Il Tesoro della Certosa – Giovanni Nocella

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IL GIUDIZIO:

il tesoro della certosa romanzo di giovanni nocella

Le rade case di Capri, bianche, immerse nel verde tutto intorno, le alture vertiginose di Anacapri da un lato e quelle più dolci di S. Maria del Soccorso dall’altra, il Castello che vigilava sull’abitato, S. Michele, la Marina…

Non mi sorprende, non è un thriller

Italia, agosto 1648. Lorenzo Guerra, un giovane funzionario del Consiglio Collaterale, si sta imbarcando per Capri. La ragione è nascosta in una particolare missiva inviatagli da Severino, chierico della Certosa dell’isola, nonché amico fraterno di Lorenzo fin dalla tenera infanzia. Nella lettera, Severino si mostra assai preoccupato riguardo la morte di un altro chierico, padre Gabriele, deceduto in circostanze che gli paiono sospette: teme che non sia morto per cause naturali, ma che sia stato ucciso da qualcuno che vuole impossessarsi di un certo tesoro custodito all’interno della Certosa.
Lorenzo inizialmente non dà peso alle paure del suo amico e tenta di rassicurarlo, ma ben presto la questione si complica. Alla morte di Gabriele succede quella del suo servitore Bernardo, e qualcuno accusa proprio Severino e Lorenzo di essere i responsabili degli omicidi. Lorenzo comincia a sospettare che ci sia qualcuno che ha tutto l’interesse a toglierlo di mezzo, e, guarda caso, da poco tempo è giunto a Capri un mercante di stoffe, Cristoforo Bruni, che proprio non ne vuol sapere di lasciare in pace Menuccia, l’amata del protagonista…

Occhei, togliamoci subito il pensiero: la trama escogitata da Giovanni Nocella non è un granché. O meglio: non è un granché per essere la trama di un romanzo thriller, genere a cui Il Tesoro della Certosa dichiara di appartenere.
Infatti, normalmente si attribuiscono a un thriller due caratteristiche: suspense e atmosfere cupe. Entrambe però scarseggiano all’interno di questo libro. Ma facciamo un passo alla volta.

Partiamo dalla suspense. Ne Il Tesoro della Certosa una grande suspense dovrebbe derivare, come suggerisce il titolo, proprio dal mistero che aleggia intorno alla scomparsa del tesoro presente nel monastero della Certosa di Capri. Per tutta la trama, i personaggi (e noi con loro) dovrebbero affannarsi per dare una risposta alle seguenti domande: come ci sono arrivati tutti quei gioielli e quel denaro nel monastero? Chi li ha portati? Perché? Come ha fatto il tesoro a sparire?
Insomma, il thriller ha bisogno di tensione, e perché ci sia tensione è necessario avere delle domande e nessuna risposta a portata di mano. Invece ne Il Tesoro della Certosa la risposta a ogni domanda arriva… uhm, presto e facilmente. Fin troppo. Voglio dire, nemmeno il tempo di arrivare a metà libro, che già abbiamo le risposte a tutte le nostre domande!
Siamo infatti appena a un terzo della storia, quando leggiamo che un certo Giovan Battista Caputo si presenta spontaneamente alla Vicaría con l’obiettivo di spiegare per filo e per segno perché è stato accumulato il tesoro, come è stato trasportato a Capri, e chi sono le altre persone coinvolte nella vicenda:

L’uomo esitò un poco. «Sono Giovan Battista Caputo, abito nelle vicinanze di S. Luigi, poco più su di Largo Reale. La mia famiglia si interessa da diversi anni di commercio con i paesi del nord Europa, Olanda, Fiandre. […] Vede, eccellenza, poco più di un anno fa durante i primi giorni della rivolta popolare io con tutto il resto della famiglia abbiamo assistito direttamente a quanto stava accadendo. Ci allarmammo subito quando udimmo il suono delle campane a stormo che veniva da più parti della città. […] Quando vedemmo sua eccellenza il viceré che per poco non finì scannato dalla folla, capimmo che non era un semplice tafferuglio, ma che stava accadendo qualcosa che mai avevamo visto a Napoli. […] Con altri due amici, con i quali sono da sempre in buoni rapporti, venimmo alla decisione di mettere insieme i valori di ciascuno di noi e portarli al sicuro da qualche parte. Io pensai subito a un mio cugino, padre certosino a Capri, che forse avrebbe potuto aiutarci. […] [Parlando dei suoi amici] Uno è Egidio Grassi, l’altro […] Corrado Bruni. […] C’è un rapporto di solida amicizia fra le nostre famiglie e comunque il notaro Scarpa conservava l’originale dell’accordo proprio per garantirne il rispetto […].

