Il mare delle illusioni – Sebastiano Martini
E ora, cosa aveva inceppato l’ingranaggio?
Mistero
Quando lo stress è alle stelle mi siedo, fisso il vuoto e penso che qualcosa nel mio progetto di vita deve essere andato storto. Che fare? Be’, il rimedio che mi propongo è drastico: cancellare, cancellare tutto, e ricominciare daccapo, altrove, questa volta prendendo le decisioni giuste.
In genere poco dopo mi rendo conto che non so affatto quali siano queste “decisioni giuste”, e che con ogni probabilità mi ritroverei fra qualche tempo esattamente nella stessa situazione in cui mi trovo ora.
Ma non è così per tutti. Qualcuno capisce che cosa c’è di preciso che non va nella sua vita, e si mette subito in moto per aggiustarlo. Sentiamo così storie di uomini e donne che hanno mollato il posto fisso per dedicarsi ai loro hobby, che hanno mandato all’aria un matrimonio per coltivare un nuovo amore, o che vendono la loro casa per acquistare un camper e viaggiare per il mondo.
Ecco, Il mare delle illusioni, di Sebastiano Martini, racconta una di queste storie.
Protagonista è Gregorio Boni, un uomo di quarantasei anni che ha a lungo lavorato nell’azienda di famiglia. Un giorno però Gregorio decide di lasciare tutto e di stabilirsi in un albergo di Viareggio, il Grand Hotel Principe di Piemonte. Sono molti a interrogarsi sulle ragioni di questa scelta a dir poco bizzarra, fra cui lo stesso proprietario dell’albergo, Valerio Pepe, che non riesce a capire perché Gregorio abbia scelto proprio il suo hotel: sarebbe stato molto più ragionevole affittare un appartamento e trasferirsi lì… E poi, perché Viareggio? Ci sono città marittime molto più belle.
A ogni domanda, Gregorio darà risposta soltanto alla fine…
Oh be’, bisogna proprio ammetterlo, Sebastiano Martini sa come catturare l’attenzione. Infatti l’autore ci incuriosisce mettendoci davanti a un personaggio che si comporta in maniera enigmatica e apparentemente irragionevole. Ciò può significare due cose: o il personaggio è matto, oppure… persegue obiettivi non banali e che dobbiamo scoprire. E poiché il nostro cervello ama cercare soluzioni e risolvere misteri, avvertiamo immediatamente l’esigenza di divorare Il mare delle illusioni fino alla fine.
Il mare delle… delusioni
Però, però… c’è un grosso problema. Vedete, Il mare delle illusioni è un po’ come una torta malriuscita. Avete presente, no? Le infili nel forno e all’inizio aumentano di volume, sembrano bellissime… ma dopo poco tempo, puff! Si sgonfiano, collassando su loro stesse.
Proprio come una di quelle torte, Il mare delle illusioni prima sembra promettere bene, ma poi si affloscia drasticamente.
Vediamo di scendere più nel dettaglio considerando la prima parte della trama, che va dall’inizio del racconto fino al momento in cui Gregorio svela la ragione che l’ha spinto a vivere nell’albergo di Viareggio.
Ebbene, questa porzione di trama racconta della quotidianità di Gregorio nell’albergo: si sveglia, sorseggia caffè, si veste, osserva gli altri ospiti, si esercita a backgammon… insomma, è una porzione di trama decisamente poco elettrizzante, povera com’è di eventi.
Per far sì che una simile trama risulti interessante, un autore ha due opzioni. La prima è fare del protagonista non un eroe attivo, ma un osservatore che permetta di sviluppare una “allodiegesi”. In questo modo la narrazione si concentrerebbe sulle esperienze di vita di altri personaggi, mentre il protagonista si limiterebbe a fungere da intermediario fra noi e quei personaggi, veri protagonisti della storia.
La seconda prevede invece di concentrare l’intera narrazione sull’interiorità del protagonista, dando così spazio più ai suoi pensieri che alle sue azioni.
Martini adotta entrambe le opzioni.
Iniziamo con il valutare il modo in cui l’autore mette in scena l’allodiegesi. Ci accorgiamo infatti che l’allodiegesi è parte del progetto narrativo di Martini da un brano in particolare:
[Gregorio] Scendeva verso le cinque di sera nella hall, si accomodava con un libro sui divani della sala d’attesa e si lasciava distrarre dal personale dell’albergo, dai clienti che andavano e venivano, ognuno con i propri vezzi, manie e indecisioni.
Si fermava a meditare sulle imperfezioni nei dettagli di quelle figure: un colletto alzato, lo sbavo di un rossetto nell’angolo della bocca, la scucitura della pelle di una Louis Vuitton, le scarpe impolverate sotto un abito fresco di tintoria. Le persone, per una ragione o per l’altra, erano tutte interessanti.
Da questo stralcio apprendiamo che Gregorio trascorre molto del suo tempo a osservare gli altri ospiti dell’albergo. E, badate bene, dico “osservare” non a caso. Il narratore parla infatti di “vezzi, manie e indecisioni”… lo notate? È un climax: il vezzo è un gesto abituale, la mania è un “vezzo” che tradisce una turba mentale, infine con il termine “indecisione” si abbandona del tutto la sfera della gestualità e si approda a quella squisitamente psicologica. In breve, il brano ci lascia intendere che il protagonista non si limita a registrare l’aspetto fisico dei passanti, e che anzi li studia fino a scoprirne i disagi emotivi. Tutto ciò ci è confermato dalla frase successiva, la cui parola chiave è senza ombra di dubbio “meditare”: Gregorio non guarda con distrazione, lui scruta, studia e riflette sugli individui che lo circondano.
