Il cognome delle donne – Aurora Tamigio
[…] non faceva altro che parlare delle minne di questa e di quella […].
I cognomi delle donne sono belli
Che pizza. Ogni giorno sento solo parole d’odio: i “porci sionisti” vogliono fare la pelle agli “animali umani” palestinesi, e viceversa. I “tagliagole” dell’ISIS vogliono uccidere gli “sporchi maiali” europei, e questi ultimi… uh… be’, non so, vogliono baciare i primi, o non far loro niente, non mi è chiaro. I “fascisti” al governo ce l’hanno con i “piddini di merda”, ricambiati (almeno a favor di telecamera). Senza contare poi che tutte queste categorie vogliono spremere, torturare e tormentare lo “sfigato”, il “coglione”, insomma il probo cittadino che osserva la legge, tiene pulito sé stesso e l’ambiente, contribuisce al benessere della società. Io e voi, ecco.
Non mi piace, ho bisogno di conforto. Ah, via l’odio, mi servono le parole del Poeta:
i nomi delle donne
sono belli
[…]
Elena Francesca
Annamaria
[…]
(Poesie del tempo stretto, F. Carofiglio)
Grazie Frank, grazie. La tua saggezza à la Ralph Winchester mi tira sempre su. E sai che c’è? Mi hai dato un’idea. Ho per le mani un libro che è proprio in tema con i tuoi immortali versi. No, no, non proprio di nomi si parla, come si potrebbe? Dopo il tuo immenso canto sarebbe imbarazzante anche solo ardire di provarci. Però, ehi, le donne hanno nomi… e cognomi: e poiché dei secondi non hai detto niente, voilà, ci ha pensato qualcun altro.
Una certa Aurora Tamigio per la precisione. Per l’appunto, il suo romanzo d’esordio si intitola… eh… Il cognome delle donne. E, con una verve artistica che non sfigura affatto dinanzi alla creatività di Carofiglio il Vate, la nostra autrice ci cattura, portandoci alla scoperta di un percorso mistico e filosofico che si addentra in una densa trama metafisica… oh no, meeeeerda! Ma è di nuovo una saga famigliare ambientata in Sicilia?! Non ce la posso fare…
Vabbè, riassuntazzo. Il cognome delle donne inizia istruendoci sulla storia di Rosa, una ragazzina della Sicilia bedda, yu-uuuh! Rosa vive con suo padre e con i fratelli, tutti violenti e maneschi, perché, ehi avete capito?, siamo in Sicilia! Insomma, la povera subisce, subisce e subisce… e subisce e subisce… e subisce, fino a quando incontra un uomo, già famosissimo come “l’uomo che si chiamava Sebastiano Quaranta”, chiamato Sebastiano Quaranta. Essendo questi un bel manzo, probabilmente un corrispettivo non gay di Gabriel Garko de L’onore e il rispetto, Rosa si innamora istantaneamente. I due mettono in atto la classica fuitina e si sposano, dopodiché fanno sesso, con conseguente nascita di prole. Ah, e poi aprono un’osteria.
Tutto fantastico, però quel pallemosce di Mussolini rovina tutto scommettendo sulla squadra perdente. Eggià, arriva la Seconda Guerra Mondiale. Arriva questa e Sebastiano se ne va. Cioè, se ne va dal mondo dei sani di testa. Che ci vuoi fare? Rosa, che evidentemente è un cuore di pietra e pensa solo ai cacchi suoi (eccerto, è siciliana, lo sapevate?) grossomodo fa spallucce e continua a lavorare per nutrire i suoi piccoli: Fernando, Donato e Selma. In origine Fernando doveva chiamarsi Patty e Donato Marge, ma questa è una storia segreta che vi racconterò un’altra volta. D’accordo, allora i tre bambini crescono, perché mangiano: crescono talmente tanto, che a un certo punto dicono a Rosa “salutame a’ soreta” (sì, lo dicono tutti, e con accento romanesco) e se ne vanno ognuno per la propria strada.
Ora, il titolo è Il cognome delle donne, perciò di Fernando e di Donato non ci frega un cazzo: noi vogliamo vedere che fa Selma, e con “noi” intendo Aurora Tamigio. Selma si innamora di Santi, un belloccio perdigiorno da poco arrivato in paese. Diciamocelo, a Santi non è che piaccia granché Selma (strano… quella figura bidimensionale, quei capelli violetti, quegli occhi enormi a palla, quella pelle giallo fluo e quell’alito che sa di nicotina…), è più attratto dalla fruttuosa osteria di Rosa. Ah, avevo detto che Selma andava “per la sua strada”? Sì, volevo dire che comincia a pensare ai cacchi suoi, non che smette di mungere la madre. Uff, stesso copione: dal matrimonio di Santi e Selma (eh, eh, eh, “Santi e Selma”… funziona anche così) nascono tre bambine, Patrizia, Lavinia e Marinella, le quali ben presto si trovano costrette a badare a loro stesse…
Regime menarchico
Va bene, mi fermo lettori. Uhm… potete scegliere fra tutta l’analisi e il giudizio sintetico. Ah, avete scelto il giudizio sintetico: bene, avrete comunque l’analisi, dopo. Allora, com’è in breve Il cognome delle donne? È un du’ cojoni.
E non per le oltre quattrocento pagine di cui è composto… pagine che comunque non è che abbiano aiutato… è un du’ cojoni più che altro perché oltre alla solita saga siciliana c’è anche la solita minestra narrativa. Aridaje con il Novecento, aridaje con i terroni focosi, aridaje con ’ste cazzo di donne.
Ehi, calma: sono nata nel Ventesimo secolo, sono terrona e sono donna, posso dire quello che mi pare, oh! Uff, sì, sì, ho capito l’antifona, è meglio che mi chiarisca come si deve, o i giornali nostrani faranno comunella e mi eleggeranno uomo nero (o “donna di colore”?) al posto di Putin e di Hamas. No, per principio non ho niente contro i romanzi aventi le donne per protagoniste e ambientati nel Meridione del Ventennio. Come potrei, in particolare, sentir prurito alle mani per l’elemento femminile? D’altronde, alcune fra le migliori opere di tutti i tempi parlano proprio di donne: Madame Bovary, Anna Karenina, Tristana… insomma, i romanzi sulle donne sono una bella cosa, no? Lo sono davvero, e lo so molto bene.
Epperò, porcaccia lammerda, ultimamente si scrive sempre delle stesse donne, e pure allo stesso modo! Vi dirò, giusto per darvi un esempio concreto: la Tamigio a un certo punto si compiace di sviluppare una specie di duo strizzamaroni, formato dalle già citate Patrizia e Lavinia. Ecco, la prima è una testa calda, l’altra invece è più docile e remissiva. Che novità, meeeeenghia! Sono Bianca Maria e Gianna, le sorelle di Chi dà luce rischia il buio, però con un altro nome (e non marchigiane)! A maggior ragione se consideriamo che Patrizia, proprio come il suo doppelgänger ciarapichiano (o “ciarapicchio”?) studia in un collegio di suore. D’accordo, forse era effettivamente molto comune in passato (pure mia suocera ha studiato dalle suore, ancora negli anni Settanta-Ottanta, più di un decennio dopo Patrizia), però… l’abbiamo già letto! Non è che magari… forse… si potrebbe… eh? Che?! Esplorare scenari più “esotici”? Ma mi faccia il piacere (me lo dico da sola)!
Uhm, obiettate che non è poi chissà che questa storia del duo e delle suore. È materiale un po’ trito, però non guasta troppo l’appetito. Se lo dite voi. Il fatto è che c’è ben altro. Avete mai sentito parlare del menarca? Spero di sì, anche se siete uomini. Ecco… diciamo che non è un evento poi così interessante, no? Certo, può sempre essere usato in un’opera letteraria come elemento simbolico o come elemento “crudista” in senso lato, però, convenite, nella maggior parte dei casi ha poco senso dedicargli pagine apposite. No. NO!
Forse perché timorose che noi, il pubblico, potremmo non capire che un personaggio femminile, che ha un nome femminile e che poi partorisce come una femmina umana, è una donna, le autrici di oggidì trovano assolutamente necessario mettere la loro arte al servizio del menarca. La nostra Tamigio, va da sé, non ci pensa nemmeno a sottrarsi.