E addirittura prima che si giunga a un quarto del libro, scopriamo già chi fra coloro che hanno accumulato il tesoro ha sabotato i suoi compagni, impossessandosi dell’intero malloppo. Il decimo capitolo dell’opera assume infatti il punto di vista di Cristoforo Bruni, figlio di Corrado Bruni, mentre si sta dirigendo a Capri per impadronirsi del tesoro all’insaputa di tutti gli altri:

Ci vollero cinque ducati per convincere quel pescatore a traghettarli con il maltempo che imperversava in quei giorni, anche perché gli chiese di fare il giro lungo e passare a sud dell’isola. […] Non aveva potuto più rinviare. Alle sue solite spese si erano aggiunte le perdite al gioco. Gli affari andavano male e le cose si stavano mettendo ancor peggio per lui. Fra poco sarebbe venuto Natale e qualcuno gli avrebbe presentato il conto. Doveva mettere le mani su quei soldi.

Insomma, agli occhi di noi lettori non esiste alcun mistero, sappiamo già tutto quel che c’è da sapere. Per di più vestiamo spesso i panni del colpevole Cristoforo, le cui mosse e strategie non ci colgono mai di sorpresa. Capite bene che la suspense che Il Tesoro della Certosa è in grado di offrire è davvero ridotta al minimo…

Cristoforo e Colombo

Ora, tutto ciò potrebbe anche andar bene, se solo l’autore avesse desiderato costruire l’intreccio del suo romanzo ispirandosi al modello della serie televisiva Colombo, i cui episodi iniziano non con il ritrovamento del cadavere, ma con la scena dell’omicidio: in questo modo, lo spettatore sa fin dal principio chi è l’assassino e come si svolge il delitto; di conseguenza segue la trama soltanto perché desidera vedere come riesce il detective a risolvere il caso. In breve, Colombo è un giallo (e non un thriller!) scarsamente adrenalinico, che si concentra principalmente sui particolari, sui dettagli e sui ragionamenti logici, più che sulla suspense e sul mistero. Ma no, Il Tesoro della Certosa non assomiglia nemmeno a questo tipo di giallo più “rilassante”. L’investigazione di Lorenzo non è appassionante come quella del tenente Colombo, poiché all’interno del romanzo mancano proprio quell’attenzione per i dettagli e quei ragionamenti che sono tipici del giallo deduttivo. Lorenzo principalmente si limita a mettersi in contatto con gente del luogo per risalire all’identità del pescatore che ha traghettato Cristoforo il giorno in cui ha portato via il tesoro da Capri e a convincerlo a testimoniare:

Lorenzo si girò verso il pescatore, che stava scrutando sia lui [Cristoforo] che Khalid [il servitore turco di Cristoforo].
«Si, sono loro. Lui e il nero, ci manca quello muto. Non ho alcun dubbio!» Le parole di quel Gennarino erano peggio di una sentenza.
[Cristoforo] Non aspettò altro. Scaraventò la sedia a terra e balzò verso la porta, mentre Khalid tirava fuori il suo coltellaccio e gli parava la fuga.

Puntare tutto su un testimone per inchiodare un assassino… meh, ammetterete anche voi che non è un intreccio convincente, no? Avremmo avuto invece un intreccio migliore se Lorenzo avesse notato sui luoghi dei delitti una serie di indizi lasciati inavvertitamente da Cristoforo, indizi da utilizzare in un’arringa finale. Ecco, ad esempio, nel romanzo si ripete spesso che Cristoforo adopera un fazzoletto per coprirsi il naso:

Stringeva un paio di guanti in una mano e un fazzoletto nell’altra, che si portava continuamente al naso.

[Parla Cristoforo] «Menuccia! Tu mi sottovaluti. Per te ho in serbo una grossa sorpresa.»
Le sventolò il solito fazzoletto sotto il naso.
Le sue narici furono raggiunte dal solito odore pungente e fastidioso che quel gaglioffo usava e accentuò la sua istintiva repulsione verso di lui.

Ricorse come al solito al profumo del suo fazzoletto per tenere a bada la nausea […].

