare quel che vogliamo, quando e come lo vogliamo. Perciò lo schema narrativo de L’amica geniale funziona così bene: non parla di due ragazzine e basta, ma parla di qualcosa di più profondo e complesso, che ci riguarda direttamente. E se uno schema narrativo riesce a toccare le nostre corde più sensibili e nascoste, allora un autore ha tutto il diritto di riproporlo in una sua opera.
Sì, so già a che cosa state pensando: ma Pesciolino, se mi sono già letto L’amica geniale, che me ne faccio de La Malnata? Se conosco già il modello originale, a che cosa mi serve la sua copia?
Eh, eh, fate attenzione: riproporre uno schema narrativo non significa affatto “copiare”. Prendete ad esempio Il nome della rosa: Eco ha intenzionalmente inserito diversi riferimenti ai romanzi di Sherlock Holmes, ma solo uno con le maniche della camicia annodate potrebbe pensare che Eco abbia copiato Conan Doyle! In realtà Eco si è avvalso dello schema narrativo del suo modello di riferimento soltanto per criticarlo dal suo interno e mostrarne la debolezza.
E che dire della serie televisiva Dr. House? Anche qui i riferimenti all’opera di Conan Doyle sono più che evidenti, ma di nuovo sarebbe assurdo pensare che i creatori della serie si siano limitati a replicare il solito schema narrativo: in realtà Dr. House va ben oltre la semplice investigazione, interrogandosi sulla effettiva possibilità di raggiungere la verità e sulle sue implicazioni morali, senza contare le numerose riflessioni sulla società contemporanea.
In breve, è una mossa intelligente riproporre un vecchio schema narrativo se lo si rivisita in chiave postmoderna, ovvero inserendolo all’interno di una parentesi ironica o sfruttandolo come punto di partenza per costruire un progetto del tutto nuovo.
Ed ecco qui la nota dolente: La Malnata non ha niente di postmoderno. Lo schema narrativo de L’amica geniale in questo libro non è il punto di partenza, è il punto d’arrivo, è proprio tutto quello che il romanzo ha intenzione di offrire. Scordatevi il disincanto di Eco e le riflessioni escatologiche di Dr. House: la Salvioni prende terribilmente sul serio la trama, e sull’intreccio incanala tutte le sue energie di scrittrice. Prestate attenzione ad esempio all’incipit del libro:
È difficile levarsi di dosso il corpo di un morto.
Lo scoprii a dodici anni, con il sangue che mi colava dal naso e dalla bocca e le mutande attorcigliate intorno a una caviglia.
I ciottoli della riva del Lambro mi premevano contro la nuca e il sedere nudo, duri come unghie, la schiena era affondata nel fango. Il corpo di lui mi pesava sulla pancia, pieno di spigoli e ancora caldo. Aveva gli occhi lucidi e vuoti, la saliva bianca sul mento e la bocca aperta che mandava un odore cattivo. Prima di cadere mi aveva guardato con la paura che gli contraeva la faccia, una mano ficcata nelle mutande e le pupille dilatate e nere che sembravano sciogliersi fino a colare sulle guance.
Era crollato in avanti, le sue ginocchia mi premevano ancora sulle cosce che aveva tenuto aperte.
Forse ora vi è più chiaro ciò che intendevo dire: La Malnata manca di ironia e di leggerezza, e anzi si tinge fin dal principio di tinte fosche. La scena con cui si apre il romanzo è infatti decisamente scabrosa, studiata com’è in ogni sua parte per atterrire chi legge: c’è un cadavere, sotto di lui c’è una dodicenne, una bambina, che è stata costretta a un atto sessuale e che è stata malmenata. Ci sono il sangue, il fango, la saliva. E poi ci sono parecchi verbi rudi, violenti: la parola “premevano”, compare ben due volte, e ancora la schiena è “affondata”, la faccia si “contraeva”, la mano “ficcata” (e badate bene, non “infilata”, che suggerirebbe l’idea di un gesto più delicato), le pupille paiono “sciogliersi”.