To’, invece di fare ulteriori parole, vi trascrivo direttamente che cosa racconta Il cognome delle donne, aggiungendo due brani di altrettanti romanzi, per un confronto:
Selma non aveva capito il senso di quella domanda, non del tutto almeno. Aveva risposto con calma e sincerità, come faceva sempre. “Mi sono svegliata nel letto tutto pieno di sangue. La pancia mi faceva male da morire. Così siamo venuti dal dottore.” […] Sotto la coperta, il sangue di Selma era incrostato dall’inguine fino alle caviglie, in due strisce secche e rosse, che parevano ancora più rosse perché Selma aveva la pelle diafana.
Lei osservò le mie gambe e guardai anche io: c’erano graffi su tutte e due le ginocchia, ma tagli no. Mi chinai e poggiai una mano sulle caviglie, risalii su per le cosce, seguendo il filo di sangue fino all’elastico delle mutande. Poi tirai via il palmo e vidi che era rosso, come di succo d’arancia. Un succo denso e scuro, ma senza l’odore di agrume. Mi sono fermata a parlare con quell’uomo e mi sono ammalata, pensai tra me.
(Oliva Denaro, Viola Ardone)
Mi sollevai. Qualcosa di scuro mi si era appiccicato alla coscia e colava giù in una riga nera, sottile. Pensai a un’alga, un’erba molle del fondale e allungai una mano per tirarla via.
Ma nel toccarla mi accorsi che le mie dita erano rosse e lucide di sangue. […] Me ne stavo ferma: grosse gocce mi scivolavano sui polpacci e cadevano sui ciottoli rimanendo lì, scure come le monete di rame che Carla ammonticchiava sul tavolo della cucina prima di uscire a comprare il pane.
– Sto morendo, – urlai. […]
Premetti le mani in mezzo alle gambe, schiacciai forte per cercare di fermare il sangue.
(La Malnata, Beatrice Salvioni)
Oliva Denaro mi era piaciuto, e non ho cambiato idea, puntualizzo. Nondimeno, vedete da voi: è sempre la stessa solfa, non si scappa. Sì, ho affermato poc’anzi che il menarca può essere un legittimo “device” letterario, e posso comprendere il motivo: dopotutto, si tratta di un momento di passaggio più o meno ritualizzato, e la naturale presenza del sangue che ne fa un evento particolarmente “primitivo”, violento… suggestivo, in breve.
Tuttavia, ribadisco, è UN evento, e, per quanto notevole, perché dovrebbe essere d’ufficio privilegiato rispetto a, che so, la prima volta che ci si cucina un pasto, la prima volta che si vede un cadavere, o la prima volta… e basta? Rispondete voi, dipende dal contesto: se la trama è abientata ai giorni nostri, in effetti è bizzarro calcare sul menarca, che ha praticamente perso d’importanza per una ragazzina. Se la trama bazzica un cent’anni fa, invece, la musica cambia, specie se poi lo spazio è quello della Sicilia (perché la Sicilia è stata e sarà sempre arretrata, superstiziosa e abitata da cavernicoli: non lo dico io, lo dicono gli studi scientifici su cui si basano le saghe famigliari contemporanee™). Sentite, vi va bene che non la pensate davvero così e una simile opinione ve l’ho messa in bocca io: perché altrimenti avrei proprio dovuto dirvi che è ’na cazzata. Anche se un elemento è molto in linea con un certo contesto ed è pure (almeno un poco) suggestivo, ciò non implica che debba essere inserito a occhi chiusi nella storia. Bisogna sempre valutare con attenzione l’opportunità di inserirlo, e nel calcolo è bene includere anche elementi extranarrativi, come… uh… il fattore di “shock” sul pubblico, o l’attuale originalità dell’elemento stesso.
Appunto, come avete potuto constatare, se il menarca (o qualunque altra cosa) comincia a comparire un po’ troppo spesso nelle nuove proposte di lettura, che senso ha riproporlo? Il rischio di far sembrare il proprio romanzo una “cheap imitation” di prodotti che già di loro sono al livello discount (no, dai, un bacio a Oliva Denaro) è praticamente al 100%. A maggior ragione se poi l’imitazione è decerebrata, e comprensiva dei difetti che rendono il prodotto originale una mezza ciofeca: dico, già non è che ci sia proprio da essere entusiasti per la descrizione della passera stile “ascensore di Shining” regalataci da Oliva Denaro e da La Malnata, era davvero imprescindibile che Il cognome delle donne rimasticasse la stessa immagine? Oltretutto, se le strisce di sangue mestruale sono ormai “secche”, saranno nere, o al più marroni, non “rosse”.
Era stata una cosa epica
Dai, avete afferrato il concetto, passiamo oltre. È chiaro che Il cognome delle donne è qualcosa da cui tenersi alla larga se si ha voglia di un po’ di novità. Ma, ehi, magari voi non avete affatto voglia di novità. Magari la vostra vita è di suo imprevedibile e piena di colpi di scena, perciò quando prendete in mano un romanzo, volete respirare un po’ di sicurezza, volete essere certi che almeno durante la lettura nulla possa cogliervi di sorpresa. No, no, sono seria: la vostra blogger preferita è una pantofolaia, un’amante della routine, un’ansiosa doc (e per “doc” intendo “disturbo ossessivo compulsivo”), una fottuta paranoica coi nervi a fior di pelle. Posso ben capire il voler chiudere un occhio sulla banalità dei topoi de Il cognome delle donne. C’è sempre il suo più ampio contenuto, del resto. E per quanto le mie parole fin qui non lascino ben sperare, oh, si sa mai, a un’analisi più attenta… magari… eh.
“Eh” un cazzo! Il contenuto de Il cognome delle donne è un gran mistero: non si capisce mica di che cosa vuol parlare il romanzo.
La saga siciliana, ho detto, d’accordo, però, almeno stando al titolo, mi aspettavo che la Tamigio qua e là mi raccontasse di femminismo, di lotta al patriarcato, di stereotipi di genere… quella roba lì. In fin dei conti, il cognome è un’eredità patrilineare, perciò Il cognome delle donne, di suo, dà come aspettativa… uhm… una storia in cui le donne si impossessano di qualcosa che non è mai stato loro? Boh, potrebbe essere. E, in effetti, l’autrice stessa fa notare in un’intervista che “lungo la loro storia le donne sono costrette a liberarsi di tante cose”; non solo, a detta sua basterebbe osservare “tutte le volte che [le donne] si sono dovute liberare di qualcosa o alle quali è stato sottratto qualcosa per capire che forse… eeeeh [sic]… se oggi noi possediamo qualcosa o magari se non lo possediamo è anche perché qualcuno prima di noiiii [sic]… mhmh [sic]… non l’ha avutoooooo [sic] magari invece se l’è tenuto con le unghie e con i denti per potercelo… dare poi adesso”.
Vabbè, la Tamigio non è proprio amica dell’ars oratoria, però il succo del suo discorso è intuibile: le donne hanno combattuto, le donne hanno lottato, le donne hanno fatto, le donne hanno ottenuto…
Sono nel giusto, quindi, se mi aspetto che Il cognome delle donne parli di rivalsa femminile e di come il ruolo della donna nella società sia radicalmente mutato proprio a ridosso della guerra e della nascita della Repubblica, no?
“No”, ho anticipato. Non c’è niente del genere.
Le conquiste del femminismo novecentesco, postbellico. Eh. ’Ndo stanno?! A eccezione del referendum istituzionale del ’46, la Tamigio sostanzialmente sorvola su tutto il resto. Non è possibile trovare, che so, un accenno alla legge Merlin, all’introduzione del divorzio, all’abolizione definitiva del matrimonio riparatore, merito di Franca Viola. Di quest’ultima, in particolare, mi ha spiazzato l’assenza. Cioè, da un lato mi sono sentita sollevata, perché già si parla di lei in mille altre pubblicazioni, ma dall’altro… insomma, scrivi un romanzo femminista, che attraversa il Novecento, con trogloditi siciliani (perché la Sicilia è arretrata, ve l’avevo già fatto notare?), e non ci metti nemmeno una mezza menzione a Franca Viola? Oliva Denaro li aveva i riferimenti al matrimonio riparatore, che tu no?