Certo, siamo d’accordo, nel Seicento le persone e le strade erano un po’ più… odorose, diciamo, perciò molti gentiluomini facevano uso di fazzoletti profumati per resistere come potevano. E se erano in molti a farne uso, un fazzoletto ritrovato sul luogo del delitto non può significare proprio un bel niente, eh. Sì, avete ragione. Però… prendiamoci un momento per riflettere. Stando a questi stralci, pare che Cristoforo faccia del suo fazzoletto un uso particolarmente insistente e continuato, e pare per di più che usi un tipo di profumo “pungente” (“Le sue narici furono raggiunte dal solito odore pungente e fastidioso che quel gaglioffo usava […].”), probabilmente diverso da quelli che Menuccia è abituata a percepire nell’aria. Questo, con un po’ di fantasia, potrebbe magari significare che Cristoforo soffre di disturbi allo stomaco, a cui tenta di porre rimedio con esotici olii essenziali o con preparati pensati appositamente per lui. Di conseguenza, un fazzoletto imbevuto di un profumo inusuale potrebbe in effetti rivelarsi una prova schiacciante.
Insomma, le possibilità per scrivere un giallo deduttivo in piena regola c’erano eccome, ma sono state ignorate dall’autore, che a questo punto mi sembra non fosse così interessato a scrivere né un thriller né un giallo…

Cattivo, ma un po’ lavativo

Un altro elemento che mi porta a questa conclusione è l’atmosfera generale del romanzo. Vi ho già detto che in genere l’atmosfera in un thriller è cupa, piuttosto drammatica. Ne Il Tesoro della Certosa l’atmosfera al contrario è… direi… direi leggera, nonostante gli omicidi raccontati. Gli omicidi infatti tutto sommato sono pochi e non truculenti (niente cadaveri decapitati la cui testa è stata data in pasto a un’anaconda gigante), e solo uno fra questi è stato effettivamente perpetrato dal cattivo della storia. Il cattivo, ecco, il cattivo… direi che gioca un ruolo decisivo nel rendere leggera l’atmosfera di questa storia. Perché, mi domandate? Be’… il fatto è che Cristoforo non assomiglia affatto al tipico killer diabolico dei romanzi. In un thriller l’antagonista è il personaggio più temibile che si possa immaginare, è potente, intelligente, machiavellico, crudele. Oh, Cristoforo è l’esatto contrario. Certo, non è sicuramente un uomo onesto, anzi. Ma di rado è la mente diabolica che orchestra intrighi e malefatte. Al contrario, spesso non ha affatto la situazione sotto controllo, va nel panico e lascia che siano i suoi scagnozzi (Khalid e il Muto) a suggerirgli soluzioni per tirarlo fuori dai guai. Desiderate una dimostrazione? Ebbene, fate attenzione a come si svolge il primo incontro fra Cristoforo e Bernardo, il famiglio di padre Gabriele:

Un tizio con un berretto di panno calcato sulla testa e una mantellina sdrucita si avvicinò lentamente, uscendo dall’ombra. «Vi ho ascoltato discutere col vecchio [si riferisce a padre Gabriele]. […] So tutto dello scrigno. Il mio nome è Bernardo, aiuto padre Gabriele nella sue incombenze terrene e l’ho aiutato io a suo tempo a nasconderlo. So dov’è. Posso…» Un largo sorriso scoprì la sua dentatura bacata. «Potrei aiutarvi a recuperarlo.» […]
«Guarda, che se mi stai prendendo in giro…» [Cristoforo] Gli fece sentire la punta del pugnale sotto la pappagorgia.
«Che interesse avrei? Perché vi avrei fermato, allora?» L’altro tirò indietro la testa e con la mano allontanò prudentemente la lama dal suo collo. […]
«D’accordo. Se è vero sarai ricompensato. Che intendi fare?» In quel momento era l’altro a essere padrone della situazione. Meglio lasciarlo fare.

Come viene detto esplicitamente, padrone della situazione è proprio Bernardo, che ha già deciso fra sé e sé di tradire la fiducia di padre Gabriele per il proprio tornaconto. Invece, Cristoforo è in totale confusione: è arrabbiato, ma non ha in mente alcuna strategia. È talmente inesperto e spaesato che si rimette completamente nelle mani di Bernardo, riconoscendo in lui, e non in sé stesso, il vero capo.
E ancora Cristoforo entra nel panico, dopo la morte di Bernardo, causata accidentalmente da Khalid. E di nuovo, non pensa a una soluzione, ma lascia che sia uno dei suoi aiutanti a suggerirgliela:

«Masha Allah!» Khalid stava con il bastone in mano, sporto in avanti a fissare nel buio del precipizio nel quale era scomparso quel porco [si riferisce a Bernardo].
[Cristoforo] Glielo strappò di mano. «Maledetto imbecille! Ti ci mando io da Allah! C’era bisogno di colpirlo così forte?» Scagliò il pezzo di legno con tutta la forza che aveva lontano da loro giù verso gli scogli. […] «Guarda in che guaio mi ritrovo. […] adesso con un morto sicuramente qualcuno comincerà a indagare. […] se cominciano a indagare chissà come va a finire. Bisogna inventarsi qualcosa per evitare che arrivino a qualcuno di noi. E soprattutto a me.» […] Il Muto però ricominciò a gesticolare, indicò prima la borsa con i ducati, poi puntò col dito in alto, verso la Certosa che praticamente affacciava poco più su e infine mimò come per nascondere qualcosa da qualche parte.
«La Certosa? Nascondere i soldi nella Certosa?» Quello annuì con forza. Poi [Cristoforo] mostrò un’espressione di sorpresa e incrociò i polsi. «Vediamo di farli trovare a qualcuno e così se la prendono con i monaci? Bravo Muto! È una buona idea, può funzionare. […]»

E anche se non è necessaria, eccovi un’altra dimostrazione: dopo non essere riuscito a eliminare Lorenzo, Cristoforo entra nuovamente in crisi ed è per l’ennesima volta consigliato dal suo braccio destro:

[Parla Cristoforo a Khalid] «[…] Me ne fotto della vostra amicizia! Adesso lui [il Muto] è morto, io ho perso un testimone e chissà cosa andrà a raccontare Lorenzo, ora che ha pure qualche testimone a favore. Rispetto a ieri i miei problemi restano, anzi sono aumentati a dismisura.»
«Appunto. Per questo ho un piano. Adesso vi dico perché l’ho recuperato.» Khalid indicò l’altro.

Insomma, Cristoforo non è un personaggio positivo, su questo c’è poco da discutere. Ma non è nemmeno quel cattivo temibile alla Hannibal Lecter. Pensate, è talmente poco temibile… che si lascia perfino schiaffeggiare da Menuccia!

Imperterrito l’altro le si avvicinò ancora. «Dì [sic] la verità.» Le sussurrò a un orecchio. «Non è che per me faccia molta differenza, ma tu, alla tua età, sei ancora… illibata?»
[Menuccia] Fece un passo di lato, spinse indietro il braccio e lo roteò con tutta la forza che aveva. «Porco!» Gridò. La mano, dura come un maglio, piombò sul volto di quel disgraziato con una violenza tale che quello vacillò letteralmente sotto il colpo. […] Cristoforo si rizzò, impettito, strofinandosi la guancia a bocca aperta.

Lettori, vi domando… riuscite a immaginarvi un Hannibal Lecter o un Max Cady (il killer de Il promontorio della paura) assumere un’espressione scioccata dopo essere stati schiaffeggiati da una diciottenne? No, eh? E allora immagino che siate d’accordo con me quando dico che il cattivo di questa storia suscita più ilarità che terrore, privando l’atmosfera del suo dramma.

Povertà non troppo povera

Ma non è tutto. L’atmosfera non è cupa anche per lo scarso realismo che caratterizza l’opera.
Sia chiaro, l’autore è indubbiamente competente sul periodo storico trattato (e più avanti vi dimostrerò il perché, non temete). Ma ciò che manca all’ambientazione per essere davvero realistica è… la crudezza.

Riflettiamo un momento. La vicenda narrata avviene dopo le rivolte popolari aizzate da Masaniello. Senza entrare troppo nel dettaglio, forse vi ricorderete che queste rivolte popolari nascevano dalla fame, dalla povertà, dalla disperazione del popolo napoletano, stremato dalla pressione fiscale. Ebbene, dopo questa precisazione… che tipo di ambientazione vi viene in mente? Non so voi, ma io sto pensando a dei sobborghi marcescenti, a prostitute che affollano le strade di notte, a bambini pelle e ossa che rovistano fra gli avanzi del mercato… oh be’, forse sto esagerando, ma resta il fatto che il contesto in cui si muovono i personaggi del romanzo è un contesto decisamente non idilliaco, e ci si aspetterebbe pertanto che l’autore indugi sulle difficoltà sociali ed economiche del tempo.