In conclusione, ogni elemento nel brano ci intima di non scherzare con quello che stiamo per leggere, ché si tratta di roba forte, tosta, drammatica. E adesso, guardate un po’ qui com’è l’incipit de Il nome della rosa:
Naturalmente, un manoscritto
Il 16 agosto 1968 mi fu messo tra le mani un libro dovuto alla penna di tale abate Vallet, Le manuscript de Dom Adson de Melk, traduit en français d’après l’édition de Dom J. Mabillon (Aux Presses de l’Abbaye de la Source, Paris, 1842). Il libro, corredato di indicazioni storiche invero assai povere, asseriva di riprodurre fedelmente un manoscritto del XIV secolo, a sua volta trovato nel monastero di Melk dal grande erudito secentesco, a cui tanto si deve per la storia dell’ordine benedettino.
Ora, sappiamo bene che la trama de Il nome della rosa è parecchio violenta, con tutti quegli omicidi, quelle torture, e poi quell’incendio finale… più violenta de La Malnata, non c’è alcun dubbio. Ma… ma! Guardate quanta ironia nell’incipit! Già solo con il titolo “Naturalmente, un manoscritto” l’autore ammicca a noi lettori, dicendoci: “Eh sì, questo è l’ennesimo libro che sfrutta l’espediente letterario del ritrovamento del manoscritto, utilizzato già da Alessandro Manzoni, Walter Scott, Nathaniel Hawthorne… insomma, sapete, le solite cose”. Espediente che è poi esasperato e parodiato nel corpo del testo: se Manzoni, nella finzione letteraria, è il primo a scoprire il manoscritto che racconta la storia di Renzo e Lucia, Eco è invece l’ultimo anello di una lunga catena: stando a quanto ci dice, il testo appartiene a un libro che ha ritrovato, che a sua volta era la traduzione di un altro libro, che riproduceva il contenuto di un manoscritto. Benché quindi Il nome della rosa contempli molta violenza, l’incipit del romanzo non ci invita alla serietà. Tutt’altro. Eco mette subito in chiaro che quanto leggeremo dovrà essere preso con la leggerezza e il distacco che caratterizzano l’approccio postmoderno.
Ecco dunque la nostra prima conclusione riguardo La Malnata: non è un romanzo postmoderno. E non essendo un romanzo postmoderno, la palese scopiazzatura dell’intreccio de L’amica geniale non può essere considerata “artistica”; possiamo vedervi soltanto il frutto di un’immaginazione non proprio fervida… e questo, come direbbe il buon Alessandro Borghese, non è un buon inizio.
Dimmi di più!
E vabbè, direte voi, la Salvioni non è la prima e non sarà sicuramente l’ultima a riproporre una trama già vista altrove. Vi do pienamente ragione: un libro banalotto come La Malnata potrà pure non vincere il Nobel per la letteratura (oddio… in realtà non ne sono così convinta…), ma, ehi, nulla gli impedisce di essere godibile, proprio come il banalissimo e godibilissimo Fabbricante di lacrime.
Giusto. E quindi a questo punto immagino che vogliate sapere se La Malnata può considerarsi godibile. Eeeeh diciamo che… è complicato. In parte il romanzo è godibile per via dello stile niente male dell’autrice, in parte… be’, inutile bruciare le tappe, vediamo prima che cos’ha di buono, che ne dite?
Ebbene, vi ho detto che lo stile non è niente male. Infatti risulta piuttosto evidente che la Salvioni abbia studiato certi stratagemmi utili ad attirare l’attenzione del lettore e a conservarla nel corso dell’opera. Un esempio ci è dato dal già citato incipit… ah, tranquilli, non serve che torniate sopra per leggerlo, ve lo riporto di nuovo qui:
È difficile levarsi di dosso il corpo di un morto.
Lo scoprii a dodici anni, con il sangue che mi colava dal naso e dalla bocca e le mutande attorcigliate intorno a una caviglia.
I ciottoli della riva del Lambro mi premevano contro la nuca e il sedere nudo, duri come unghie, la schiena era affondata nel fango. Il corpo di lui mi pesava sulla pancia, pieno di spigoli e ancora caldo. Aveva gli occhi lucidi e vuoti, la saliva bianca sul mento e la bocca aperta che mandava un odore cattivo. Prima di cadere mi aveva guardato con la paura che gli contraeva la faccia, una mano ficcata nelle mutande e le pupille dilatate e nere che sembravano sciogliersi fino a colare sulle guance.
Era crollato in avanti, le sue ginocchia mi premevano ancora sulle cosce che aveva tenuto aperte. Non si muoveva più.
– Volevo solo che la smettesse, – disse Maddalena. Si toccava la testa lì dove il sangue e il fango si erano rappresi in un grumo di capelli aggrovigliati. – L’ho dovuto fare per forza.
Si avvicinò, il vestito leggero le si era incollato alla pelle fradicia e le disegnava netti i contorni del fisico asciutto, nervoso.
Ah sì, ah sì, è proprio un bell’incipit. Avete visto come cattura l’attenzione? Questo perché la voce narrante esordisce con una frase breve e lapidaria. Niente descrizioni, niente dialoghi, nessuna riflessione esistenziale… niente di complicato, insomma. Non abbiamo bisogno di concentrarci per capire che cosa vuol comunicare la narratrice: quella frase senza fronzoli va dritta al punto, non ci dà il tempo di ritrarci dalla lettura e ci catapulta fin dal primo momento all’interno della scena. E la scena è decisamente bizzarra: una dodicenne sdraiata sotto il corpo di un cadavere… che cosa diamine ci fa lì? Come ha potuto una che è poco più di una bambina ritrovarsi in una situazione simile? La nostra mente si affolla di domande, domande a cui vogliamo dare una risposta: avvertiamo così l’impulso di divorare con foga le righe seguenti, in cerca di informazioni che chiariscano la misteriosa situazione.
Ma l’attesa del piacere è essa stessa piacere, come diceva il grande poeta Spot De’ Campari. E anzi, potremmo perfino dire che il piacere sarebbe molto meno piacevole, se non fosse preceduto dall’attesa. La Salvioni lo sa bene, ed è per questo che, dopo averci instillato mille dubbi, si diverte a farci stare un po’ sulle spine, tergiversando con qualche brano descrittivo. Ecco quindi arrivare una descrizione del cadavere, breve e tuttavia particolarmente vivida, giacché interessa ben tre sensi: il tatto (“[i]l corpo di lui mi pesava sulla pancia, pieno di spigoli e ancora caldo”), la vista (“[a]veva gli occhi lucidi e vuoti”) e l’olfatto (“la bocca aperta che mandava un odore cattivo”).
E poi il gioco si ripete. Dopo la descrizione del cadavere segue infatti un’altra informazione interessante ma incompleta, che genera nuove domande: è stata Maddalena a far sì che l’uomo morisse, ma non riusciamo a capire come ci sia riuscita. E di nuovo l’autrice, anziché vuotare il sacco, ci rifila un altro brano descrittivo (“il vestito leggero le si era incollato alla pelle fradicia e le disegnava netti i contorni del fisico asciutto, nervoso”) che aumenta la suspense.
Gli occhi non mentono
È indubbio che la Salvioni la sappia lunga sulle tecniche da attuare per coinvolgerci nella lettura. E di certo le qualità de La Malnata non si esauriscono con l’incipit. Devo dire che ho trovato le immagini evocate alquanto suggestive… benché non sempre convincenti, a essere sincera. Per esempio, prendiamo questa immagine appartenente all’incipit (sì, di nuovo lui):
[…] le pupille dilatate e nere che sembravano sciogliersi fino a colare sulle guance.
Ora, non so a voi, ma a me questa frase fa venire in mente delle lacrime. Infatti, quando si inizia a piangere, la parte inferiore dell’iride perde la sua nitidezza curvilinea, velata com’è dalla lacrima, e si ha l’impressione che si stia davvero sciogliendo. Bello, però… eh, l’uomo a cui si fa riferimento non ha in realtà alcun motivo per piangere (e qui, mi tocca fare un po’ di spoiler). Come scopriremo verso la fine del romanzo, l’uomo che nell’incipit giace senza vita sul corpo di Francesca stava cercando di violentarla (e vabbè, fin qui ci eravamo arrivati), quando viene colto da un infarto improvviso. L’uomo perciò non ha ragione di piangere, poiché muore all’improvviso e velocemente mentre si sta procurando del piacere, senza avere il tempo di provare né dolore né tristezza. E allora, che cosa c’entrano le pupille che si sciolgono e colano via?
Al di là di qualche immagine non pertinente e parecchio forzata, vi dicevo però che tutto sommato la Salvioni riesce a evocare immagini suggestive, come quella usata per descrivere gli occhi del fruttivendolo, il signor Tresoldi:
Filippo e Matteo [amici di Maddalena] si fermarono accanto alla bancarella delle ciliegie, il signor Tresoldi smise di bestemmiare e li fissò con un luccichio di minaccia negli occhi: due noccioli sporchi di polpa.
Ora, il signor Tresoldi all’inizio non ci è presentato come un personaggio positivo: ha una perenne aria truce, è scorbutico ed è manesco nei confronti del figlio, Noè. Tutto in lui incute timore, e capiamo così il motivo per cui i suoi occhi sono paragonati a qualcosa di duro e ruvido, un nocciolo. Però… però. C’è dell’altro. Il nocciolo non è semplicemente un oggetto duro, è la durezza che rimane dopo che un frutto è stato mangiato. Il nocciolo non nasce tale, prima faceva parte di qualcosa di dolce e bello. Ecco dunque che dalla metafora traiamo una prima conclusione: Tresoldi non è sempre stato “nocciolo”, qualcuno o qualcosa deve avergli portato via la dolcezza. Probabilmente la morte della moglie, a cui la voce narrante accenna qualche pagina prima:
Noè era arrivato assieme alla piena del Lambro, in novembre. Il fiume aveva esondato facendo crollare i ponti, allagando le cantine. Lui, nascendo, aveva fatto uscire dalla madre tutto il sangue e si era salvato da solo, come Noè che, con la sua arca, si era portato via solo le bestie, senza pensare agli altri esseri umani che il Signore abbandonava sotto il diluvio.
Non è finita qui. Già, perché il brano non si limita a dire che gli occhi del signor Tresoldi sono due noccioli, ma precisa un ulteriore dettaglio: sono noccioli sporchi di polpa. Insomma, qualcosa di dolce e di buono attaccato a quei noccioli ancora c’è, è poco, ma c’è. E infatti, quasi verso la fine del libro, ecco che il fruttivendolo ci riserva un colpo di scena: quando sorprende Francesca e Maddalena in casa sua, intente a rubargli un’oca, lui reagisce in maniera… davvero inaspettata. Leggete:
Fu allora che il signor Tresoldi tornò dal cortile lasciando picchiare la porta della cucina contro lo spigolo del camino.
Poggiò qualcosa di bianco e pesante al centro del tavolo. […] Le piume le devi togliere dalla parte della crescita. In questo senso, va bene? Inizia dalla coda e alla fine il collo e le zampe. È chiaro?
Maddalena tolse di scatto le mani dal tavolo e annuì, seria.
L’oca morta aveva le zampe legate, il becco spalancato con la lingua di fuori e le ali allargate sulla tovaglia cerata. […]
– Poi la devi sventrare. Magari è meglio se chiedi a qualcuno di bravo. Gli organi, li devi levare. Ma mica li butti, eh. Il fegato è una prelibatezza. Ti piace il fegato a te?
– Certo, – disse Maddalena, – certo che mi piace.
– Bene, – disse il signor Tresoldi e si pulì le dita sui pantaloni sformati. Guardò lei, poi guardò me. – Si chiamava Elena. Come la regina.
– Chi?
– L’oca. A tutte quante ci do un nome, io. E non me le scordo mica. Ogni volta che se ne uccide una bisogna dire una preghiera e affidarla al Signore.
[…]
– E la sta dando a me? – chiese Maddalena. – Anche se la volevo rubare? […]
– Ho saputo dei tuoi fratelli, – disse. – Brutta storia davvero. […] Rubare non va bene, ma avete un coraggio che fa invidia ai soldati, voi due ragazzine –.
Capite dunque perché il paragone fra gli occhi del fruttivendolo e i noccioli è così azzeccato: con una sola metafora, la Salvioni riesce ad esprimere l’essenza del personaggio, riassumendo il suo vissuto e anticipando le sue mosse. E niente, credo che mi si stiano sciogliendo le pupille dalla commozione…
Che crema di rabbia ch’è chisto cafè
È inoltre apprezzabile l’impegno dell’autrice nel ricostruire un’ambientazione storica fedele. Certo eh, la Salvioni poteva sicuramente fare molto di più… però oh, abbiate pazienza, vengo dalla lettura de La portalettere… a questo punto pure i fumetti con Asterix e Obelix mi sembrerebbero storicamente accurati. E forse forse anche La vita è bella di Benigni… no vabbè, adesso l’ho sparata grossa. A ogni modo, il lavoro della Salvioni nel curare l’ambientazione mi sembra degno di nota, dopotutto. In particolare, ho apprezzato la naturalezza con cui inserisce certi dettagli storici, integrandoli nelle scene per aumentarne la vividezza. Prendete ad esempio questo brano. Ci troviamo a tavola insieme ai Merlini, la famiglia di Maddalena…
Fu un pranzo triste, con Ernesto [fratello di Maddalena] che si sforzava di rendere allegra l’atmosfera. […]
La madre di Maddalena, a capotavola, grattava la forchetta nel piatto vuoto di castagnaccio, e disse: – Se lo sapesse Mussolini, non ci sarebbero queste ingiustizie. Bisognerebbe fargliele sapere, le sventure di noi povera gente. Magari possiamo scrivere una lettera.
Luigia [fidanzata di Ernesto] cercò con lo sguardo quello di Ernesto, che rideva di un riso amaro: – Come se gliene importasse qualcosa. […] è come una mosca, quello lì. […] Ad ammazzarlo fai fatica. Ti ci devi impegnare. Devi provare e provare ancora finché non ci riesci.
Luigia fece scaldare l’acqua per il caffè d’orzo; nel frattempo Maddalena mi portò nella camera dove dormivano lei e i fratelli.
Ecco lettori, quel “fece scaldare l’acqua per il caffè d’orzo”, così defilato, è a parer mio un piccolo tocco di classe: la voce narrante non commenta la presenza del caffè d’orzo nella cucina della famiglia di Maddalena, non spiega che l’abitudine di bere vero caffè era solo per i ricchi, mentre gli altri dovevano ripiegare sui surrogati. Non ce n’è bisogno, perché l’autrice non vuole spiegarci l’indigenza della famiglia di Maddalena, vuole comunicarcela: l’atmosfera durante il pranzo è tesa, i personaggi percepiscono un’imminente catastrofe, tentano di dissimulare la paura, ma non riescono comunque a stare allegri. Il caffè d’orzo è l’emblema di questo tentativo di comportarsi normalmente, mentre tutto va in mille pezzi: i Merlini bevono caffè d’orzo dopo pranzo come se si trattasse di vero caffè, e non di brodaglia (ehi, a me il caffè d’orzo piace e lo bevo regolarmente… però, diciamoci la verità, non ha niente a che vedere con un buon espresso, eh?).
Il particolare storico si fonde così con l’ambientazione, conferendole una raffinata tridimensionalità.
Uno strano straniamento
E questo è quanto di interessante c’è ne La Malnata. Ma per ogni elemento interessante ce n’è uno che… uhm, ci fa capire che la Salvioni non è (non ancora, perlomeno) una scrittrice matura e consapevole. È evidente che la Salvioni abbia studiato e che si sia impegnata, ma è un po’ come quegli studenti che imparano a memoria le pagine assegnate dall’insegnante, senza comprendere bene cosa hanno appena letto. Il seguente brano ne è un chiaro esempio…
La chiamavano la Malnata e non piaceva a nessuno. Dire il suo nome portava sfortuna. Era una strega, una di quelle che ti appiccicano addosso il respiro della morte. Aveva il demonio dentro e con lei non ci dovevo parlare.
La guardavo da lontano la domenica, quando mamma mi infilava le scarpe che tagliavano i talloni […].
La Malnata era giù al Lambro insieme ai maschi, due ragazzi che conoscevo solo per nome: il Filippo Colombo […] e il Matteo Fossati […]. Entrambi avevano i pantaloni corti, le ginocchia piene di graffi e per lei, che era più piccola e pure femmina, sarebbero stati disposti anche a prendersi in pancia i proiettili, come i soldati che vanno in guerra, e dire poi al Signore: «Sono morto felice».
Teneva l’orlo della gonna, a cui il sole e lo sporco avevano levato il colore, arrotolato nella cintura da uomo stretta in vita, i piedi nudi ben piantati sulle rocce calde di sole. Sono la cosa che una ragazza non deve mai mostrare, le gambe. Le sue erano nude e rigate di fango che le imbrattava i polpacci e le cosce. […]
Mia madre mi strattonava e diceva: «Facciamo tardi».
Indicava oltre la balaustra del ponte e diceva: «Ragazzacci». […]
Dovevo sforzarmi per allontanare lo sguardo dai bambini giù al fiume, i bambini che non ero e avevo sempre spiato.
Ma quella domenica, per la prima volta, la Malnata mi fissò con i suoi occhi lucenti e neri. Poi fece un sorriso.
Mi mancò il respiro e serrai le palpebre, scattai verso mio padre, sulla strada che saliva al duomo. […] Anche io volevo avere le rotule segnate come i ragazzi giù al Lambro. Anche io volevo sentire il fiume filtrarmi tra le dita dei piedi e mostrare le gambe rigate di fango. Volevo che battessero per me le mani e i piedi nell’acqua.
A un primo sguardo, questo brano non sembrerebbe affatto male. Si apre con la tecnica dello straniamento, con cui l’autrice descrive il personaggio di Maddalena attraverso un punto di vista estraneo a quello di Francesca, ovvero quello popolare. Ricordate? È la stessa tecnica utilizzata da Verga, e di fatti “[l]a chiamavano la Malnata e non piaceva a nessuno” ricorda tantissimo l’incipit di Rosso Malpelo, “Malpelo si chiamava così perché aveva i capelli rossi; ed aveva i capelli rossi perché era un ragazzo malizioso e cattivo […]”. In seguito, però, scopriamo che il punto di vista adottato non è semplicemente quello popolare, ma appartiene a una persona ben precisa: la madre di Francesca. È infatti a una figura materna e a cui spetta il compito di educare la protagonista che dobbiamo attribuire il pensiero “[s]ono la cosa che una ragazza non deve mai mostrare, le gambe”. Perciò il giudizio negativo che la madre di Francesca ha nei confronti di Maddalena dovrebbe pesare oltremodo sulla giovanissima protagonista, ma… così non è. Intendiamoci, è vero che a dodici anni si tende a voler affermare la propria personalità e a prendere le distanze dai genitori, ma è anche vero che a quell’età non si conosce a sufficienza il mondo per decidere in autonomia cosa conservare dei precetti che la famiglia ci ha inculcato e cosa invece abbandonare del tutto. La mente di tutti i dodicenni, anche dei più ribelli, è di conseguenza pesantemente condizionata da quella dei loro genitori. Ma come vi ho anticipato, Francesca non sembra subire granché la volontà di sua madre. La nostra, nonostante esordisca riportando l’opinione della mamma, ben presto lascia trapelare tutta la sua ammirazione per Maddalena e alla fine dice esplicitamente di voler giocare con lei, dimentica di tutti gli ammonimenti ricevuti a riguardo.
Ora, se una dodicenne prima ci dice che la Malnata è una strega, e un minuto dopo dice di voler andare a giocare con lei in riva al fiume, capite bene che c’è qualcosa che non va: o Francesca soffre di disturbi della personalità, oppure bisogna concludere che la Salvioni s’è bella che scordata di approfondire la psicologia della protagonista quel poco che basta a renderla un personaggio realistico. E credetemi, non ci voleva poi così tanto. Anziché far dire apertamente a Francesca che desidera giocare con Maddalena sulla riva del fiume, la Salvioni avrebbe potuto optare per qualcosa di simile:
“Mi mancò il respiro e serrai le palpebre, scattai verso mio padre, sulla strada che saliva al duomo. È pericoloso quando ti sorride la Malnata, possono capitarti delle disgrazie. Decisi che il giorno dopo sarei andata da lei sul fiume, per dirle di non sorridermi mai più.”
Un brano simile a prima vista sembrerebbe senza senso: ma come, Francesca ha paura di quello che potrebbe succederle dopo che la Malnata le ha sorriso, e poi decide di incontrarla di persona? In realtà, proprio l’atteggiamento irrazionale della protagonista ci avrebbe fatto capire che lei è tormentata da sentimenti contrastanti: da un lato vorrebbe fare la brava bambina e sottomettersi a sua madre, dall’altro prova il desiderio di vedere da vicino questa Malnata di cui tutti parlano, il desiderio cioè di fare un’esperienza da sola, senza la guida di un genitore, da cui poter trarre un’opinione in autonomia. E poiché il nostro cervello tenta sempre di razionalizzare e di dare una spiegazione a tutto, ecco che anche Francesca si dà una spiegazione al suo desiderio di conoscere Maddalena, spiegazione che la rincuora e che la convince di non essere una bambina disobbediente: sì, incontrerà la Malnata, ma solo per dirle di starle lontana, proprio come vorrebbe la mamma.
Guardate, non è affatto diverso da quello che succede in un’eccezionale scena del film Titanic, in cui Jack domanda a Rose se ama l’uomo con cui è fidanzata: lei entra in confusione, sa bene che non ne è affatto innamorata, ma sa anche che deve sposarlo se non vuole creare problemi alla sua famiglia, inoltre sa che sua madre non approverebbe vederla intrattenere una conversazione così informale con un mezzo sconosciuto. In breve, Rose vive sotto i nostri occhi un estenuante conflitto interiore, indecisa com’è fra l’assecondare sua madre (e badate, Rose non è nemmeno una dodicenne!) e l’esprimere liberamente sé stessa. Che cosa fa allora Rose? Rimprovera Jack di insolenza e impettita gli stringe la mano per congedarsi. Ma ecco il tocco di classe: Rose stringe la mano di Jack per un lasso di tempo inopportunamente lungo. C’è pertanto una discrepanza fra ciò che Rose dice di voler fare (andarsene) e ciò che in effetti fa (rimanere e cercare un contatto fisico prolungato con Jack). E un tale comportamento contraddittorio è esattamente quello che ci aspetteremmo da un personaggio confuso e in evoluzione quali sono Rose e Francesca.
L’amica speciale (?)
C’è poi anche un’altra cosa che la Salvioni ha omesso di specificare: il motivo per cui la protagonista è così interessata a Maddalena. Meh, abbiamo capito che Francesca non è contenta di infilarsi un paio di scarpe scomode, e che invidia Maddalena che può sgambettare libera nel fiume… ma ormai è un po’ troppo cresciuta per smaniare così tanto di insozzarsi nel fango, non vi pare? Sia ben chiaro, non sto dicendo che a dodici anni le bambine non abbiano ancora tanta voglia di giocare, eh! Però bisogna essere realistici: a quell’età iniziano ad affacciarsi all’adolescenza, iniziano a interessarsi ai ragazzi, a cercare la loro attenzione, a curare il loro aspetto e a impegnarsi in attività più da adulte per darsi un tono. Quindi… sì, è assolutamente normale che una dodicenne giochi, ma è anche assolutamente normale che non si comporti come una seienne, e che si interessi anche ad altro.
Pertanto, è un po’ forzato che Francesca si avvicini a Maddalena soltanto perché vuole giocare anche lei in riva al fiume… anche perché, come leggeremo in seguito, Francesca e Maddalena hanno a riguardo gusti piuttosto diversi:
– Ma un gioco diverso non lo volete fare? – azzardai sfuggendo al suo sguardo.
– E che gioco? – disse Filippo, che forse era il primo a non divertirsi in quella gara ad acchiappare le code.
– Non lo so. Uno senza lucertole, – dissi alzando le spalle. – Magari possiamo fare che quella era la nave e noi i pirati come nei romanzi del Corsaro Nero, – e indicai un grosso tronco caduto di traverso per la discesa.
– No, – tagliò corto la Malnata. E le venne d’improvviso una faccia seria, occhi che avrebbero potuto uccidere.
– E perché? – chiesi, ma avevo la bocca asciutta.
– Perché l’ho detto io.
– Alle cose per finta non giochiamo mai, – spiegò Filippo scrollando le spalle.
Insomma, non si può nemmeno dire che Francesca e Maddalena abbiano degli interessi in comune. E allora dobbiamo di nuovo tornare sul quesito: perché Francesca vuole fare amicizia con Maddalena?
Non so se l’avete notato, ma la protagonista ci dice qualcosa di interessante, mentre osserva la Malnata e i suoi amici giocare. Dice: “Volevo che battessero per me le mani e i piedi nell’acqua”.
Si potrebbe dedurre cioè che Francesca in realtà non voglia diventare amica di Maddalena, ma prenderne il posto: siccome la Malnata, con il suo spirito libero, è tanto popolare fra i maschi, allora la protagonista vuole imitarla e spodestarla. Vi dirò, questo avrebbe potuto essere uno sviluppo molto interessante: come vi ho detto poco prima, è normale che la nostra protagonista dodicenne non si interessi soltanto al gioco ma inizi a far pratica con la sua sessualità e a interessarsi ai ragazzi. Peccato che questo sviluppo nel romanzo non si veda neanche col binocolo. Al contrario, nelle pagine successive avremo conferma del fatto che Francesca è proprio interessata a Maddalena; Filippo e Matteo non li caga manco di striscio… oh, perfino le sue fantasie “erotiche” hanno come oggetto Maddalena!