Stando perciò a questo brano, ci aspettiamo che Il mare delle illusioni abbia in serbo per noi indimenticabili ritratti di uomini e acute riflessioni sulle loro esistenze. Ma… eh, l’autore non mantiene le sue promesse.
Certo, la voce narrante si sofferma spesso su alcuni avventori dell’albergo, però la sua è un’indagine del tutto superficiale, esattamente il contrario di quanto ci aspetteremmo di trovare. Ecco, guardate in che modo il narratore presenta un’ospite:
La donna non ci riusciva proprio a pronunciare una parola in una lingua diversa dal russo. […] Batteva i pugni sul bancone con le unghie affilate, smaltate di magenta, e pretendeva qualcosa di incomprensibile ad alta voce.
Gregorio stava a un metro di distanza dietro di lei, in attesa di prenderne il posto, e non poté fare a meno di esaminarla. Anzi, provava uno strano piacere a osservare tutti i dettagli sotto quel caschetto nero, perché aveva appena deciso di disporre di tutto il tempo del mondo.
Un corpo da venticinquenne, ma di cui stimò l’età effettiva sui quaranta. Un metro e ottanta con le Havaianas, tutta gambe; bianche, affusolate, muscolose il giusto. Un culo perfetto, avvolto in un pareo giallo scintillante di paillettes. La vita stretta a preannunciare una schiena esile e due enormi seni di silicone. Di plastica anche le labbra, gli zigomi e la fronte sebbene, tra il gonfiore, si intravedessero lineamenti regolari del viso e gli occhi azzurri.
La russa si rassegnò a non essere capita e si allontanò di scatto senza salutare, così Gregorio poté affacciarsi a uno dei due concierge.
Eh, lo vedete anche voi, il narratore si sofferma a lungo sulle caratteristiche fisiche della donna, valutandone la lunghezza delle gambe, la tonicità muscolare, la perfezione del “culo”. Ma nulla ci dice sulle sue “manie e indecisioni”, e neppure ci fa capire che Gregorio sta meditando sulle “imperfezioni” dell’ospite. Ad esempio, come mai il nostro non si domanda per quale motivo la donna si è sottoposta a innumerevoli operazioni chirurgiche, benché possieda “lineamenti regolari del viso”? Ad occhio, mi sembra che dietro a tante operazioni ci sia una mania ossessiva per la bellezza. E, se volessimo “meditarci” su, potremmo supporre che la donna soffra di dismorfofobia.
Insomma lettori, il materiale per imbastire un ritratto psicologico piuttosto accurato e per spingere Gregorio a una complessa riflessione c’è, eccome. E tuttavia Martini se lo lascia sfuggire.
Sciatteria o misantropia?
Ma andiamo avanti con un altro esempio. A un certo punto del romanzo, il narratore si sofferma su due odontoiatri che si comportano in maniera piuttosto irruenta:
I suoi occhi si sollevarono per una panoramica della sala. La poltrona e il divano, dove di solito si intratteneva con Valerio [proprietario dell’albergo] erano occupati da due odontoiatri sfuggiti, con la scusa di una pausa caffè, a un convegno sulle ultime tecnologie in materia di implantologia dentale. Ridevano senza riguardo verso gli altri, si muovevano come animali selvaggi in giacca e cravatta, mentre si passavano di mano in mano un video sul cellulare. Nodi troppo grandi, abbinamenti dei colori impossibili, taglie sbagliate. Tutto in loro appariva inadeguato.
[Gregorio] Uscì per respirare il profumo del mare […].
Di nuovo, il narratore descrive dei personaggi ma non prova a interpretarli. Ne descrive le imperfezioni, senza meditarci su. Eppure anche in questo brano c’è molto materiale da sfruttare per avviare una riflessione: se solo il narratore avesse aguzzato la vista, si sarebbe accorto che gli odontoiatri si comportano come due ragazzini. Questi infatti “marinano” la conferenza come due studenti farebbero con la scuola; indossano abiti eleganti ma in maniera sgraziata, come se ancora non si fossero abituati a portare qualcosa di diverso dalle felpe e dai jeans; e poi sghignazzano fra loro mentre guardano insieme qualcosa sul telefono, chissà, forse un meme o il nuovo video di un tiktoker. Un osservatore acuto, come si presume sia Gregorio, si sarebbe domandato come mai uomini adulti e affermati abbiano tanto bisogno di evadere dalla loro vita: il mestiere li ha delusi? Forse sognano di mollare la professione per diventare dei tiktoker?
Vedete che conferire una storia e una psicologia agli odontoiatri è piuttosto facile, e tuttavia, ne Il mare delle illusioni li vediamo liquidati con stizza, senza che nemmeno venga chiarito il perché della loro comparsa all’interno di questo romanzo. Sembrerebbe quasi che l’autore abbia introdotto questi personaggi soltanto per dare a Gregorio l’opportunità di disprezzarli e per mettere in luce la misantropia del protagonista. Ma una tale scelta narrativa non avrebbe alcun senso all’ interno di questo romanzo: abbiamo infatti letto che Gregorio trova le persone, “per una ragione o per l’altra”, “tutte interessanti”. E per di più in un altro passo del libro, in cui si racconta di come il protagonista si è ripreso dalla rottura di una relazione, viene espressamente detto che Gregorio ama e ricerca la compagnia di altri individui:
Non avrebbe più stretto relazioni sentimentali stabili, ma la voglia di Gregorio di stare con gli altri, di fare parte di un gruppo, non lo aveva comunque abbandonato del tutto. Aveva riallacciato i rapporti con un paio di ex compagni dell’università, con i quali condivideva l’interesse per l’arte, il cinema e la letteratura. Si atteggiavano a intellettuali […] per poi finire sempre a provarci con le ragazze sbagliate. In quegli anni pensava in ogni caso di essere felice e aveva smesso di autocommiserarsi.