Ora, l’autore in effetti menziona tali difficoltà… ma appunto, li menziona e nient’altro. Non che li trascuri, questo no… però ecco, diciamo che sorvola sui dettagli più scabrosi. Oh, via, qui ci serve un esempio.
Prendete questa scena ambientata in una giornata qualunque a Napoli:

La strada lastricata che aveva davanti era almeno tre volte la stradina più larga di Capri. Piena di gente impegnata in mille cose. Banchetti che vendevano di tutto, pescatori che riparavano con abilità le loro reti stese ad asciugare lungo la passeggiata, nugoli di ragazzini che si rincorrevano o andavano dietro a qualche gentiluomo riccamente vestito o a qualche carrozza per elemosinare qualche moneta. E poi calessi, dame elegantemente vestite in portantine rette da servitori in livrea, carri e carretti che trasportavano frutta e verdura e ogni ben di Dio, cavalli… […]
[Menuccia] Incrociò lo sguardo di una donna seduta all’ingresso di quella che doveva essere la sua casa. Una blusa aperta lasciava intravedere il seno abbondante, i capelli le scendevano da un lato, fermati da un grosso fiocco rosso.
Si sventagliava con la gonna mettendo così in mostra le gambe. Non era vecchia, sicuramente più giovane di Angelina [madre di una delle amiche di Menuccia] e non era brutta, anzi. Ma era… pensò a un fiore appassito, di quelli che stavano al cimitero e vide nel suo sguardo un [sic] immensa tristezza. […] Più tardi si voltò a guardarla, ma quella si era già girata dall’altra parte e cercava di attirare l’attenzione di un paio di soldati spagnoli. Ebbe un brivido. Era convinta che quella sarebbe stata anche la sua fine se avesse assecondato le voglie di quel Cristoforo.

Vedete? Nel brano, l’autore effettivamente riporta alcuni dettagli che dovrebbero suggerirci uno stato di indigenza, menzionando dei ragazzini che chiedono l’elemosina e una prostituta a caccia di clienti. Ma… eh, l’autore non ha alcuna intenzione di andare oltre. Sì, ci racconta dei piccoli mendicanti, ma non precisa quale sia il loro aspetto. Sono magri, ossuti, o ben nutriti? Sono vestiti adeguatamente, o indossano dei cenci? Qual è il colore della loro pelle? Le loro guance sono rosee e paffute o pallide e scarne? Elemosinano per il gusto di infastidire il gentiluomo snob di passaggio, o per poter sopravvivere al giorno successivo?

Poi, la prostituta. Chiaro, sì, il suo sguardo triste ci suggerisce che non è felice del suo mestiere. Ma anche questo particolare non è crudo: la prostituta è infatti una donna adulta, non anziana e non giovanissima, ed è una bella donna, con un seno abbondante. In poche parole, è una donna in salute e che riesce a nutrirsi a sufficienza, ed è in una fase della sua vita in cui è naturale che abbia rapporti sessuali. Tutti questi particolari attutiscono il turbamento derivante dal sapere che la donna è costretta da forze maggiori a concedersi, e così riusciamo a leggere l’intero brano senza esserne eccessivamente toccati. Sarebbe stato invece diverso se a prostituirsi non fosse stata una donna sulla trentina, ma una donna anziana, stanca e malata. O peggio, una dodicenne. O ancora, una donna con un bambino attaccato al seno o mal vestita, scheletrica, pallida. Ecco, in quel caso avremmo capito che la plebe napoletana era alla fame e disperata (come in effetti era), al punto che le donne di qualunque fascia d’età erano indotte a prostituirsi pur di sfamarsi.

Anche l’ultima frase del brano sortisce un effetto rassicurante: per Menuccia, il rischio di divenire una prostituta sarebbe concreto soltanto nel caso in cui si legasse a Cristoforo. In breve, ciò che implicitamente ci dice il passo è questo: Menuccia non è minacciata né dalla miseria né dalla fame, la sua unica preoccupazione è un corteggiatore indesiderato.
Come detto, l’autore non omette la condizione di povertà in cui versavano molti napoletani dell’epoca. Però la “camuffa”, raccontandola con un po’ di pressappochismo, e dipingendo così un quadro ben più radioso dell’effettiva realtà dell’epoca.

Un bel non thriller

Tutto questo mi porta a una sola conclusione: Il Tesoro della Certosa non è un bel thriller, e lo sconsiglierei agli appassionati del genere.
Ma probabilmente avrete notato quelle quattro stelline in cima alla recensione. E allora? Che cosa sto facendo, prima assegno una valutazione positiva al romanzo e poi lo boccio?
Eh no, fate attenzione: ho detto che Il Tesoro della Certosa non è un bel thriller… ma non ho detto che non è un bel romanzo.