Nah, sticazzi. La Tamigio ha pensato bene di dedicarsi a narrare i mondiali del 1982: cioè, nun je se pò dar torto, che voi mette ’a coppa con una ragazzina che, appena ’n anno prima, c’ha solo scosso e svecchiado ’a sogedà? Ecco, appunto…
[…] la prima partita dell’Italia ai mondiali di Spagna non era stata niente di che: 0 a 0, nessun gol. E anche quattro giorni dopo, contro il Perù, l’Italia aveva fatto schifo: certo, Bruno Conti aveva segnato un gol […] ma le prestazioni della Nazionale non accennavano a migliorare.
La quarta partita era stata il 29 giugno […] l’Italia aveva vinto 2 a 1 contro l’Argentina e persino Marinella, che non ne capiva niente, aveva inteso che era stata una cosa epica, con cartellini gialli e rossi, Tardelli che trionfava su Maradona […].
Eh, LOL, bella telecronaca, proprio avvincente.
C’è (sup)posta per… noi, purtroppo
Che poi, parliamoci chiaro, di là dall’interazione fra personaggi ed eventi storici, pure le interazioni fra i personaggi stessi non mi hanno mai dato l’idea di leggere un libro sulla condizione femminile. A un certo punto, vi svelo, la trama si riduce a una demonizzazione di Santi, che certamente è un uomo cattivo perché… ehm… be’, perché dopo essere rimasto vedovo, sposa un’altra donna e smette di prendersi cura delle figlie. Ah, capirai, ma questa è la classica “faida siciliana” (segnatevelo: in Sicilia il calendario è fermo al Medioevo), pilastro di C’è posta per te, insieme alla “rissa napoletana”, alla “minaccia calabrese” e al “tradimento pugliese che infanga la tradizione giuridica della Puglia, fregiantesi di figure del calibro di Aldo Moro”!
Occhei, è uno spunto comparabile alle sfoglie pronte che pubblicizzava Bastianich. Ehi, non è ‘sto granché, però si possono fare dei piatti commestibili, talvolta anche buoni; e vi confesso che a fronte dello sbatti dell’originale “fatto in casa”, io cedo sempre alla sfoglia pronta. Pertanto, mi sono un tantino rilassata, coltivando sentimenti positivi per la nostra autrice. Insomma, ho ripreso a convincermi che… che niente, avrei tanto voluto leggere uno sviluppo diverso da quello che ho poi effettivamente letto. Sad reacts only.
Il problema non è tanto nella struttura dell’episodio “faida siciliana”, è che… oh, al diavolo, per spiegarvi cosa intendo, vi invito a fare un passo indietro, lasciando un attimo da parte Santi. Tenete a mente quel che fa Sebastiano all’inizio del romanzo: essendo un velleitario e rozzo maschilista (ossia un siciliano, perché la Sicilia…), gli viene sì il ghiribizzo di gestire un’osteria, e quando si ricorda che non sa cucinare, ecco sbologna la grana a Rosa, la quale si trova sulle spalle un impegno gravoso, e per di più con un bambino piccolo da accudire…
[…] Bastiano era venuto a dirle che di fare il contadino si era stufato e che aveva avuto un’idea nuova. C’era questo vecchio fienile a due piani, nel paese, da sistemare. Bastiano lo aveva mostrato a sua moglie e a Nando, che ciucciava il dito in braccio alla madre. “Se vendo le terre e lo sistemiamo, diventa un’osteria dove la gente viene per mangiare e bere. Ti piace se ci apriamo un posto così? Tu devi cucinare, al resto ci penso io.”
[…]
Dopo le prime settimane, Rosa si era persuasa che cucinare fosse la parte più faticosa del lavoro, ma non la più difficile. Aveva dovuto imparare molte altre cose, dal momento che Sebastiano a fare l’oste non era troppo portato. Era allegro, questo sì, e suonava l’armonica come un musicante di professione. Ma Rosa cucinava, rassettava, puliva e in più contrattava con i contadini che, dalla campagna, portavano le uova, il latte e le cose dell’orto. Tagliava la legna. Pagava gli operai che sistemavano le travi del tetto.
Be’, dai, è dopotutto una situazione plausibile, e perfettamente lineare. Bene, torniamo adesso a Santi. Che fa lo stronzone, prima ancora di risposarsi? Semplice: siccome è un uomo molto cattivo, usa il denaro di sua moglie per acquistare in città (mi sa Palermo, anche se non viene mai nominata) una casa e un esercizio commerciale. Poi però non è capace di gestire il negozio, e Selma è costretta a prendere in mano la situazione…
Ci aveva messo poco, Santi, a scoprire che non bastava essere gentili e simpatici per mandare avanti un’attività. […] E, come se non avesse fatto mai altro nella vita, Selma si era appropriata del banco di marmo, su cui stava un tagliere di legno e un grosso coltellaccio affilato: aveva tagliato il pecorino, lo aveva avvolto in una carta lucida e appoggiato sopra la bilancia di alluminio. […] [I]ntanto, Selma aveva venduto una fetta di pecorino, un’altra di caciocavallo piccante, una treccia d’aglio rosso, un barattolo di pomodori secchi e una scatola di Citrosodina. […] Nel giro di qualche giorno Santi aveva dovuto ammettere che la drogheria si riempiva come non era mai successo, e così Selma ne aveva preso rapidamente possesso.
Capite dove voglio arrivare, no? Si ripete costantemente lo stesso schema: il capofamiglia prende una decisione, la decisione si rivela una decisione del cazzo, la donna deve sgobbare e sobbarcarsi di tutti gli oneri per mantenere in piedi la baracca. Tutto qui? È questa la difficile vita della donna, è sempre e solo questo che deve patire, di generazione in generazione? Non so voi, ma secondo me se si vuole parlare di malefatte “patriarcali”, o anche solo di sopraffazioni domestiche, di spunti ce ne sono a iosa, validi ieri come lo sono ancora (che bello, eh?) oggi.
In realtà no, non è tutto lì. Mi pressate, volete le sfide del patriarcato, sapete che ci sono, è colpa mia che sono di parte. Ah, le volete?! Ve le do io allora delle belle grane maschiliste.
L’istruzione della donna. Classicone: il maschio bianco etero che incatena la fanciulla, che non le permette di elevarsi, che non coltiva l’intelligenza femminile. Potrebbe mai mancare in un’opera sulle donne e sulla loro liberazione? Ovviamente no, e infatti stavolta abbiamo… Patrizia! Che ama sgobbare sui libri, yeeeh! Ma suo padre, sempre il cattivissimo Santi, ritiene che studiare sia inutile per una femmina (è un vero siciliano, nessun dubbio). Guardate:
Santi non voleva che Patrizia andasse al collegio. Riteneva che sapere scrivere e fare di conto fossero più cose di quante ne servissero a una femmina. “Che deve diventare ancora, avvocata [sì, proprio così, che inclusivo! NdS]?”
Bella rogna, e infatti… e infatti quando, tra una balla e l’altra, Patrizia riesce poi a iscriversi all’università, l’arretrato Santi si mostra sotto sotto contento e pieno d’orgoglio:
La sera, Patrizia aveva detto a tutti che, visto il suo voto eccellente all’esame di maturità, aveva ricevuto un premio per i suoi studi. Aveva mostrato a Santi la lettera che spiegava della borsa di studio: temeva che suo padre non le avrebbe dato il permesso, invece Santi aveva sorriso di gusto. “Mia figlia all’università. Cose da pazzi.”
Ed era stato sufficiente così.
Ooooooo… cchei. Ehm, nessun problema. Altro ostacolo patriarcale: i pettegolezzi e gli stigmi che gravano sulla condotta sessuale delle donne. Eccallà! A un certo punto, mentre lavora in negozio, Selma conosce un rappresentante di formaggini (LOL, perché mi fa ridere questa cosa?) e fra i due sembra nascere un’intesa: per Selma neanche il tempo di scorreggiare (a causa dei troppi formaggini assaggiati per verificarne la qualità), e la gente è già lì che mormora. “Bottana” di qua, “pulla” di là, sapete come sono questi siciliani, non c’è bisogno che ve lo dica. La povera Selma, per salvare la faccia, chiude ogni rapporto con Ciccio Formaggino e non mette più piede nel negozio.