In pratica Gregorio è un uomo socievole, che ama stare in gruppo e che riesce a superare la depressione grazie alla compagnia altrui: non ha nulla a che vedere con i misantropi.
Pertanto niente nell’opera giustifica l’atteggiamento ipercritico tenuto da Gregorio nei confronti degli altri personaggi. Con ogni probabilità, Martini aveva intenzione di sagomare un protagonista acuto e attento ai dettagli, ma lui stesso non ha prestato attenzione ai numerosi particolari significativi che ha sparso nelle descrizioni, finendo per non sfruttarli.
Diversamente diverso
In conclusione, sicuramente Martini non riesce a usare il suo protagonista come osservatore. Ma vi ho già anticipato che c’è un altro modo per rendere interessante una trama priva di eventi: l’introspezione, attraverso cui la trama si focalizza interamente sui sentimenti del protagonista, sui suoi ricordi e sulle sue riflessioni.
E però, mannaggia, bisogna dire che anche con l’introspezione Martini non se la cava benissimo. Prendete ad esempio il modo in cui l’autore racconta di un importante lutto vissuto in passato da Gregorio…
Era solo Gregorio, seduto a fianco del letto di ospedale dove Carlo Boni era stato ricoverato per una grave forma di polmonite, guardava il muro di nebbia oltre la finestra. Suo padre si era tolto l’erogatore dell’ossigeno per un momento, aveva raccolto le forze ed emesso un flebile suono di voce.
«Sono preoccupato per te.»
«Ma che dici papà, io sto benissimo.»
«Perché non sei come Massimo [fratello di Gregorio]?»
Gregorio non aveva replicato. Aveva rimesso la mascherina dell’ossigeno sul naso e la bocca di suo padre che, dopo pochi secondi, si era addormentato. Poi si era alzato in piedi e, guardandolo dormire, aveva risposto alla sua domanda.
«Io non sono come voi, papà, io sono diverso.» Gli aveva accarezzato la testa ed era uscito dall’ospedale.
Quando suo padre li aveva lasciati, la madre, invece, era ammalata già da alcuni anni di Alzheimer.
Ora, di per sé questo brano non ha nulla di particolarmente sbagliato. Racconta di un figlio che pare consapevole da tempo di essere oggetto della disapprovazione del padre, e che pertanto, quando il genitore lo rimprovera poco prima di morire, affronta la situazione con calma e fermezza, senza farsi assalire dalla frustrazione.
Il problema arriva più tardi, quando il narratore dice che Gregorio rimane scosso dal ricordo di quell’episodio:
Esaurito il ricordo Gregorio si scusò con Valerio. Non si sentiva tanto bene e doveva interrompere la partita, perché aveva bisogno di riposare.
«Proprio stasera che eri in vantaggio? Grego’ che ti succede?»
«Niente Valerio, sto bene, ho solo bisogno di dormire. Ci vediamo mercoledì prossimo.»
Da quest’ultimo brano deduciamo che Martini considera traumatico per il suo protagonista il ricordo dell’ultima conversazione avvenuta fra lui e suo padre. Ed ecco l’inghippo: Martini crede di aver reso drammatico un episodio che in realtà a noi non risulta affatto tale. Come già detto, Gregorio agisce con troppa fermezza per suggerirci l’idea di essere sconvolto dalle parole di suo padre; pare piuttosto che sia perfettamente preparato a quanto sta accadendo. Affinché potessimo intuire il suo trauma, Gregorio avrebbe dovuto mostrarsi sorpreso dalle parole di suo padre, avrebbe dovuto comportarsi in maniera irragionevole e poco assennata… come fa per esempio Zeno Cosini quando riceve il famoso “schiaffo” dal padre moribondo:
Con uno sforzo supremo arrivò a mettersi in piedi, alzò la mano alto alto, come se avesse saputo ch’egli non poteva comunicarle altra forza che quella del suo peso e la lasciò cadere sulla mia guancia. Poi scivolò sul letto e di là sul pavimento. Morto!
Non lo sapevo morto, ma mi si contrasse il cuore dal dolore della punizione ch’egli, moribondo, aveva voluto darmi. Con l’aiuto di Carlo lo sollevai e lo riposi in letto. Piangendo, proprio come un bambino punito, gli gridai nell’orecchio:
«Non è colpa mia! Fu quel maledetto dottore che voleva obbligarti di star sdraiato!».
Era una bugia. Poi, ancora come un bambino, aggiunsi la promessa di non farlo più:
«Ti lascerò movere come vorrai».
L’infermiere disse:
«È morto».
Dovettero allontanarmi a viva forza da quella stanza. Egli era morto ed io non potevo più provargli la mia innocenza!
Nella solitudine tentai di riavermi. Ragionavo: era escluso che mio padre, ch’era sempre fuori di sensi, avesse potuto risolvere di punirmi e dirigere la sua mano con tanta esattezza da colpire la mia guancia.
Come sarebbe stato possibile di avere la certezza che il mio ragionamento era giusto? Pensai perfino di dirigermi a Coprosich. Egli, quale medico, avrebbe potuto dirmi qualche cosa sulle capacità di risolvere e agire di un moribondo. Potevo anche essere stato vittima di un atto provocato da un tentativo di facilitarsi la respirazione! Ma col dottor Coprosich non parlai. Era impossibile di andar a rivelare a lui come mio padre si fosse congedato da me.