Infatti Il Tesoro della Certosa non ha molto a che vedere con il genere thriller, e chi lo acquista dando fiducia alla dicitura “thriller storico” che compare sulla copertina rischia di rimanere assai deluso, di questo dovevo pur avvertirvi.
Però, però… il romanzo di per sé non è affatto male. Abbiamo detto che la trama manca di misteri da risolvere, ma nonostante questo il risultato finale è comunque avvincente. D’altra parte, ammettiamolo, l’autore va sul sicuro puntando su un intreccio tipico della fiaba. Riscontriamo infatti nella trama de Il Tesoro della Certosa molte delle funzioni elencate dall’antropologo e favolista Vladimir Propp. Fra queste, il nostro romanzo include nell’intreccio la funzione del danneggiamento, in cui l’antagonista reca offesa alla famiglia dell’eroe (Cristoforo incrimina Severino e insidia Menuccia); della lotta (Lorenzo e Cristoforo si scontrano direttamente); dello smascheramento (Lorenzo rivela tutte le malefatte di Cristoforo); della punizione (Cristoforo viene arrestato); e del matrimonio (Lorenzo e Menuccia riescono alla fine a sposarsi).

Insomma, si tratta di un intreccio un po’ banale, ma che è quasi sempre infallibile… e anche questa volta non fa eccezione.
Ma di certo non è solo grazie all’intreccio che il romanzo risulta avvincente.
La lettura è resa godibile anche dalla presenza di alcuni… chiamiamoli siparietti, via, che danno corpo e colore alla storia.
Qualche esempio, vi va? Prendete allora questi due brani:

[Lorenzo] Frugò e tirò fuori la lettera che Severino gli aveva inviato pochi giorni prima.
Aprì il foglio ripiegato in quattro e rilesse. […]
Quella lettera era strana. […] Anche la calligrafia, di solito precisa e lineare con i suoi caratteri elaborati, in questa lettera era più essenziale, discontinua, nascondeva uno stato di agitazione o quantomeno di preoccupazione.
Filuccio gli diede di gomito. «Certo che Michele s’è proprio stancato!»
Indicò il suo mozzo e si portò il dito sul naso per fare segno di non fare rumore. Aveva una pesca in mano, recuperata da una delle ceste che aveva vicino. Prese con cura la mira e la tirò verso Michele.
Lorenzo seguì la parabola del frutto che si andò a schiantare, spiaccicandosi un po’, dietro l’orecchio sinistro del giovinastro, che sobbalzò e rovinò a peso morto sul fondo della barca.
«Ma che mar…»
«Michè, non bestemmiare!» Lo ammonì in tempo Filuccio.
«E scetete, che siamo quasi arrivati!»

[Cristoforo e i suoi scagnozzi] Erano passati all’esterno del viale di accesso alla Certosa. […] Attraversarono il giardino carponi fino all’altro lato del porticato e scavalcarono nuovamente il muretto.
Si avvicinò alla seconda porta, seguito dal Muto. Provò ad aprirla. L’uscio cedette senza problemi con un leggero cigolio. […] Quella doveva essere la cella del morto. […] [Cristoforo] Uscì e quasi si scontrò col Muto che era rimasto fuori. «Porc… e stai attento! Non starmi proprio attaccato al culo!»

Be’, ve l’avevo detto che il romanzo aveva un’atmosfera leggera! E anche se, appunto, un’atmosfera simile impedisce a Il Tesoro della Certosa di considerarsi un autentico thriller… siamo sinceri, ne possiamo anche essere contenti.
Già, perché è proprio attraverso tali siparietti che Giovanni Nocella riesce a personalizzare un intreccio che altrimenti di per sé sarebbe piuttosto stereotipato.
Anzi, non solo lo personalizza: si potrebbe perfino dire che si prende gioco dei cliché della trama.
Fateci caso: il brano dello scherzo a Michele inizia con un Lorenzo in apprensione per la sicurezza del suo amico Severino; e quello in cui Cristoforo e il Muto si scontrano racconta del tentativo dell’antagonista di incastrare i monaci della Certosa e di far ricadere su di loro i sospetti di omicidio. Entrambi i brani trattano quindi di momenti “tragici” e decisivi all’interno della trama. Inserendo i siparietti visti, l’autore ci distrae dalla serietà del momento, stempera il dramma e ci invita a non prendere troppo sul serio la storia. E se volete una terza prova, eccola qui:

Solo il volto di Menuccia contava e quello sguardo di passione. [Lorenzo] Le cinse la vita con un braccio, prese la sua mano e la baciò nel palmo. Fu lei a rompere ogni indugio. Si avvicinò fino a sfiorargli le labbra con le sue. Un brivido. Istintivamente l’avvicinò a sé. Chiuse gli occhi e assaporò la dolcezza di quel bocciolo che schiudeva un adolescente alla passione. La strinse a sé, sentì i suoi seni e il suo ventre che aderiva al suo.
«Menuccia!» Caterina [madre di Menuccia] fece sentire la sua presenza. «Ué! Menuccia! E jamme jà
Menuccia si scostò quel tanto che bastò per dire, con un filo di voce:
«Mà, nun me scuccià!» Le bocche si incollarono di nuovo.
La sculacciata che Caterina dette a Menuccia scosse tutti e e due e allora la scostò da sé, prima che la reazione a quella esplosione dei sensi diventasse troppo evidente.

In teoria, questo brano racconterebbe del primo bacio fra i protagonisti. Ora, riuscite a immaginare un momento più romantico del primo bacio fra un ragazzo e una ragazza che si sono a lungo aspettati, e che devono combattere contro un uomo malvagio per unirsi in matrimonio? No, non c’è nulla di più romantico. Ma subito dopo l’autore smorza il romanticismo inserendo una bella sculacciata: l’abbassamento di tono è drastico, impertinente, inaspettato… e divertente, non c’è dubbio.

Notai e avvocati a confronto

Merita una lode anche la capacità descrittiva dell’autore, che ricorre abilmente allo show don’t tell per raccontare alcuni tratti caratteriali dei personaggi in scena. Vi presento subito un esempio. Nel seguente brano è descritto lo studio del notaio che è al corrente dell’esistenza del tesoro della Certosa. Guardate un po’…

La stanza era abbastanza spoglia. Arredata con un armadio chiuso che probabilmente conteneva registri e bastardelli, uno scaffale con una striminzita biblioteca di testi giuridici, segno di una probabile scarsa competenza e preparazione personale. Ne aveva più lui a casa! E un paio di cassoni. Una sola finestra illuminava la stanza, con tende di stoffa pesante raccolte ai lati. In fondo alla stanza, davanti a una porta che dava probabilmente al resto dell’appartamento e intorno a un braciere sovrastato da un asciuga panni, c’erano un altro scranno e un paio di sedie con sopra appoggiate alcune stoffe ricamate e quello che gli sembrò un tombolo con altri attrezzi per il cucito, segno che quella stanza era effettivamente usata anche per altre esigenze domestiche.
L’uomo che gli si presentò dopo diverso tempo era tarchiato, tozzo, il viso rubicondo, decisamente più basso di lui, i capelli ricci e folti come le sopracciglia. Vestito con delle brache di un grigio scuro, una camicia con una gorgiera che non riusciva a chiudere intorno al collo, gli dette l’impressione di essersi appena svegliato.

Va bene, ne sono consapevole, questo brano non è il top del top e ha anzi qualche difetto. Per dirne una, l’autore è fin troppo preoccupato che non si capisca quel che intende dire, e dunque esplicita ciò che è già evidente. Infatti, non c’è alcun bisogno di precisare che la presenza di pochi testi giuridici nell’ufficio di un notaio è “segno di una probabile scarsa competenza”! Dire che la biblioteca è “striminzita” è più che sufficiente, il lettore trarrà da sé le proprie conclusioni. E intendiamoci, non lo dico io… leggete come Manzoni descrive lo studio dell’avvocato Azzecca-garbugli:

Era questo uno stanzone, su tre pareti del quale eran distribuiti i ritratti de’ dodici Cesari; la quarta, coperta da un grande scaffale di libri vecchi e polverosi: nel mezzo, una tavola gremita d’allegazioni […].
(I promessi sposi, cap. III)

Anche Manzoni descrive la libreria del professionista per qualificarne le competenze… ma dopo aver detto che i libri sono “vecchi e polverosi” non si precipita a spiegare al lettore che sono vecchi e polverosi perché Azzeccagarbugli non li legge da tempo. Al contrario, lascia invece che il lettore deduca in autonomia l’evidente, senza una balia che lo guidi.
Ma al di là di questi piccoli difettucci, il brano con cui Giovanni Nocella descrive l’ambiente lavorativo del notaio è senz’altro scritto con sapienza: l’autore non si perde a raccontare dettagli insignificanti, noiosi e privi di utilità come invece fanno molti altri scrittori (dico, ve la ricordate la goccia d’olio della Ciarapica?!). No signore, qui abbiamo finalmente qualcuno che ha capito che le descrizioni hanno un preciso ruolo nella narrazione, e che non servono ad allungare il brodo… sì, cazzo!