Ottimo, la Tamigio ci sta sbattendo in faccia la pratica, tutta patriarcale, di appioppare alle donne una “lettera scarlatta”, imprigionandole in una gabbia di “buona reputazione” da cui poi non si può più uscire, con conseguenti gravi traumi emotivi, personali e, come abbiamo visto, anche economici (quei formaggini erano erano dei bestseller, ’nagg!).
Tutto bellissimo, solo che… ma dai, ne Il cognome delle donne quei siciliani di merda (anzi, sono più che altro le siciliane, pensa tu!) sparlano pure di Santi, come dimostra questo passo:
Lavinia se lo ricordava quando, nemmeno troppi anni prima, sua madre era stata la femmina più chiacchierata di tutto il quartiere: su di lei si inventavano storie folli, perfino che se la intendesse con il rappresentante di formaggini. L’orecchio per le chiacchiere delle donne le era rimasto, persino adesso che Selma viveva ritirata e che nel quartiere ci si era quasi dimenticati di lei. Era giunto sino a Lavinia il fischio secondo il quale Santi Maraviglia si divertisse fuori casa con una donna che aveva una merceria dove sua madre non era mai stata a comprare niente.
Non intendo fingere: chi non vive fuori dal mondo sa bene che, a mo’ di insulto, si è molto più propensi a dare della “puttana” piuttosto che del “puttaniere”. E sa bene anche che il peso dell’integrità morale grava enormemente di più sul sesso femminile che su quello maschile. Il problema è che tutto ciò non traspare, nel romanzo. Selma e Santi sono entrambi bersaglio dei pettegolezzi, allo stesso modo e per la stessa platea di gente: non c’è niente che ci dica a chiare lettere che, facendo un certo tipo di cose, le donne se la passano peggio degli uomini. Uhm non è che in sé una simile impostazione mi trovi scontenta, anzi normalmente mi piace quando si mostrano le somiglianze, accanto alle differenze. Ma in questo caso che c’azzecca? Dico, in tema di maldicenze la disparità in effetti esiste, ed è chiaramente a sfavore di noi donne; inoltre, stiamo leggendo un romanzo femminista, proprio su un cattivo frutto del patriarcato la Tamigio sorvola?
Sopr’ano
Sentite, mettiamo da parte il femminismo e la condizione femminile, va’. Ma allora che ci resta? Eh, be’, è una saga famigliare, no? Ci saranno delle cose di famiglia, cose loro. Uhm, sembra un po’ ambigua messa così… ehi, di che mi preoccupo? Siamo in Sicilia, è ovvio che ci possono essere solo cose di famiglia e solo cose loro, cioè, vi pare?
Il fatto è che… se ci avete davvero creduto, sappiate che non c’è niente di simile, mi spiace.
Sviluppiamo la nostra analisi da una premessa: lettori, dovete tenere in conto che nelle famiglie, soprattutto quelle comuni, di rado succedono eventi degni di nota. Intendo dire che di rado accadono cose che possono stimolare l’interesse di chi è esterno alla famiglia, come… uh… siamo noi rispetto ai tizi de Il cognome delle donne. Pertanto, e siamo alle solite, esistono solo due modi per scrivere una saga familiare decente: o, va da sé, ci si immagina una famiglia non proprio comune, che vive esperienze altrettanto straordinarie (Cent’anni di solitudine), oppure si rimane sulla famiglia tipo, concentrandosi poco sugli eventi in sé e molto di più sulla psicologia dei personaggi. D’accordo, d’accordo, ci sarebbe in realtà anche un terzo modo, ossia immaginare una famiglia fuori dal comune E concentrarsi sull’aspetto psicologico: I Soprano, ricordate?
Nondimeno… che li tiriamo in ballo a fa’ I Soprano? È già tanto se uno dei nostri autori top riesce a eseguire in maniera traballante il primo o il secondo canovaccio…
E infatti la Tamigio… va ciucca per la sua strada ignorando bellamente il bivio.
Sul serio, Il cognome delle donne è privo sia d’azione sia di psicologia, perfino di psicologia spicciola: praticamente narra solo di flirt, di decessi, di altri flirt, di altri decessi, ancora di flirt… uh, c’è qualche battibecco… ah, no, ecco, di nuovo i decessi… e… i flirt. Tant’è il piattume, che mi sento costretta a giudicare questo il momento più adrenalinico:
A un certo punto, sotto la camicia di Marinella, erano esplose due bombe.
Certo, solito cliché mafioso (Sicilia, vi faccio presente), ma almeno… oh… cosa? Ah, no? “Quelle” bombe, serio? Merda…
Che poi, “merda” è relativo. Di norma un pezzo simile sarebbe sufficiente per bollare l’intera opera che lo contiene, classificandola come materia di scarto. Nel caso de Il cognome delle donne, tuttavia, sarebbe azzardato. Sì, perché le feci migliori (o peggiori) sono prodotte quando la nostra autrice si sforza di fare la seria. Per fortuna, avendo la Tamigio evitato di tergiversare sulla scelta di NON approfondire la psicologia dei personaggi, tutti i cataboliti spariscono, inghiottiti da enormi buchi di trama. Ah, voi siete di quelli che amano Com’è fatto, e vi piace informarvi sull’ingegneria della rete fognaria? Lo sono anch’io! Che bello, allora mettetevi comodi ché adesso ci facciamo un giro per i tombini del romanzo.
Cominciamo con Donato, il secondogenito di Rosa. Per tutto il tempo utile come un sedere senza orifizio, di punto in bianco decide di farsi prete:
Una sera, Donato si era accomodato in mezzo a loro su una sedia di paglia. Con lo sguardo serio, che lo faceva sembrare un vecchio falco, aveva detto a sua madre […] che non apparteneva più a quella casa ma che il Signore Iddio lo aveva chiamato a sé. Rosa, che sorseggiava acqua e anice, aveva poggiato il bicchiere per non rovesciarselo sul petto. […] All’inizio sembrava indecisa se farsi una risata ma poi, vedendo che Donato non mutava espressione, si era protesa verso di lui pronta a un’interrogazione bella e buona. […]
“Fammi capire. Tutto d’un momento ti ha chiamato il Signore?”
“Così è che succede.”
“Ma se tu a messa ci vieni due volte all’anno, Pasqua e Natale, e ogni volta ti ci devo portare con il morso in bocca.”
“Lo so, mamà. Ti dico che così è.”
“E bestemmi il Signore. Non spesso, ma qualche volta ti ho sentito.”
“Ho tanto per cui chiedere perdono, peccati commessi e peccati ancora da fare,” era stata la risposta di Donato.
Lettera aperta alla stimata autrice, sig.ra Tamigio: nonostante le indubbie qualità dell’opera sottoposta all’attenzione del blog letterario numero uno dell’internet, e nonostante la riconosciuta grande difficoltà insita nel gestire un alto numero di personaggi, difficoltà che certamente previene la possibilità di esplorare in maniera approfondita le cause che si celano dietro ogni singola decisione di ogni singolo personaggio, mi duole purtroppo constatare che farsi prete è uno sviluppo cruciale nell’esistenza di un personaggio, e meriterebbe perciò una particolare trattazione, non riscontrata nel romanzo. Per tale motivo, la richiesta di ricevere un giudizio positivo non può essere accolta. Così è deciso, io mi aggiorno.
Dai, a parte gli scherzi: i cambiamenti sono la linfa vitale delle storie, è un fatto arcinoto. Non è sufficiente leggere che Donato sente “la chiamata”, abbiamo bisogno di scoprire molto di più. Ad esempio, come è avvenuta la chiamata? In sogno? O forse Dio si è manifestato a Donato sotto forma di roveto ardente? E ancora, perché Donato ha dato ascolto alla chiamata? Da quanto dice Rosa, Donato non è mai stato un fedele modello: perché allora dovrebbe rispondere con tanta prontezza alla chiamata del Signore? Per coerenza, ci aspetteremmo che, di fronte alla manifestazione divina, Donato si comporti da scettico, o che sia titubante come Mosè, il quale addirittura prova a far capire a Dio di non essere la persona più adatta a parlare con Faraone.
Per giunta, tutto questo è subordinato a una domanda più fondamentale: perché Donato? Se è in fin dei conti un personaggio minore, che praticamente non fa un tubo d’altro, a che serve caricarlo di un “plot twist” così pesante? Plot twist introdotto e abbandonato di botto?
In un unico caso avrebbe avuto senso per la Tamigio non mostrare il processo di “conversione” di Donato, e cioè… nel caso in cui non fosse esistita alcuna conversione! Mi spiego. Donato sarebbe potuto diventare prete per ragioni che non hanno niente a che vedere con la fede: per il potere, magari, come il Don Fermín di Clarín, o per appagare istinti omoerotici, o persino per castigarsi, fuggendo del tutto i contatti con l’altro sesso.
Attenzione: ho detto che, muovendosi dai suddetti spunti, il processo di conversione avrebbe potuto essere tralasciato, sì, ma in ogni caso un approfondimento psicologico sarebbe dovuto emergere, da qualche parte. Come potete notare, nei miei suggerimenti compare già un embrione di tale approfondimento, solo che quest’ultimo andrebbe nutrito gradualmente per una sezione appropriatamente estesa della trama. Faticoso? Be’, forse, rispetto alla semplice esposizione dei motivi contestualmente all’introduzione dell’evento. Però, la vocazione di Donato si sarebbe scoperta nient’affatto banale, e… eh, l’improvvisa importanza attribuita al personaggio avrebbe avuto un minimo di senso.
Invece no, ci becchiamo un ometto insignificante, in un romanzo sulle donne, che a un tratto scoppietta come un pop corn perché… I don’t know: reasons, I guess. Peccato, la nostra autrice s’è mangiata l’occasione di dar vita a un personaggio potenzialmente molto ben riuscito.
Arancina meccanica
Vabbè, lettori, è un libro che parla di donne, quindi… nope. Se credete che le femmenazze de Il cognome delle donne abbiano almeno un minimo in più di struttura rispetto al povero Donato, complimenti!, siete dei giuggioloni.
Ancora Patrizia. È la ribelle di casa: il suo passatempo preferito è sfidare suo padre, disobbedirgli e farlo incazzare come una bestia. Per esempio, alla nostra scassona piace studiare, anche se Santi, come abbiamo visto in precedenza, ritiene che sia inutile far studiare le femmine. Toh!, Donato, in un raro momento di presenza nel romanzo, trova la soluzione: Patrizia studierà in quel cacchio di collegio, così potrà proseguire gli studi, e Santi si metterà il cuore in pace perché (lui è siciliano) è un bigottone timorato del clero, e se ci sono di mezzo le suore allora tuttapposhto.
Ovviamente, Patrizia concorda con il piano dello zio e si ritrova in mezzo alle pinguine. Ma non le piace, perché eh… la severità, le punizioni, la freddezza, quelle robe lì. Stavolta trova per suo conto la soluzione: inizia perciò a trascorrere molto tempo in biblioteca, per starsene in pace, e lì scopre delle cose piuttosto interessanti…
Preferiva di gran lunga passare le ore di svago nella biblioteca dove, per lo più, nessuna le dava fastidio […]. All’inizio ci andava per studiare, ma con il tempo aveva finito per trascorrere in biblioteca ogni momento libero in cui non c’erano le lezioni, le ore di preghiera o le “attività femminili”, che erano scimunitaggini […]. In biblioteca, dietro alle cento edizioni della Bibbia e ai tomi polverosi scritti da uomini con la barba vissuti mille anni prima, Patrizia aveva trovato un mucchio di bei libri. A leggere le storie delle sante si era immaginata i fiotti di sangue che zampillavano dal petto mutilato di Agata, o Lucia con gli occhi sul piattino. Aveva divorato anche le lettere di Caterina, che teneva testa a ben due papi. E si era appassionata a Giovanna d’Arco che, finché era buona a vincere la guerra piaceva a tutti, ma quando non era servita più, l’avevano bruciata sul rogo come una strega.
[…] Nel giudizio in calce al suo rendimento si leggeva che le suore di Santa Anastasia continuavano a ritenerla solitaria e scontrosa, ma erano soddisfatte di osservare che, da quando trascorreva il tempo in biblioteca, aveva perso ogni interesse per la ribellione. Non veniva più punita e i suoi voti erano eccellenti.
Ricapitoliamo: una scapestrata fa intendere di essersi messa in riga dopo aver preso a divorare agiografie e testi sacri, ma in realtà è tutta una balla perché usa quegli stessi testi edificanti per alimentare il suo spirito ribelle. Oh, funziona, lo ammetto.
Ma dai?! Cazzo se funziona, ci mancherebbe altro, è una scena rapita da Arancia meccanica! Vi ricordate? Alex, il protagonista, finisce in carcere, e per uscire prima di prigione simula una buona condotta. In particolare tenta (e con successo) di farsi amico il cappellano, mostrandosi spesso assorto dalla lettura della Bibbia: così, mentre il cappellano è convinto che Alex sia stato toccato dalla parola di Dio, il protagonista appaga la sua sete di violenza con i passi biblici che parlano di stupri, flagellazioni, omicidi, e in generale di ebrei che si picchiano di santa ragione.
Ecco, la Tamigio ci propone la stessa situazione: le suore, vedendo Patrizia che legge agiografie, si convincono che stia mettendo la testa a posto, quando invece la ragazza sta solo rafforzando la sua indole, manipolatrice, amante del potere (ammira Santa Caterina che “teneva testa a ben due papi”) e perfino sociopatica (eddai, si diverte a immaginare “i fiotti di sangue che zampillavano dal petto mutilato di Agata” e “Lucia con gli occhi sul piattino”, va be’ che è siciliana, ma vi pare normale?!).
Non fraintendete, non sto dicendo che la nostra autrice andrebbe frustata per aver dissacrato un classico. Le ispirazioni, i prestiti o, in modo più prosaico, le scopiazzature non sono mali da condannare a prescindere. Ne è piena la grande letteratura, del resto, così come la grande musica.
Il punto è però questo: stabilita la personalità di Patrizia, ci aspetteremmo che il personaggio sia coerente ad essa lungo tutto Il cognome delle donne. Non dovrebbe forse, una volta fuori dal collegio, riprendere a fare la ribelle come suo solito? Dopotutto, è ciò che accade ad Alex (svanito l’effetto della cura Ludovico). Eccallà: quando ritorna a casa, Patrizia è effettivamente docilissima!
Tranquilli, tranquilli, è solo una posa per nascondere le sue malefatte. E le nasconde talmente bene, che neppure la Tamigio riesce a trovarle, e infatti non ne racconta nemmeno una… LOL. Tutto ciò che sappiamo è che Patrizia si scopre “ben seduta e educata”. Fine, punto e basta, il romanzo passa subito a parlare d’altro:
Non veniva più punita e i suoi voti erano eccellenti. Ormai, ogni volta che tornava a casa, a vederla così ben seduta e educata, senza trovare nemmeno un motivo per prenderla in giro o rimproverarla, Santi Maraviglia non sapeva più che dirle.
Nel giugno del 1963 nel collegio di Santa Anastasia pareva di stare in vacanza. Papa Giovanni era appena morto e tutti i preti e le suore del collegio erano partiti per Roma […].
Bella prova: di nuovo ci ritroviamo con un personaggio che prima si comporta in un certo modo, e poi all’improvviso cambia praticamente il suo codice genetico. Il tutto senza un cazzo di motivo plausibile! Dico io, come è mai possibile che Patrizia, la quale già mal tollera gli atteggiamenti del mezzasega Santi, non rafforzi il suo desiderio di ribellione dopo aver letto di Santa Caterina, del sangue e di quella roba là? Scusi, sig.ra Tamigio, è possibile vedere delle ribelli, in questo suo parco delle ribelli? Pronto? Oh? Ahhh… eh?
Ehi, mi ha sentito, e non sta dicendo che mi odia scuotendo la testa e fissando il monitor del computer. Già, perché Patrizia, nella maturità del romanzo, punta un coltello contro il povero Santi.
Vi ho accennato, Santi porta alle figlie in dono una matrigna. Quel che non vi ho rivelato, è che il fratello della tipa inizia a importunare Lavinia, senza che Santi abbia il minimo sospetto. Patrizia decide di difendere l’onore di sua sorella (ah, giusto, sono siciliani…), e appunto brandisce il coltello, con cui minaccia il molestatore. Il molestatore?! Ma non era Santi? Certo: lo sfigatone si mette in mezzo e si trova in un guaio.
Ci siamo, è l’occasione fortuita che regola i conti, l’atto finale dello scontro fra padre e figlia iniziato tanti anni prima. Eh, ci siamo un par de cojoni. Esaminate attentamente la scena:
Santi aveva guardato la moglie darsela a gambe e nei suoi occhi gelidi aveva iniziato a salire tutto il peggio che aveva dentro. “Patri’, ora basta.” Si era concentrato sul braccio sanguinante di Valentino [il molestatore], che adesso stava silenzioso in un angolo e pareva avere perduto ogni voglia di giocare. “Smettila di fare l’isterica. Non ti basta cosa hai fatto a Valentino?” Infine il suo sguardo gelido aveva incrociato gli occhi incandescenti di Patrizia. […]
“Questa gente ci ha portati allo schifìo. Sono ladri, farabutti.”
“Vedi come parli. Carolina è mia moglie, la madre di mio figlio.”
Patrizia non si era accorta che il coltello saliva sempre di più verso suo padre, e che a un certo momento glielo stava tenendo puntato proprio davanti al petto mentre gli occhi le si riempivano di lacrime fino a cecarle la vista. “E mia madre? Tu l’hai fatta morire. La colpa è tua. Ti sei preso la casa. Tutte le cose nostre. E ora, vuoi che ci facciamo pure ammazzare per te? Nossignore, muori tu prima.”
Santi Maraviglia fissava il coltello che Patrizia gli impugnava contro. […]
“Prendi le tue cose e vattene da casa mia.” Con la mascella serrata, che pareva volersi spezzare come una noce, si era voltato verso Lavinia. “Andatevene tutti e due.”
Patrizia aveva abbassato il coltello, le guance rosse e bagnate di lacrime. “Ma che padre sei?”
Più che uno scontro, più che una ribellione… è una sequela di recriminazioni, una crisi isterica, è un grido di aiuto! È molte cose, ma nessuna tosta e nessuna in linea con una personalità anche solo vagamente modellata su quella di Alex di Arancia Meccanica.
Spero siate d’accordo con me, Patrizia non sta reclamando la propria libertà, non si sta divincolando dal giogo del patriarcato, non urla per aggredire. Diamine, non mostra nemmeno di avere un po’ di sete di sangue! La nostra eroina sta semplicemente piagnucolando come una femminuccia, supplica il padre di rinsavire, spera di liberarsi della femmina rivale, quella donna che si è ritrovata per matrigna. E tutto questo perché? Semplicissimo, dalle pagine precedenti la sfuriata, si capisce che la mina vagante Patrizia era sostanzialmente felice, nel vecchio nido:
A Natale, Santi aveva chiamato un fotografo a casa loro. […] Patrizia si era seduta accanto a sua madre, sul lato opposto a sua sorella, ma Santi l’aveva fatta alzare subito.
“A te che sei la più grande ti voglio accanto.” E si era voluto fare la foto tenendole la mano sulla spalla. Patrizia aveva cercato di non darlo a vedere, ma si era sentita il cuore scoppiare di orgoglio e aveva desiderato che il tempo della foto durasse per sempre.
Ah, ecco, l’ambaradan con il coltello non è proprio per niente l’esplosione di una personalità non addomesticata dai dettami del patriarcato, è bensì una semplice, quasi banale, scenata di gelosia. Patrizia, all’osso, sta manifestando la sua rabbia per dover condividere il padre e le sue risorse (“[s]ono ladri”, dice Patrizia riguardo Carolina e suo fratello) con una pericolosa femmina “estranea al branco”, per così dire. Confesso, potrebbe anche essere accettabil… ish, se capite che intendo; però che c’entra con l’evoluzione di un supposto personaggio dall’indole energica e con sfumature di psicopatia?
Almeno non è “D’Adamo”
Lo saprà la Tamigio, forse. Quel che so io, è che ci sarebbero ulteriori esempi di incoerenza psicologica, ma se li analizzassi tutti mi prendereste a sassate. Ad ogni modo, voglio concludere questa parte della recensione parlandovi di una chicca che ritengo gustosa: la storia di Ada e del suo aborto.
Ada è la giovane fidanzata di Fernando, l’altro inutile fratello di Selma, e… be’, Il cognome delle donne ce la presenta come “donna moderna”:
Che Ada fosse una donna moderna, a dispetto dei suoi occhi rotondi e addormentati, Marinella lo aveva capito sin dalle prime ore in quella casa. Intanto “stava con un vecchio”, come aveva sentito sussurrare alle sue sorelle. E poi, come aggiungeva Lavinia, Ada era una che “se ne fotte di quello che pensa la gente di lei. E fa bene”. Poi c’era questo fatto che non faceva niente di niente, tutto il giorno. […]
Ada era la prima femmina che Marinella avesse mai conosciuto in grado di guidare un’automobile: la usava per fare la spesa o sbrigare commissioni per zio Fernando, come ritirargli le camicie in tintoria, perché lei non lavava né stirava. […] Non usava il reggiseno, o almeno Lavinia giurava di non averne mai visto uno in giro. Quando Marinella tornava a casa da scuola, trovava Ada che leggeva sul divano oppure fumava affacciata al balcone.
Per farla breve, Ada è un femminone à la page, che schifa l’idea di ridursi ad angelo del focolare. È talmente avanti che, vi ho anticipato, a un certo punto abortisce. Ebbene, che c’è di strano?, mugugnate voi: se Ada è una “donna moderna”, ci mancherebbe che non voglia avere il controllo sul suo corpo! Con ogni probabilità sarà una di quelle che, al tempo, s’è sbattuta affinché si ottenesse il diritto all’aborto: ed è lei stessa tra le prime a usufruirne. E invece qualcosa di strano c’è, figuratevi: benché abbia l’opportunità di abortire nella sicurezza di un ospedale, come previsto dalla legge, Ada preferisce recarsi da una mammana… ovviamente con le prevedibili conseguenze…
Ada aveva fatto la sua comparsa, sostenendosi allo stipite e trattenendosi la pancia con le mani. Il bagno sembrava il camerino di un carnezziere: c’era sangue, violaceo e denso, sulla tazza e sul bidè, sul pavimento e sulla vasca da bagno. Le strisce di sangue imbrattavano persino le pareti. […] Il dottore scuoteva la testa e dava indicazioni per mettere Ada sulla barella. “Questa vuccirìa si poteva evitare venendo in ospedale. Prima non c’era la legge e avete voluto la legge, ora c’è la legge e non ve ne fotte niente. Insomma dovete fare sempre come pare a voi, ve’?”
Di nuovo la sindrome di Donato: quando un personaggio prende una decisione strana e incoerente rispetto a quanto sappiamo di lui, vogliamo assolutamente saperne di più. Attacchiamoci, non sapremo mai che cosa è davvero passato per la testa di Ada, perché si affida praticamente a una strega. Vero, Ada vive in un momento storico in cui è stato appena riconosciuto il diritto all’aborto, ma siamo sempre in Italia, eh; anzi, addirittura siamo in Sicilia, una terra dalla mentalità così arretrata, ma così arretrata, che non riuscirebbe a reggere la modernità della ruota, se mai qualche siciliano la scoprisse. Con questo in mente posso supporre che… boh… Ada teme di essere ostracizzata? Teme ritorsioni? Sono ipotesi, ma deboli, perché la Tamigio s’è premurata di descrivere tutte le spavalderie da lei messe in atto, le quali da sole sarebbero sufficienti a provocare malumori. Cioè, i siciliani, da che mondo e mondo, ti fanno sparire per un nonnulla, ah-ah! Quindi, perché, d’un tratto, aver paura di abortire legalmente?
Mah, sono obbligata ad accontentarmi di qualche supposizione di Marinella (sì, nemmeno i personaggi ci capiscono un cazzo), anche perché Il cognome delle donne considera praticamente subito chiusa la questione. Ada, troppo debole per reagire a causa dell’emorragia, viene relegata sullo sfondo, da cui non si muoverà più:
Marinella, che non viveva fuori dal mondo, lo sapeva bene di che legge parlava il dottore; ma sapeva anche che un conto era la regola e un altro conto la realtà. Ada poteva anche essere mezza matta, ma figurarsi se non avrebbe preferito fare le cose pulite invece di ritrovarsi immersa nel proprio sangue fino al collo. Magari in ospedale c’era stata e i medici l’avevano mandata via per qualche motivo scimunito, forse perché non era sposata o perché non aveva rispettato qualche scadenza […]. Magari Ada non si fidava dei dottori, proprio come nonna Rosa, o magari non voleva che zio Ferdinando si preoccupasse: quello le stava sempre addosso. Poteva essere anche che certe cose voleva tenersele per sé e non farsi fare la lezione in cattedra da tutti i dottori maschi del Policlinico.
Prendiamo atto, però stavolta non era il caso di faticare un pochino e di fare un passo più significativo, invece di limitarsi a vari “potrebbe essere che”, appesi senza speranza? Dico, sarebbe stato logico farlo (che cazzo la introduci a fare Ada nella trama, altrimenti?!), inoltre approfondire la psicologia di Ada particolare avrebbe permesso all’autrice di affrontare la famosa questione femminile di cui a suo tempo ho lamentato l’assenza. Se Ada, donna moderna, è riluttante ad abortire in ospedale, vuol dire che la Legge 194 è stata sì una vittoria, però solo su carta. In effetti, ancora oggi molto spesso è così: si può fare, ma tu non pensarci nemmeno di farlo. Cioè, la Tamigio avrebbe potuto darci a intendere che non basta una legge per cambiare l’uomo, o addirittura che le leggi servono soltanto a mantenere lo status quo. E invece no! Le ipotesi di Marinella non permettono neppure di intuire se il problema è davvero nell’applicazione della legge (“[m]agari in ospedale c’era stata e i medici l’avevano mandata via per qualche motivo scimunito”), se è soltanto psicologico, privato (“[m]agari Ada non si fidava dei dottori, proprio come nonna Rosa”), o se riguarda gli equilibri famigliari (“magari non voleva che zio Ferdinando si preoccupasse”).
E sì che in quattrocento pagine di spazio ce n’è, se si vuole darne anche alle informazioni importanti…
Io dico “rosa” e voi dite “roso”, vabbuò?
Ora, con tutto ciò che abbiamo esaminato, non siete riusciti a togliervi ogni dubbio, riguardo al fatto che “importante” significa per voi qualcosa di diverso da quel che significa per la Tamigio? Ho la cura: sezioniamo insieme qualche scena “tragica”.
Eccovi un primo esempio: mentre infuria la Seconda guerra mondiale, Rosa viene a sapere che suo marito è tornato dal fronte e che è ricoverato in un ospedale della zona; lo va a trovare, ma, come vi avevo anticipato nel riassunto, scopre che è diventato uno scemo di guerra…
Mentre veniva accompagnata da un’altra guardia per il corridoio bianco e puzzolente di muffa, Rosa cercava di non ascoltare i lamenti che provenivano dalle camerate né la zaffa di morte. […] I soldati che stavano qui erano il doppio rispetto alle altre stanze, e nonostante questo non volava un fiato: gli uomini giacevano nelle brande silenziosi e quieti, come già arrivati in Purgatorio […]. Se Sebastiano Quaranta fosse stato voltato dal lato opposto, Rosa sarebbe passata avanti senza poterlo riconoscere. Se, invece del suo sguardo, avesse occhieggiato solo il sudario malconcio e il vetro ingiallito del bicchiere sul comodino, si sarebbe limitata ad avere pietà per quel povero soldato passando oltre. Ma gli occhi da puledro di Sebastiano avevano incrociato quelli di Rosa proprio quando sua moglie si stava ormai rallegrando di saperlo libero.
E così lei si era dovuta fermare.
Per un istante aveva visto solo una mummia di ossa e pelle livida, un volto solcato da bozzi e tagli e da qualcosa che doveva essere stato persino peggio delle mazzate.
[…]
Rosa si era piegata verso quel mucchio di cenci.
“Sebastiano Quaranta. Sono tua moglie. Riesci a sentirmi?” La voce salda, come un comunicato radio.
L’uomo aveva ruotato gli occhi verso di lei.
E lei si era presa coraggio. “Sono io Bastiano, sono Rosa.”
Sebastiano Quaranta, o quello che ne restava, aveva sollevato la mano destra a cui mancavano due dita, l’indice e il medio, mentre la sinistra aveva un moncone al posto dell’anulare.
“Mia madre è morta, signora. Vi confondete. Mi fate perdere tempo e io domani torno a casa e devo ancora preparare la saccoccia. Cercate vostro figlio in un’altra stanza, non mi seccate.”
Così, a caldo, il brano non è affatto male. Il ritmo è buono, con le scene d’azione (“[m]entre veniva accompagnata da un’altra guardia per il corridoio bianco e puzzolente di muffa […]”) che si alternano correttamente a quelle descrittive (“[i] soldati che stavano qui erano il doppio […]”). È anche apprezzabile l’intervento del narratore onnisciente nel racconto, quando si rivolge a noi per dirci che “se Sebastiano Quaranta fosse stato voltato dal lato opposto, Rosa sarebbe passata avanti senza poterlo riconoscere”: infatti, prima di questa precisazione, non c’è un solo indizio che possa confermare la presenza di Sebastiano all’interno dell’ospedale, e noi, come Rosa, ci illudiamo che il poveretto stia bene e ancora in buona salute, in procinto di tornare a casa. Ma ecco che poi arriva la notizia, ancora dataci dal narratore: breve, lapidaria e inaspettata, ci coglie di sorpresa, e proprio per questo il dispiacere che di certo proviamo ci sembra così autentico.
Gli aspetti positivi ci sono, dunque, però… meh!, manca qualcosa. E questa mancanza, in definitiva, impedisce che durante la lettura si completi il viaggio nelle emozioni. Di cosa sto parlando? Eh, be’, lettori, manca l’intimità fra Rosa e Sebastiano. Manca cioè quel dettaglio intimo, condiviso solo dai due sposi, il dettaglio decisivo capace di rendere l’agnizione veramente istintiva e dolorosa.
Uhm, sono andata troppo veloce? Andavo troppo veloce, ho fatto cortocircuito. Datemi quel bicchiere d’acqua, vi faccio vedere, faremo un esperimento. Ahhhh! Bene, quell’acqua mi ci voleva proprio, mi ha dissetato. Dunque, posto che l’agnizione è il “punto di svolta della trama centrato sul riconoscimento di un personaggio da parte di un altro”, adesso posso chiarire tutto servendomi dell’anime Fullmetal Alchemist: per chi non lo sapesse è la storia di alcuni giappi che praticano l’alchimia e sfidano i limiti della natura, con risultati ovviamente mostruosi. Uno dei personaggi, un certo Shou Tucker, desidera creare una chimera parlante: ci riesce, e tutto gongolante la mostra a Edward, il protagonista. Edward è entusiasta mentre ascolta la chimera ripetere il suo nome, finché non la sente dire “fratellone”. “Fratellone” era il modo in cui lo chiamava Nina, la giovanissima figlia di Shou Tucker: Edward si paralizza per l’orrore, avendo compreso fin dove si è spinto il collega…
Vi invito a fare attenzione: in Fullmetal Alchemist, “fratellone” non è soltanto un espediente per agevolare l’agnizione, è anche uno strumento per marcare l’intimità affettiva fra Edward e la bambina, ed è proprio quella intimità a rendere tanto efficace la scena.
Facciamo a questo punto una comparazione con quella propostaci dalla Tamigio. Per l’appunto, ne Il cognome delle donne l’agnizione non avviene attraverso un dettaglio intimo, non vediamo, per esempio, Sebastiano mormorare fra sé e sé un nomignolo dato a Rosa, non vediamo Rosa, disperata, provare a scuotere il marito con una tipica espressione dei loro piccoli battibecchi quotidiani. No, Rosa riconosce Sebastiano dagli occhi, ossia da una parte del corpo che è, in fin dei conti, di “dominio pubblico”.
Che dobbiamo pensare? Be’, che Rosa dopotutto riconosce suo marito nello stesso modo in cui lo riconoscerebbe, che so, la vicina di casa, o il commilitone. Certo, i nostri personaggi sono marito e moglie, la loro profonda connessione ci è ben nota, però… meh, ciò non basta a rendere la scena autenticamente drammatica e commovente. Insomma, gira che ti rigira la Tamigio avrebbe dovuto cimentarsi con uno sano show don’t tell: d’accordo, il narratore ci ha spiegato come stanno le cose, ma poi abbiamo bisogno di leggere il concretarsi della complicità fra Rosa e Sebastiano, effetto da ottenersi con l’implementazione nel testo di un linguaggio personale e di gesti “segreti”.
Trinciapalle
Show don’t tell necessario, quindi. Per i momenti drammatici e per quelli… “spaventosi”, diciamo così. Patrizia, ricordiamo, in collegio soffre a causa delle suore molto, molto severe…
La suora assegnata alla camerata di Patrizia era suor Angelica, che non era per niente come il suo nome. […] Se si accorgeva che qualcuna non mangiava o sprecava il cibo o si ingozzava, se trovava una ragazza che parlava in classe quando non era interrogata, se durante le attività del pomeriggio scovava una fannullona […] faceva sì che la malcapitata la seguisse nella cappella della martire Anastasia e si inginocchiasse davanti alla pala con la sua immagine dorata: suor Angelica sfilava dalla cintura un rosario […] con il quale colpiva sulla schiena chi si comportava male. […] Ma non era la punizione peggiore. Quelle che si comportavano malissimo venivano spedite nello studiolo di madre Salvatrice, la madre superiora. […] Il suo studiolo era una stanza enorme e bellissima […]. Dall’altra parte della stanza, c’era una porta che conduceva a uno sgabuzzino delle dimensioni di un armadio, vuoto e senza finestre: chi disobbediva alle regole, restava chiusa lì dentro tutto il tempo che decideva la superiora. Il record – così si diceva – era di una certa Rina Malavenda che, cinque anni prima, era rimasta due giorni interi nello stanzino senza mangiare né bere. Così, almeno, avevano raccontato a Patrizia.
Lei aveva imparato a conoscere queste punizioni da subito: i suoi primi mesi in collegio li aveva passati poco nel letto e molto inginocchiata davanti alla martire Anastasia, meno sui banchi e tanto nello sgabuzzino di Madre Salvatrice. Il buio e i colpi di rosario le avevano fatto passare la voglia di rivoltarsi, ma lo stesso c’era sempre qualcosa che sbagliava o qualche nuova regola di cui non sapeva l’esistenza. Se avesse avuto almeno un’amica con cui lamentarsi, sarebbe stato un altro discorso, ma dopo mesi in collegio, non si poteva ancora dire che avesse trovato compagnia.
Uhm, lasciamo perdere che lo sgabuzzino della madre superiora ricorda troppo da vicino lo strozzatoio della preside Trinciabue (Matilda sei mitica): concentriamoci sul fatto che il brano si suddivide in due parti. La prima, che termina con “così, almeno, avevano raccontato a Patrizia”, tratteggia un quadro generico della situazione, e riporta ciò che si vocifera tra le studentesse riguardo lo sgabuzzino di Madre Salvatrice: logicamente, è un puro telling, proprio perché si tratta di un riassunto. Ed ecco la seconda parte: le punizioni non sono più riferite, sono direttamente vissute da Patrizia. Bene, se non fosse che è male, perché ancora abbiamo un telling. Bisognava usare lo showing, o al massimo un telling molto più ampio e ricco di dettagli, questo nel caso in cui la Tamigio avesse fortissimamente considerato un’eresia spezzare l’impostazione narrativa. Così come si presenta il romanzo, troviamo l’esperienza vissuta che occupa a malapena metà dello spazio invece dedicato al riassunto. È chiaro che un brano così composto, anche se parla di abusi su minori, non produrrà nel pubblico il desiderato impatto emotivo: le informazioni sono disposte in una gerarchia che minimizza il vissuto del personaggio, di conseguenza noi ci atteniamo all’implicita indicazione, e consideriamo il trauma di Patrizia sostanzialmente… irrilevante.
E non credo proprio che la nostra autrice avesse in mente un risultato simile.
Basta. Il cognome delle donne è un romanzo francamente evitabile: dopotutto, non c’è un messaggio sociale, il contesto storico quasi non esiste, i personaggi sono più d’una volta incomprensibili e la scrittura è… be’, qui faccio a parte un breve discorso. Non è scritto malissimo, la prosa è anche gradevole, lo ammetto: non è una pena scorrere le pagine, a differenza di altri obbrobrii che apertamente gettano grammatica e decenza di stile nel cesso. Più che altro il problema sta nel maldestro impiego delle tecniche narrative, come abbiamo visto. Sotto l’aspetto formale, quindi, ho dei “mixed feelings”, ma poiché un romanzo si fonda più sulla narrazione che sulla grammatica e sullo stile puri, i feelings tendono maggiormente al “bad”.
Inoltre, come avete compreso fino alla nausea, non posso neanche spendere una lode per l’originalità, al contrario di quanto accaduto con La quota d’ombra. A questo proposito, credo sia superfluo spiegare, ma siccome non si sa mai lo faccio comunque: avete notato più volte un sacco di mie frecciatine razziste nei confronti del Meridione e della Sicilia in particolare. Lettori, era tutta ironia, eh! Io amo il Sud e amo la Sicilia, davvero. E proprio per questo sono stufa di veder banalizzato il contesto, ridotto a una stramba cartolina appiattita su stereotipi, negativi o positivi che siano. Sono stufa di leggere queste saghe in cui non ci si scosta dal cliché del terrone capatosta, inamovibile, ancorato al passato. La società culturalmente rozza, la cui “messa in discussione” sembra essere l’unico spunto di trama. Sicuro, i guai del Sud non sono menzogne inventate, terronazzi esistono ancora oggi (e in buon numero, con trend in crescita), ma non sono rappresentativi e non sono “più interessanti”. Così come non sono rappresentativi e non sono più interessanti i camorristi cool di Gomorra, no?
Senza ovviamente cedere all’opposto rose e fiori stile Un posto al sole, a Napoli ci stanno (LOL, la meridionalità che c’è in me) scienziati, eredietiere depresse, feticisti, impiegati che si occupano di cani randagi, gay potenti e ricchioni vessati, musicisti… musicisti che vengono uccisi da psicopatici bambini desiderosi di far carriera nella camorra… insomma, c’è tanta roba, no? A maggior ragione c’è tanta roba in una terra splendida, contrastata, vasta e viva dalla notte dei tempi, com’è la Sicilia. Mi lascia perplessa constatare che finora soltanto Elda: vite di magnifici perdenti è riuscito a dipingere nella mia mente un quadro soddisfacente della Sicilia “vista e vissuta da una stirpe”. Un romanzo che non ha mai scalato nemmeno una mezza classifica che conta. Aveva i suoi difetti, certo, tuttavia le vicende e lo sfondo erano come dovevano essere: multiformi, coerenti, coinvolgenti, veri e verosimili. Non posso dire lo stesso de Il cognome delle donne, il quale, fatto salvo ciò che ho precisato sugli stereotipi negativi, neppure fa una mezza menzione di Cosa Nostra, e del suo impatto sulle vite dei personaggi: ed è incredibile, perché, l’abbiamo visto, ci sono gli anni Settanta e Ottanta palermitani (probabilmente)! Cioè, alla fine della fiera, tutto quel che troviamo nel romanzo è una presentazione di maschere sbiadite del “meridionale così come ci aspettiamo che debba essere”, e poco altro. Non è forse una gran noia, come ho detto sin dall’inizio?
Secondo me sì. Però non dubito, a qualcuno può piacere la noia: del resto, non siamo mica tutti fatti con lo stampino, vero? Ebbene, se qualcuno di voi è un feticista della noia e delle “cheap copies”, allora vi invito a cominciare da subito la lettura de Il cognome delle donne. Ci metterete un po’ a finirlo… se lo finirete… tuttavia, in tema di pallosità e inconcludenza, sono sicura che incontrerà il vostro favore. E, in tal caso, potrete tornare qui e darmi addosso gridando che voi, voi sì, avete fatto una buona lettura!
secondo me ci trovi gusto a fare bastian contraria. che recensione è, sei seria? ma dai
La recensione negativa è lecita ma prendere in giro una ragazza giovane mentre parla in una intervista, emozionata, è da stronze. Contenta te.
Per esserti piaciuto così poco questo libro gli hai dedicato un bel po’ di righe. Evidentemente qualche coda deve avertela raccontata. Autrice esordiente, che ti diverti a prendere in giro con cattiveria. Spero che almeno ti sei divertita davvero. Quanta cattiveria. Non vedo l’ora di leggere il tuo di libro per sentire che saprai fare. A ridicolaaaa