(La coscienza di Zeno, cap. IV)
Vedete? Zeno è evidentemente traumatizzato dalla disapprovazione di suo padre: urla, supplica perdono, va nel panico, rimugina, si domanda a chi può chiedere aiuto… Svevo ha dato largo spazio alla confusione e alla disperazione del protagonista, realizzando così un brano intenso, drammatico e introspettivo. Al contrario, Martini non dice una parola sul turbamento interiore provato da Gregorio, la narrazione si riduce a riferire quello che Gregorio fa (“[a]veva rimesso la mascherina dell’ossigeno sul naso e la bocca di suo padre che, dopo pochi secondi, si era addormentato. Poi si era alzato in piedi e, guardandolo dormire, aveva risposto alla sua domanda”, “[g]li aveva accarezzato la testa ed era uscito dall’ospedale”) e dice (“«Io non sono come voi, papà, io sono diverso.»”). Ne consegue che, agli occhi del lettore, la disapprovazione del padre sia per Gregorio pura routine.
Immagino già le vostre obiezioni: magari Gregorio effettivamente era abituato a sentirsi rimproverato dal padre, ragion per cui, sul momento, non si lascia sopraffare dallo sconforto come Zeno, e sviluppa solo con il tempo una sorta di disturbo post-traumatico.
Giusta osservazione… ma no, non funziona. Già, perché non c’è nulla nel romanzo che ci faccia pensare che Gregorio fosse la pecora nera della sua famiglia… tutt’altro!
[Gregorio e suo fratello] Si erano laureati entrambi in economia e commercio, con l’ammirazione del padre, che invece non si era potuto permettere un’istruzione superiore perché aveva dovuto far fronte ai bisogni di casa fin da giovane. […] Subito dopo il conseguimento della laurea i due fratelli avevano preso posto in azienda e manifestato forte interesse e dedizione all’impresa di famiglia che, per loro padre, rappresentava una ragione di vita.
Non c’erano invidie a separarli, nessuna gelosia o competizione. Erano semplicemente diversi, sia nell’aspetto sia nel carattere, nelle abitudini e nelle aspirazioni.
Massimo un vero imprenditore, meticoloso, lavorava senza mai guardare l’orologio. Poi andava a casa dalla moglie e dai due figli: cena, un altro paio d’ore di lavoro, letto e sveglia alle sei e trenta ogni mattina. Nessun interesse al di fuori dell’azienda, a parte una vaga passione per la politica e il calcio.
Gregorio invece leggeva libri di ogni tipo, se li portava anche in ufficio, cercava sempre di sponsorizzare mostre d’arte, eventi culturali, di declinare il dovere in creatività.
Eh! Qui l’autore dice chiaramente che il padre ammira entrambi i suoi figli per aver completato il percorso di studi. Oltretutto leggiamo che entrambi i fratelli si dedicano all’attività di famiglia, seppur occupandosi di mansioni diverse. Insomma, Gregorio non delude in nulla suo padre, e il padre ragionevolmente si mostra soddisfatto da Gregorio. D’altronde, che cosa volete che gliene importi al padre se Gregorio, nel suo intimo, ama più i libri dell’azienda? Finché non elude il dovere, ma lo “declina in creatività” non c’è nessun problema, anzi, tanto meglio, no?
E allora, perché mai il padre improvvisamente palesa insoddisfazione nei confronti di Gregorio sul punto di morte? E perché Gregorio non è sorpreso da questo rimprovero improvviso? E perché Gregorio asserisce con tanta convinzione di essere diverso da suo padre e da suo fratello? È “diverso” perché ogni tanto gli vien voglia di portarsi un libro al lavoro? Tutto qui?
Uhm… no lettori, non ci siamo proprio. Nel rapporto fra il protagonista e suo padre ci sono troppi elementi contraddittori e troppi buchi di trama. Francamente l’impressione è che Martini abbia voluto introdurre nel romanzo il tema del conflitto fra padre e figlio giusto perché dà subito l’idea di un romanzo “di spessore”, senza però preoccuparsi di affrontarlo con l’attenzione e la scrupolosità dovute.
Chi se ne frega di quello
Oltre al rapporto con il padre, anche quello con il fratello Massimo è trattato con scarsa cura…
Di Massimo, sappiamo infatti che è un uomo responsabile, un buon marito, un buon padre, un buon lavoratore, ligio al dovere. Ci viene anche detto che Massimo ha uno spiccato istinto di protezione nei confronti di Gregorio. La ragione? Quando aveva soltanto cinque anni, il nostro protagonista si è avvicinato troppo a una macchina da taglio per ceramiche, rimettendoci tutta la mano sinistra. Massimo era proprio vicino a lui, ma non ha fermato il fratellino perché, come tutti i quattordicenni, era un po’ distratto. In seguito il senso di colpa lo ha tormentato a lungo, facendolo sentire responsabile della disgrazia accaduta a Gregorio.
Questo è quanto sappiamo sul suo conto.
A un certo punto, però, Massimo sembra… cambiare.
Va a trovare Gregorio nell’albergo a Viareggio, e gli comunica che vuole separarsi da sua moglie, lasciare i suoi figli e la sua casa, delegare molto del suo lavoro in azienda al direttore generale, e viaggiare per il mondo in compagnia della sua nuova compagna, Silvia.
Insomma, Massimo va incontro a un cambiamento drastico. E, come ben sappiamo, i cambiamenti drastici suscitano molta attenzione e non poche domande. Ci domandiamo infatti che cosa possa aver spinto Massimo a rivoluzionare in tal modo la sua personalità. Una crisi di mezz’età? O forse è stata fin dall’inizio questa la sua personalità? È possibile che per tutti questi anni Massimo abbia indossato una maschera per farsi perdonare quel terribile incidente, che tempo fa ha deturpato Gregorio?