Non realistico, ma accurato

Altro aspetto del romanzo che ho decisamente apprezzato è l’accuratezza storica. Sì, lo so, poco fa ho detto che l’ambientazione è poco realistica… ma in realtà le due affermazioni non entrano in contraddizione. L’autore preferisce risparmiarci i dettagli più scabrosi dell’epoca, anche a costo di fornirci un quadro storico incompleto. Ciò non toglie però che quanto l’autore decide di riportarci è storicamente fedele.
Ad esempio, è assolutamente veritiero che nel Seicento spesso le persone preferissero pulirsi “a secco”, evitando con cura l’acqua, che si riteneva portasse malattie. A tutto questo si fa riferimento quando si racconta del modo in cui si lava l’anticonformista Menuccia:

Come si chiuse la porta alle spalle corse a lavarsi. […] Come facevano le altre ragazze della sua età cui bastava pulirsi alla meglio e profumarsi? In quei giorni, poi? Avevano voglia di dire in giro che era pericoloso lavarsi, che l’acqua faceva male alla pelle.

Ma, più che attraverso brani simili, l’accuratezza storica del romanzo è data da determinate scelte linguistiche. Ebbene, l’autore rivela una precisione certosina (eh, eh…) nell’indicare alcuni oggetti dell’epoca con il loro esatto nome. Vi mostro qualche stralcio esemplificativo…

E poi pentole, piatti, caccavelle, mestoli.

[…] un armadio chiuso che probabilmente conteneva registri e bastardelli […].

Severino […] si apprestò a uscire dalla cella, ma prima di varcare la soglia guardò verso un angolo della cella. «Costanzo, così ti chiami vero? Per favore, c’è il bugliolo da svuotare.»

Anche lei [Menuccia] si sentiva elegante, in una fresca camorra ricamata a fiori […].

Se ve lo state domandando, la “caccavella” è un meridionalismo per indicare la pentola di coccio, i “bastardelli” sono registri di note tenuti anticamente dai notai, il “bugliolo” è una sorta di pitale usato in passato nelle carceri (e infatti lo adopera Severino mentre è in stato di arresto) e la “camorra” è un’antica veste femminile.
Ora, in genere non apprezzo l’inserimento di tecnicismi o di termini non di uso comune in un testo letterario, per due ragioni. Un termine sconosciuto rallenta il ritmo narrativo, giacché costringe il lettore a interrompere la lettura per interrogarsi e per documentarsi sul suo significato. Inoltre, una parola lontana dalla quotidianità “raffredda” l’esperienza narrativa, favorendo un senso di distacco fra noi e l’evento raccontato.

In questo caso, però, Giovanni Nocella inserisce i suoi tecnicismi e dialettismi con intelligenza. Innanzitutto, li inserisce in scene già di per sé lente e descrittive. Pertanto non siamo costretti ad abbandonare un’emozionante scena d’azione per consultare il vocabolario, e interrompere per qualche attimo la lettura non ci pesa.
Inoltre, è sicuramente vero che i tecnicismi de Il Tesoro della Certosa non fanno parte della nostra quotidianità, ma non sortiscono un effetto “straniante” al pari degli inopportuni tecnicismi medici, utilizzati ad esempio da Bazzi. I tecnicismi di Giovanni Nocella sono pertinenti al contesto narrato; non allontanano il lettore dal racconto, semmai lo avvicinano ancor di più.
Basta così, traiamo adesso le nostre conclusioni.

Il Tesoro della Certosa è un romanzo che merita una possibilità. Sarò sincera, non ve lo sto raccomandando senza riserve: contiene diversi errori grammaticali, probabilmente frutto di un editing distratto, che un pochino guastano l’esperienza di lettura. Ma se saprete chiudere un occhio e andare oltre, allora vi ritroverete fra le mani un romanzo frizzante, divertente… allegro, sì. E scritto anche con una certa competenza storica e narrativa. Insomma, un romanzo davvero niente male, il cui autore merita di essere incoraggiato. E se siete già lì per abbassare una palpebra… allora, vi auguro una buona lettura!

Sara

Ciao! Sono la fondatrice del blog letterario "Il pesciolino d'argento", amo profondamente i libri, l'arte e la cultura in generale.

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