I miei stupidi intenti – Bernardo Zannoni

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IL GIUDIZIO:

i miei stupidi intenti romanzo di bernardo zannoni edito da sellerio

Ti amo Archy, è la stagione.

Vince il fatalismo

Insomma, c’è questo libro: I miei stupidi intenti di Bernardo Zannoni.
Embè?
Embè ha partecipato a un concorso letterario.
Uhm, state già storcendo il naso, non è così? Ma aspettate, non è tutto. Il concorso letterario a cui ha partecipato è il Campiello… e la giuria del Campiello la presiede Walter Veltroni. Oh, probabilmente adesso state roteando gli occhi al cielo. E se vi dicessi che… Zannoni non ha solo partecipato al Campiello, ma ha anche vinto il primo premio? Ah, lo so a che cosa state pensando adesso: ecco, abbiamo la conferma definitiva che sarà un libro orribile. Lo so, perché è esattamente quello che ho pensato io. Ma poi ho iniziato a leggerlo e… sapete, non è affatto male. Anzi, direi proprio che è un romanzo interessante. A cominciare dalla trama, assai particolare.

Infatti protagonista e voce narrante della storia è una faina, Archy. La sua vita, come quella di molti altri animali del bosco, è dura e crudele fin dal giorno in cui vede per la prima volta la luce. Archy è orfano di padre, ucciso da un uomo mentre era a caccia di galline. