La luce di Akbar – Navid Carucci

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IL GIUDIZIO:

la luce di akbar il romanzo dell'impero moghul di navid carucci edito da la lepre edizioni

«È strano […] Tu ti senti bloccato perché tuo padre t’ingombra la via, io mi sento perso perché il mio non me l’ha indicata. Forse i padri sono destinati a sbagliare in ogni caso».

Illuminato e illuminante

Siamo nella seconda metà del Cinquecento. In Europa, la Chiesa cattolica cerca di reagire al luteranesimo, compattandosi e inasprendosi nelle sue posizioni dogmatiche: il sospetto dilaga, il filosofo Giordano Bruno è dichiarato eretico e bruciato sul rogo. A Galileo Galilei per poco non tocca la stessa sorte: bisogna fare più attenzione, facendosi meno domande.
Questo, grossomodo, in Occidente. Ma voi siete lettori curiosi, lo so, e vi state chiedendo: cosa accadeva, nel frattempo, in Oriente? Viaggiamo e arriviamo in India. Akbar, il terzo re della dinastia Moghul, governa in un unico impero molte fedi diverse: i sudditi di Akbar sono hindu, musulmani sciiti e sunniti, giainisti. Akbar è un re che cerca la pace: persegue la tolleranza religiosa e invita gesuiti, zoroastriani e musulmani a confrontarsi, a trovare un punto d’incontro oltre i dogmi esclusivi. Capite già che in questi casi è d’obbligo usare l’aggettivo “illuminato”.
La luce di Akbar, romanzo di Navid Carucci, prende sul serio sin dal titolo la qualifica che siamo soliti attribuire ai sovrani magnanimi e dall’indole amica della conoscenza: anzi, possiamo interpretare in un duplice modo la luce di Akbar, e forse fare dell’imperatore non soltanto un illuminato, ma anche un “illuminante”, per così dire. Illuminante, del resto, è il romanzo stesso, perché è nella sostanza un accurato affresco della storia indiana.

Con gli occhi di un ragazzo

A prenderci per mano in questa storia tanto affascinante quanto trascurata (alla maggior parte di noi praticamente sconosciuta, come nota il professor Franco Cardini, nell’introduzione) è Samir, un padre di famiglia che ricorda i tempi in cui era un ingenuo dodicenne che percorreva in lungo e in largo le dimore del re. Al principio di tutto, il giovane Samir è introdotto a corte grazie all’intercessione di suo padre Jamal, da poco nominato kotwal (responsabile dell’ordine e della sicurezza) di Fatehpur Sikri, la capitale fatta costruire da Akbar; a palazzo, Samir ha la fortuna di conoscere il coetaneo principe Salim, primogenito del Shāhanshāh. I due scoprono di avere un comune interesse per la pittura, si avvicinano e stringono amicizia.
Samir è di natura docile e remissiva, invece il principe Salim dimostra un carattere lunatico, capriccioso e prepotente: nonostante la buone partenza, il loro rapporto sembra dunque essere destinato a naufragare. Inoltre, come se non bastasse la fondamentale diversità di spirito, l’amicizia fra i due è messa decisamente a dura prova quando Samir si innamora di Man Bai, una delle ragazze dell’harem imperiale. Quando la vede per la prima volta, Samir ignora l’identità di Man Bai, non ha idea di essere al cospetto della promessa sposa di Salim, della futura imperatrice dell’Hindostan.
Però, saputo della cotta, Salim progetta un incontro fra Samir e Man Bai. Vi ho presi in giro? Funziona così quando un’amicizia è sull’orlo del baratro? Salim è più che gentile, state pensando. Be’, la “gentilezza” di Salim è in effetti una trappola, perché l’appuntamento è architettato con il solo scopo di umiliare il nostro protagonista:

Salim sorrise sornione, guardandomi fisso: «Devo confessarti che prima non m’interessava granché, ma la tua fissazione ha stuzzicato la mia curiosità. L’ho incontrata spesso dopo il mina bazar, proprio in questo palazzo. Sai, cara cugina, il nostro Samir ambisce a quella cosina che hai fra le gambe».
«Salim!», gridai, ma la voce uscì incrinata.
«Vuoi vederla?». Salim le girò intorno, e insinuò una mano all’altezza del petto. «O preferisci un seno? Così liscio, chiaro e scuro, come una ghianda».
Mi alzai in piedi, mentre Man Bai teneva gli occhi bassi, impassibile.

Sì, è davvero la separazione, il sadismo di Salim apre infine, e inevitabilmente, la frattura insanabile che spezza l’amicizia: Samir si libera dalla difficile compagnia del principe, incamminandosi da solo verso un matrimonio e una vita da pittore.

Conversazioni metafisiche

Lettori, fin qui direi che la storia è un classico, quindi già solo per questo è coinvolgente, ma non siate tentati di credere che la trama de La luce di Akbar si esaurisca in un racconto di amore e di amicizia. Dopotutto, vi ho introdotto il romanzo riferendomi ad Akbar, al suo regno, alla sua India. In verità, proprio come una pietanza indiana, La luce di Akbar appaga mescolando sapientemente spezie diverse, e la tribolata vita di Samir è solo una di esse.
In effetti, la vita (inventata) del nostro protagonista, insieme alle ben note malignità dei rapporti di corte, si trova sulla superficie di un grande tema metafisico. Akbar, infatti, fu non soltanto un sovrano capace, ma anche un riformatore religioso: molti pensieri sulle cose prime e ultime lo animavano dal profondo, tanto che a un certo punto della vita decise di fondare una personale dottrina sincretica. E Carucci ci informa nei dettagli.

A proposito di ciò che ho appena detto, un elemento che rende gustoso La luce di Akbar è il dialogo: i personaggi di contorno, (molti dei quali realmente esistiti, come avete già intuito) si confrontano spesso proprio su questioni politiche e religiose, offrendo così un ritratto culturale dell’India e personale di Akbar che si inserisce in modo piuttosto naturale nella narrazione. In particolare, grazie all’espediente delle diatribe, Carucci fa sentire ancor più viva la corte e aiuta a farsi un’idea non soltanto del contenuto delle questioni metafisiche che preoccupavano Akbar, ma anche della reazione ad esse dei dignitari e dei sudditi in generale, di certo non tutti entusiasti delle soluzioni proposte dal sovrano. Non pochi giudicavano con un misto di inquietudine e di fastidio l’attenzione riservata da Akbar (musulmano di nascita) alle altre religioni: ad esempio, l’ospitalità che egli offriva ai gesuiti, tra cui l’atriano Rodolfo Acquaviva, fu vissuta da molti suoi correligionari ortodossi come una gravissima e palese minaccia. Ma ci vuole un certo coraggio, o almeno un po’ di tempo, per affrontare un re, perciò si prova prima a contestarlo “per prossimità”, scontrandosi con chi ne condivide (o ne ispira) il pensiero.
Ecco dunque come Carucci ritrae un dibattito fra il mullah Badauni e Acquaviva. Oggetto del contendere è l’opportunità di servirsi di raffigurazioni religiose, una questione sulla quale tuttora cristianesimo e islam divergono:

Il capo della delegazione, l’italiano Rodolfo Acquaviva, mostrò un ponderoso volume a stampa che Akbar portò alla fronte e baciò, provocando un sussulto negli ulema e in non pochi altri fra i presenti.
Il gesuita, con una luce ardente nello sguardo, lo squadernò davanti a tutti: «Questo è il primo tomo della Regia Bibbia poliglotta […]».
Gli occhi degli ulema si posarono sul frontespizio miniato, e Badauni si fece carico della domanda di tutti:
«Cosa rappresentano quegli animali?».
Padre Acquaviva non ebbe bisogno di guardare: «Sono simbolo dei tre evangelisti Marco, Luca e Giovanni».
«Non solo dunque osate ritrarre gli autori di un testo sacro, ma date loro foggia di bestie?».
Le vene sul collo di Acquaviva si gonfiarono nell’udire la traduzione. La sua veemente replica accese un alterco […].

Ebbene, dicevo che Akbar riflette ed emana luce: sì, ma in tanti, colpiti da tale luce, si fanno scudo con le mani e con le braccia. Chi, forse, per paura di essere accecato, chi per una pura e semplice insofferenza, chi per amore dell’ombra in cui si è sempre trovato a proprio agio.

Un’eredità pesante

Lettori, Akbar è certamente il vero protagonista del romanzo, pur trovandosi in un “cielo”, se mi è permessa la metafora, più distante dal lettore, rispetto a quello in cui si muove Samir. Ciò è sicuramente in linea con il tema della sua personalità filosofica e mistica, ma di nuovo non bisogna arrivare a conclusioni affrettate: Carucci si concentra sui diversi aspetti della vita di Akbar, non dimenticandosi di narrare questioni più “terrene”, eppure altrettanto universali. Ad esempio, il nostro autore tratteggia il re all’interno del rapporto fra padre e figlio, e riflette inoltre sul gravoso peso dell’eredità.
Anche in questo caso, il tutto è mediato dai personaggi che già ci sono noti, in una commistione di fantasia e verosimiglianza storica.

Samir e Salim, oltre alla pittura, condividono un rapporto difficile con il rispettivo padre. Da un lato, Samir è disorientato dalle parole e dalle decisioni di Jamal, che guarda al suo futuro in maniera eccessivamente ottimista e sembra non rendersi conto della reale natura delle cose:

Capii cos’era che mi metteva a disagio di mio padre. Fin da quando parlava delle promozioni che avrebbe ricevuto da Salim: bapu ignorava la realtà. O meglio, vedeva una realtà a propria misura, come se la maya – il velo hindu dell’illusione – gli fosse modellata addosso. Quando allora diceva che tutti lo ammiravano, inclusa la famiglia imperiale, desideravo credergli con tutto il cuore; ma nel profondo sentivo già che s’illudeva, che era una fiaba che raccontava a se stesso e agli altri.

Un padre così ingenuo e cieco è incapace di indicare la strada al proprio figlio, il quale certamente diviene presto consapevole di stare andando incontro a difficoltà maggiori di quelle che incontra chi è ben consigliato.
Salim invece una guida ce l’ha, e fin troppo autoritaria: essendo il primogenito del re, tutti si aspettano da lui imprese all’altezza del suo titolo. Più di tutti, avete capito, se le aspetta Akbar. Ma Salim come vi ho spiegato si mostra volubile, crudele, isterico, incline ai vizi: alcol e donne non mancano mai nelle sue giornate. Vegeta, insomma, all’ombra di suo padre, di volta in volta confermandosi incapace di sostenere un qualunque tipo di confronto con lui, corrodendosi dall’invidia per le attenzioni (meno “alte”, però più affettuose) riservate ai fratelli.
Non è finita. Attraverso una prolessi, Samir racconta che in futuro, proprio a causa del carattere debole di Salim, Akbar inizia a preferire come erede il nipote Khosrou, ovvero il primogenito di Salim stesso: per quanto grande illuminato, quindi, Akbar non riflette totalmente la luce divina di cui si sente investito, in lui resta una parte d’ombra tipica dell’umano, della creatura. Non può sottrarsi alle dinamiche destinate all’essere mortale, le quali, pur diverse per i re e per i sudditi, trascinano sempre in zone della vita prive di colori, piene di complicazioni, di risentimenti, di fallimenti.

Così, in sostanza, si sviluppa il tema dell’eredità: certo quella pratica, politica, regale, ma anche quella naturale, che grava sulle spalle dell’uomo in quanto tale. E Akbar, appunto, resta un uomo…

Il Re non ha colpa, figlio mio. Come dicono in questa terra, ciascuno raccoglie ciò che semina. […] il Re ha sofferto per la mia morte […]».
«Ma non ha fatto nulla per impedirl[a]».
«Talvolta un sovrano è impotente quanto uno schiavo».

Questo brano è parte di un dialogo in cui il poeta Abdur Rahim parla con suo padre (esiliato da Akbar stesso): ebbene, l’imperatore è messo alla prova dalle necessità e dalle contingenze terrene, quasi ci fosse uno scopo divino di ricordare a lui, più che a ogni altro, i limiti di chi è mortale. In definitiva, pur avendo alti obiettivi (la scoperta della vera fede, la prosperità del regno) e volontà e mezzi per conseguirli, Akbar non è tanto qualcuno che decide della vita, bensì è, come chiunque altro, qualcuno la cui vita è in un certo senso “decisa”. Il re illuminato, nella finzione di Carucci, pronuncia queste parole, riguardo alla natura della religione:

Pensate a una ruota. Lungo il bordo si allineano le religioni, ma al centro di tutte vi è Dio. I mistici, da qualsiasi religione muovano, tendono come i raggi verso il centro; e più si avvicinano a Dio, più si avvicinano tra loro.

E il romanzo, nella sua interezza, sembra poi suggerirci che Akbar non abbia esplorato fino in fondo la sua metafora: una grande ruota, sì, ma chi la può muovere? Non il re, spesso costretto a mettere da parte i propri affetti, deluso dal suo stesso sangue, incapace di ridurre a una superiore conciliazione i sostenitori di visioni del mondo nemiche. Si può comprendere infine che non è la luce di Akbar, ma che Akbar è della luce, come tutto il resto. E la luce, qualsiasi cosa sia, è oltre ogni re, oltre ogni regola e trasgressione di corte, oltre ogni pretesa di conoscenza e di dominio.

Difficile, ma appagante

Vedete, lettori, La luce di Akbar si rivela una lettura non piatta e non lineare. E, a parlar chiaro, non è neppure facile: le diatribe religiose e i numerosi riferimenti storici chiedono uno sforzo non indifferente al lettore non motivato, il quale può confondersi di fronte a una narrazione tanto densa e “alta”.
Però, chi non si lascia spaventare è presto ripagato. La meticolosità di Carucci si rivela nelle descrizioni credibili e nelle accurate biografie dei personaggi reali, delle quali non è trascurato nessun dettaglio. Ma non è tutto: l’autore cura con molta precisione anche lo stile. Ad esempio, il modo di esprimersi di Samir e degli altri personaggi è opulento, particolarmente ricco di metafore:

«[…] Già da tempo avevo compreso che le certezze dei sapienti erano spine sulla rosa del pensiero, e che le incertezze della ragione ne erano invece la fragranza. Ma non conoscevo ancora le asperità del roveto. Fuggimmo in una notte più buia della mente degli invidiosi, e più lunga delle calunnie dei vaniloquenti. […]»

Pregavo che crollasse un muro d’acqua per costringerci sotto il porticato, ma Salim aveva scelto quel giorno proprio perché il cielo era sgombro.

Ma non è tutto: oggi so che quell’onda, sfiorandolo, si era bagnata nella sua fiducia, e di fiducia era tornata mischiata come il fango nelle acque del lago.

No, Carucci non vuole dare sfoggio di virtuosismo letterario: il linguaggio pregno di simbolismo, di similitudini, di ripetizioni, di riprese, si ispira evidentemente a quello di alcuni poeti sufi persiani, come Hafez e Rumi, molto apprezzati (e imitati) nell’ambiente di corte durante l’Impero Moghul. Il nostro autore, quindi, è capace di ricreare anche con mezzi puramente formali l’atmosfera culturale della corte di Akbar.

Per concludere, lettori, vi dico che La luce di Akbar è un romanzo dalla qualità atipica: Navid Carucci non ha voluto semplicemente raccontarci una storia, ha inteso evocare, nel senso letterale del termine, la storia di uomini, di idee e di un’India affascinante, evitando una grigia e cristallizzata ricostruzione accademica.
E dunque, se non siete dei lettori pavidi, se non temete le letture impegnative, La luce di Akbar vi strizza l’occhio. Se ricambierete, io vi auguro una buona lettura!

Sara

Ciao! Sono la fondatrice del blog letterario "Il pesciolino d'argento", amo profondamente i libri, l'arte e la cultura in generale.

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