Ovviamente non mi aspetto che Gregorio dia una risposta a tutte queste domande, ma, dal protagonista di un romanzo come Il mare delle illusioni, mi aspetto perlomeno che queste domande vengano poste.
Invece, rimaniamo a bocca asciutta: dopo aver appreso i progetti di Massimo, Gregorio reagisce così…
Chi era lui per giudicare le scelte di suo fratello? Che ne sapeva di cosa significasse avere una famiglia?
Avrebbe potuto essere più comprensivo, avrebbe dovuto lasciarlo sfogare, forse aveva soltanto bisogno di una parola di conforto, di un appoggio morale. Ma lui non voleva saperle certe cose, non aveva nessuna intenzione di occuparsi delle questioni sentimentali di Massimo.
Era sicuro di conoscerlo davvero? Era la stessa persona con cui aveva passato l’infanzia, giocato da bambino, con cui aveva trascorso tutte le feste, condiviso le decisioni sull’azienda di famiglia e affrontato il lutto per la morte dei suoi genitori, ma ora non lo riconosceva più.
Distese le gambe sull’altra sedia di ferro battuto davanti a sé e si appoggiò allo schienale della sua. La temperatura risultava piacevole e non tirava un alito di vento. Le palme non dormivano mai, lo fissavano statiche, a ricordargli i suoi errori di valutazione e il fatto che la vita, nonostante l’età, non gli avesse insegnato nulla.
Ma… ma… ma porca miseria! Gregorio dice apertamente che non gliene importa un fico secco di quello che passa per la testa di suo fratello (“[m]a lui non voleva saperle certe cose, non aveva nessuna intenzione di occuparsi delle questioni sentimentali di Massimo”); trascorre giusto una manciata di secondi a interrogarsi sull’atteggiamento di Massimo e poi si rilassa a guardare le palme che lo circondano. Ma allora, se non importa al protagonista, perché mai dovrebbe importare a noi? Che senso può avere introdurre un personaggio e il suo drastico cambiamento se non ha effetti sulla trama, se al protagonista non interessa e se non dà luogo a una complessa riflessione? Mah, mi sembra un episodio pensato soltanto per allungare goffamente il brodo…
Un’altra opportunità persa…
E poi, c’è il backgammon, il gioco a cui Valerio Pepe inizia Gregorio. Il protagonista trascorre molto del suo tempo in hotel a esercitarsi, aspettando con ansia il giorno in cui riuscirà finalmente a battere Valerio, finora mostratosi un giocatore invincibile.
Devo ammetterlo, all’inizio ho trovato davvero niente male l’idea di rendere le partite il fulcro delle giornate di Gregorio. Infatti, il backgammon è un gioco pregno di simbolismo: per vincere, si richiede che il giocatore sappia ben combinare la strategia ai colpi di fortuna. E accidenti… se non è questa la metafora dell’esistenza!
Pertanto il gioco offrirebbe a Gregorio la possibilità di confrontarsi con Valerio riguardo l’effettiva capacità dell’uomo di arginare gli effetti della Fortuna, e quindi la possibilità di approdare a una filosofia che, a seconda delle conclusioni, potrebbe avvicinarsi a quella boccacciana, machiavellica o ariostesca.
Ma… no, ne Il mare delle illusioni non leggeremo nulla di tutto ciò. Le conversazioni tenute da Gregorio e Valerio durante le partite sono vacue, oserei dire “di cortesia”… e badate bene, non lo dico io, è la stessa voce narrante che lo precisa!
Così [Gregorio e Valerio] presero, settimana dopo settimana, a incontrarsi solo per giocare a backgammon. […] Di tanto in tanto alleggerivano la tensione del gioco con ancora qualche conversazione sulle rispettive città d’origine, sul lavoro e a volte sulla letteratura. Mai nulla di troppo intimo però, ogni divagazione dal gioco veniva gestita da Valerio e doveva restare su un piano di apparente superficialità. Nonostante questo, tra i due si creò una sorta di amicizia […].
In breve, anche il backgammon, insieme alla svolta di Massimo e agli avventori dell’albergo, non è sfruttato da Martini per sviluppare una riflessione più ampia, che vada oltre il mero accadimento.
E poiché Gregorio intrattiene con Valerio un rapporto dopotutto piuttosto distaccato, è decisamente curioso che il protagonista scelga di confidare proprio a lui il motivo del suo lungo soggiorno nell’albergo di Viareggio.
Certo, in qualche modo il romanzo doveva pur sbloccarsi e arrivare alla rivelazione finale… però, ecco, le cause della rivelazione devono pur essere plausibili: se Gregorio sceglie di aprirsi con Valerio, e non con qualcun altro, è perché solo Valerio è riuscito a ispirargli fiducia. Ma allora, perché non dare spazio nel romanzo all’evolversi di questa fiducia? Perché non mettere in scena una graduale apertura di Gregorio nei confronti di Valerio? Capite bene che la gradualità avrebbe reso il racconto più realistico, mentre invece il passaggio da conversazioni che non trattano “mai nulla di troppo intimo” all’aprire la porta del cuore è fin troppo brusco: lascia quasi intendere che l’autore abbia fretta di concludere…
Ma va bene, so già che non mi state seguendo più. Da quando avete letto “il motivo del suo lungo soggiorno” non state pensando ad altro, vero? Arriviamo al dunque, allora.
E se poi me ne pento?
Il motivo del lungo soggiorno di Gregorio è… una donna.
Già: durante un viaggio di lavoro, Gregorio ha incontrato una donna, Anna, di cui si è immediatamente e perdutamente innamorato. La sera stessa in cui l’ha conosciuta le ha chiesto di rivedersi, e lei gli ha dato appuntamento per il giorno dopo, a mezzogiorno e mezza. Dove? Be’, ma è ovvio: al Grand Hotel Principe di Piemonte.
Tuttavia, il giorno dell’appuntamento Anna non si è mai presentata, lasciando Gregorio solo e affranto. Sì, perché il nostro non ha nulla in mano per poter rintracciare l’amata: non un numero di telefono, un indirizzo, un’email o un profilo social. Perciò Gregorio non ha avuto altra scelta: deve alloggiare nel luogo concordato per l’appuntamento, sperando che prima o poi Anna riemerga dal mistero che l’ha inghiottita.
Bello, vero? Sì, sono d’accordo con voi, il finale è molto romantico. Però… eh, però anche qui c’è qualcosa che stona.
Riflettiamo un momento. Se Gregorio ha deciso di mettere la sua vita in “pausa”, trasferendosi a tempo indeterminato in un albergo, e lasciandosi tutti gli impegni lavorativi e gli affetti alle spalle, è perché l’incontro con Anna lo ha profondamente coinvolto, giusto? Avrà compreso che la sua vita non merita di essere vissuta se non può avere Anna al suo fianco, e che pertanto è meglio trascorrere il resto dei suoi giorni sperando che Anna torni a farsi sentire, piuttosto che riprendere la sua vecchia vita. Evidentemente Gregorio giunge a queste conclusioni perché ha ricevuto da Anna qualcosa di cui aveva bisogno, e che nessun’altra persona prima è riuscita a dargli. Ed ecco il problema: non è affatto chiaro che cosa abbia di speciale questa Anna. L’incontro fra lei e il protagonista è… meh, del tutto insulso. E per dimostrarvelo, ve lo voglio riportare per intero:
In mezzo a loro, una donna ballava tutta sola e attirava l’attenzione degli altri, soprattutto uomini. Si muoveva con grazia, a tempo, non si curava per niente degli sguardi curiosi e critici. Un vestito a fiori corto e troppo leggero per la brezza notturna le accarezzava le gambe nude […]. Danzava con le mani ad altezza della testa, come a voler udire l tintinnio dei braccialetti. I capelli castani […] indugiavano sulle labbra umide e piene.
Si fermò al cambio di pezzo, fece il gesto di raccogliersi i capelli per far prendere aria al collo e alzò gli occhi verso Gregorio. Gli sorrise […] mentre si dirigeva al suo tavolo, prima di sedersi davanti a lui e versarsi un bicchiere di vino.
«E tu? Che ci fai qui seduto?»
A Gregorio venne spontaneo ricambiare il sorriso e stare al gioco.
«Lo sai che non mi va di ballare, a me piace solo osservare.»
«Già, è vero, mi ero dimenticata, tu osservi. Ti do noia se mi fermo qui un po’ a osservare con te?» Si accese una sigaretta […] poi sorrise di nuovo e gli porse la mano. «Mi chiamo Anna.»
Ordinarono un’altra bottiglia di Vermentino e lei prese le redini della conversazione. Gli prestava tutta l’attenzione del mondo mentre lo interrogava sul suo stile di vita, il suo lavoro, il perché si trovasse Viareggio, in quel ristorante, da solo. Mostrava un curiosità sincera, non invadente, disinteressata a qualsiasi ipotesi di secondo fine, illazione che nella testa di Gregorio perse consistenza non appena si era formata.
Originaria di Lucca, aveva quarantatré anni e viveva con sua madre e Nicolò, il figlio di sei, nelle colline appena sopra Lido di Camaiore. Lavorava come sous chef di un rinomato ristorante in Versilia di cui però non volle svelare il nome. […]
Rimasero a parlare e bere vino finché anche l’ultimo cliente del bagno non se ne fosse andato. Il cameriere, già dismesso l’abito di servizio, avvisò che il locale doveva chiudere.
«Ti va di fare due passi sul mare?»
Gregorio ci pensò sopra. Da quanto non passeggiava sulla spiaggia con una donna? Non lo ricordava davvero.
«Assolutamente sì.»
Lei gli afferrò la mano con un gesto naturale e si incamminarono verso il buio […]. Lui si sentiva a proprio agio e aveva voglia di parlare. Ridevano e si prendevano in giro […].
Passeggiarono mano nella mano fino al molo […]. Si scambiarono ancora un sorriso con gli occhi, poi lei interruppe il breve silenzio con un’inattesa domanda.
«Sei nato così o è stato un incidente?»
«Un incidente, da bambino, colpa di una macchina industriale.»
«Quanti anni avevi?»
«Cinque. Sai una cosa? È come se quella mano io non l’avessi mai avuta. Non me la ricordo più.»
Lei gli accarezzò la testa e indugiò con il palmo sulla sua guancia, ma non commentò in alcun modo.
«Cazzo, ma che ora abbiamo fatto? Merda… sono le due, devo scappare a casa, domattina alle otto dobbiamo provare la nuova linea! Devo andare, Gregorio, scusa, prendo un taxi e mi faccio riportare alla macchina.»
«Ma… lasciami almeno il tuo numero, non ci rivediamo?
Lei gli prese la testa tra le mani e lo baciò con forza. Gregorio sentì la sua lingua avvolgente, ruvida, calda, staccarsi di colpo.
«No, non ti lascio il mio numero e se poi sei uno stalker… meglio di no. Hai detto che stai al Principe di Piemonte, no? Facciamo così, al massimo a mezzogiorno avrò già finito tutto, poi domani siamo chiusi. Ci vediamo domani alle dodici e trenta al bar del Principe! Adesso scappo. Ciao e grazie per il vino e per la serata!»
Lettori, lasciate che lo dica: MAH. Fra Gregorio e Anna non succede nulla che non succeda ogni volta che un uomo e una donna si piacciono: uno dei due prende l’iniziativa, l’altro ci sta, si inizia a parlare della propria vita, di dove sei, che lavoro fai, come mai da queste parti, si scherza su alcune sciocchezze, alla fine si cerca un contatto fisico.
Sul serio, non è altro che un banalissimo corteggiamento, e non si capisce perché mai Gregorio ne sia così entusiasta da indurlo a stravolgere la propria vita.
Oh già, probabilmente vorrete ricordarmi che Gregorio ha un’importante menomazione, a causa della quale forse non riesce ad approcciarsi con facilità al sesso femminile. In effetti, seguendo questo ragionamento, si capirebbe perché il protagonista rimanga folgorato da Anna, che non si mostra turbata dalla menomazione e che addirittura prende l’iniziativa per avviare una conoscenza: un uomo che non ha mai avuto successo con le donne, e che anzi è stato spesso rifiutato da loro, può vedere in un banale corteggiamento un’esperienza totalizzante.
Sì, ha senso, ma… eh, Martini non ha mai ritratto il suo protagonista come un incel! Al contrario, in un punto del romanzo l’autore precisa che la menomazione non ha impedito a Gregorio di avere una normale e più che appagante vita di coppia:
La menomazione di Gregorio lo aveva tormentato soprattutto alle scuole elementari e medie. […] Al liceo le cose erano cambiate […]. Erano arrivate le prime compagnie, gli amici, le fidanzate. Tutte più o meno amorevoli e comprensive all’inizio, ma, per un motivo o per altro, dopo tre o quattro mesi di storia, lo avrebbero lasciato.
Con Chiara no, con lei non era andata così. Si erano conosciuti il primo anno di università e la loro vicenda sentimentale era durata oltre ogni aspettativa. Cinque anni di viaggi, di scoperta del mondo, teatri, mostre, cene e week-end nelle città che non avevano mai visto prima. Parlavano di matrimonio, di figli, ma dopo la laurea […] i loro sogni si erano incanalati su linee rette parallele che non si sarebbero più incontrate.
In sostanza, Gregorio è un uomo che ha avuto normali esperienze di vita, a cui l’affetto e l’amore non sono mancati. Rimane perciò insoluta la questione: perché Gregorio perde a tal punto la testa per una semisconosciuta?
Non solo. Riflettendoci un po’, ci rendiamo conto che c’è anche un altro particolare che non ha senso: perché Anna non lascia un contatto a Gregorio? Oh, andiamo: approccia uno sconosciuto che la fissa, passeggia da sola in sua compagnia di notte e lontano da altre persone, lo bacia con passione, e poi… e poi non gli dà il numero di telefono perché teme che possa essere uno stalker?! Ehi, io capisco che la trama aveva bisogno che Gregorio non avesse il numero di Anna, altrimenti al nostro non sarebbe mai venuto in mente di attendere per mesi l’amata nel luogo in cui si sono dati appuntamento, e di conseguenza la storia non avrebbe mai avuto inizio… ma l’autore avrebbe dovuto pensare a una spiegazione ragionevole. Questa, ad esempio: Anna, coerentemente con l’atteggiamento tenuto durante la serata, dà il suo numero a Gregorio, e poi, giacché è di fretta, scappa via senza registrare sul suo cellulare il numero di lui, ma non prima di avergli raccomandato di arrivare puntuale all’appuntamento dell’indomani.
Travolto dall’euforia, Gregorio decide di calmarsi facendo un bagno in mare. Si toglie al volo i vestiti, li adagia alla bell’e meglio sulla sabbia e si tuffa nelle acque d’inchiostro. Terminato il bagno, però, si accorge che qualcuno ha approfittato dell’oscurità per derubarlo: nelle tasche dei pantaloni non c’è più il portafoglio e, soprattutto, non c’è più il cellulare. Il numero di Anna è andato perso.
Vedete che con questa successione di eventi si gettano le fondamenta della trama (il protagonista non può contattare la donna amata, perciò è costretto ad aspettare che sia lei a farsi viva), senza però costringere i personaggi a comportarsi in maniera incoerente. Affinché una storia funzioni, è necessario che l’autore pensi in maniera maniacale a ogni singolo dettaglio, in modo che nulla comprometta il delicato meccanismo della diegesi. Martini invece, benché abbia sicuramente buone idee, fatica parecchio a prestare attenzione a tutti i particolari della trama, realizzando così una storia che spesso e volentieri si inceppa.
S’impegna, ma…
Per quanto riguarda lo stile, invece, mi sento di lodare almeno lo sforzo: si vede che Martini si è impegnato per mettere a punto uno stile elegante e per prendere le distanze da schifezze come Sembrava bellezza. Talvolta però, bisogna ammetterlo, il risultato è un po’ goffo, come in questo caso…
Lui scostò di scatto il proprio campo visivo e lo indirizzò verso un punto indefinito della sala […].
Leggendo questo passo, devo dire che mi è scappato un sorriso. Sembra quasi di leggere la ricerca di un liceale che vuole fare colpo sul professore, e che allora cerca di sostituire tutti i termini di uso comune con sinonimi ed espressioni improbabili: oh, avanti, “campo visivo” al posto di “sguardo” non rende lo stile più ricercato! Serve soltanto a farci capire che l’autore si sta sforzando oltre ogni dire di non adeguarsi al linguaggio comune, arrivando perfino a preferirgli tecnicismi che però sono del tutto fuori luogo.