E anche se al Lambro non ci potevo andare, la verità era che Maddalena non riuscivo a lasciarla. Pensavo sempre a lei.
Anche in modi di cui mi vergognavo: lei che mi salvava dall’ultimo piano di una casa in fiamme, lei che era un soldato e mi portava via da un campo di battaglia tenendomi in braccio, con le bombe che cadevano e il sangue dappertutto, lei che mi guardava fare la ruota con la gonna del vestito e mi diceva che ero bella. Ma quelle avventure immaginarie le tenevo per me.
E se adesso state per darvi una manata sulla fronte, mentre vi rimproverate per non averci pensato prima… no, non fatelo: La Malnata non vuole raccontarvi un amore omosessuale fra ragazzine. Infatti Francesca a un certo punto sviluppa un spiccata attrazione per Noè, il figlio del fruttivendolo:
Noè esitò un istante, poi ci raggiunse: – Tieni, – disse porgendomi un cartone con dodici uova.
– Perché? – chiesi e le strinsi al petto.
Alzò le spalle: – Erano quelle che volevi, no? –
I suoi occhi del colore delle castagne fissarono i miei e io avvampai. […] Il cartone di uova era ancora caldo e aveva il suo odore: un odore di animale e di selvatico, di tabacco scuro, un odore che, mi resi conto, mi piaceva.
Ah, so già cosa state per obiettare. E va bene, lo so che si può essere fluidi, e può pure darsi che a Francesca possano piacere femmine e maschi in egual maniera. Ma allora perché Francesca sembra essere ossessionata solo da Maddalena, e non anche da Noè? E torniamo così sempre alla solita domanda: che cosa ha Maddalena di così speciale?
E il ketchup sui piedi?
Insomma, vedete da voi che la psicologia dei personaggi lascia molto a desiderare. È probabilmente per questo che a un certo punto la trama sembra arenarsi e non andare più da nessuna parte. Una volta detto che Francesca e Maddalena sono diventate amiche, alla Salvioni non rimane infatti molto altro da raccontare se trascura gli aspetti psicologici. L’autrice si ritrova così a rifilarci una serie di episodi tremendamente pallosi, di cui il romanzo avrebbe potuto… anzi, no, avrebbe dovuto fare a meno. Un esempio è l’episodio in cui a scuola cade dalle scale una stronzina che era solita prendere di mira Maddalena, e Francesca teme sia stata proprio la sua amica a provocare l’incidente. Maddalena, che in realtà non ha colpe, si incazza a bestia e mette il muso alla protagonista, che riesce a riconquistarsi la fiducia dell’amica soltanto dopo averla difesa di fronte alla classe intera. Oh, se la Salvioni avesse aggiunto anche qualche scena disturbante, credo che a quest’ora Disney Channel avrebbe trovato il suo nuovo Dan Schneider. Sul serio, un litigio stupidino del genere andrebbe bene per la sceneggiatura di iCarly, non per un romanzo rivolto agli adulti: perché mai dovrebbe essere per noi interessante leggere di due personaggi che bisticciano, se poi la lite non ha importanti conseguenze sul loro rapporto? Ora, capisco che il libro è già breve, e che se gli togli pure i bisticci adolescenziali rimangono giusto le pagine dei ringraziamenti dell’autrice.. e dal finale aperto capisco anche che c’è tutta l’intenzione di scrivere almeno un secondo capitolo della serie… ma mannaggia la miseria, non è che per avere il materiale per un secondo libro bisogna riempire di aria fritta il primo, eh! A questo punto è preferibile scrivere un unico libro, che però abbia una trama sostanziosa. Occhei il marketing, ma è molto meglio fare le cose fatte bene, no? Ah già, dimenticavo, questo non è un mondo ideale…
Via, tiriamo le somme di questa recensione. La Malnata è… meh. Difficile dirvi qualcosa di diverso. La trama è interessante ma monca e banale, lo stile è curato ma da principianti, e nel complesso leggere questo libro risulta essere un’esperienza noiosa: vi dirò, se ne può fare tranquillamente a meno. Però, eh, se state cercando un romanzo da portarvi in spiaggia, La Malnata potrebbe fare al caso vostro: è rilassante, favorisce i pisolini… e soprattutto, è abbastanza leggero per potervelo appoggiare sulla faccia quando il sole picchia forte. Buona lettura!