Ma lasciamo perdere queste pecche stilistiche, dopotutto piuttosto trascurabili. Meritano invece più attenzione e una critica più severa i dialoghi… Prendete questo brano, in cui Massimo comunica a Gregorio i suoi piani per il futuro:
[Parla Massimo] «Certo che è proprio bello qui. Non è che per caso c’è di mezzo una donna in questa tua decisione?»
«Ma smettila, non dire sciocchezze, quale donna… Io adesso dovrei andare, ci siamo detti tutto, no? Sei più tranquillo ora che mi hai visto?»
«No, non ci siamo detti tutto. Almeno io non ti ho detto tutto. Il motivo per cui sono venuto qui è anche… un altro.»
«Cosa c’è ancora?»
«Non è facile per me e allora te lo dico e basta. Io e Claudia ci siamo lasciati. Abbiamo l’udienza di separazione lunedì prossimo.»
«Dai, non scherzare Massimo, non ho voglia di cazzeggiare.»
«Guardami in faccia, non sto scherzando.»
«E per quale ragione? E i ragazzi?»
«Non funziona più e i ragazzi ormai sono grandi, lo sai. Uno fa un master a Milano e l’altro da settembre inizierà a lavorare in azienda.»
«Cosa significa non funziona più? Siete sempre andati d’accordo tu e Claudia.»
«Mi sono innamorato, Greg. Non so come sia successo ma è successo. Una donna stupenda, non posso perderla.»
«Dici sul serio? Alla tua età?»
«Sì, alla mia età. Perché non ho diritto a rifarmi una vita a cinquantasei anni? Lunedì mi separo. Ormai è deciso. Me ne vado di casa, mi sembra la cosa più giusta.»
«Rifarti una vita? Io mica lo sapevo che la tua vita non ti andasse bene.»
«Ma che ne sai tu. E poi sì, hai ragione, io e te di certe cose non ne abbiamo mai parlato. Non sono mai stato capace di dirti tutto, ma adesso è diverso. Sono un altro uomo. Dimmi che non mi giudichi, dimmi che sto facendo la cosa giusta.»
«Cosa vuoi che ti dica Massimo, ci avrai pensato bene. Saprai quel che fai. Mi hai lasciato senza parole.»
Sono sicura che l’avete notato anche voi: si tratta di un dialogo estremamente innaturale.
Nessuno parla così. Quando una persona ci dice qualcosa, soprattutto se si tratta di un’importante confidenza come quella che Massimo fa a suo fratello, ci prendiamo qualche secondo per elaborare l’informazione e per valutare la risposta più giusta da dare. Inoltre quando siamo sbigottiti, come lo è Gregorio in questo dialogo, cerchiamo nel viso del nostro interlocutore le prove della sua sincerità: ne scrutiamo gli occhi, gli angoli della bocca, i minimi movimenti dei muscoli facciali per capire se dobbiamo prendere sul serio quanto ci sta dicendo. Insomma, le conversazioni, soprattutto quelle lunghe e importanti, sono piene di pause e di esitazioni, che in letteratura lo scrittore rende attraverso le descrizioni. Invece, questo dialogo è praticamente un “botta e risposta” fra gli interlocutori, che scorre fin troppo velocemente e non lascia spazio all’analisi delle espressioni facciali, dei tic, dei gesti. Il risultato? Si ha l’impressione che a parlare siano due automi, che non hanno bisogno di riflettere su quanto dicono perché ci ha già pensato chi li ha programmati: la conversazione è così artificiosa, apatica, incapace di coinvolgerci.
Bene, abbiamo detto abbastanza, avviamoci alle conclusioni. È chiaro: Il mare delle illusioni non è un romanzo ben riuscito, non si può proprio dire il contrario. Però… ehi, sapete che c’è? Io una piccola lancia a suo favore mi sento di spezzarla. Perlomeno, Il mare delle illusioni non è l’ennesimo romanzo italiano che parla di presunte famiglie disfunzionali. Perlomeno, l’autore non si adegua allo stile sciatto in voga di questi tempi, e tenta di mettere a punto uno stile aggraziato. Perlomeno, abbiamo fra le mani un romanzo diverso, un tentativo di proporre qualcosa di nuovo e non la solita minestra riscaldata e ammuffita. Ecco, penso che questo meriti un plauso. Perciò, nonostante tutto, vi consiglio di dargli un’occhiatina. E se deciderete di leggerlo, vi auguro già da ora una buona lettura!
Un progetto iniziale che secondo me avrebbe avuto delle potenzialità ma che è stato realizzato male. Fossi stato l’editor, avrei provato a dirigere l’autore verso altre soluzioni. Ad esempio, l’espediente del protagonista che vive in albergo non si sa per quale motivo non funziona perché, quando il motivo viene rivelato, è piuttosto banale e anche inverosimile. Sarebbe stato meglio, secondo me, chiarire subito il motivo iniziale per cui il protagonista è in albergo e centrare la narrazione non sul perché rimane lì ma sul perché non riesce ad andare via. Per capirci: il protagonista rimane un giorno in albergo per attendere una donna che non si presenta e poi, senza averne chiaro neppure lui il motivo, rimane un altro giorno e poi ancora un altro. A quel punto il lettore lo accompagna nel suo percorso di (auto)scoperta, attraverso le partite a backgammon con il direttore, il rapporto col fratello ecc. ecc. Strutturato così mi avrebbe interessato, mentre invece la lettura mi ha lasciato solo un grosso boh.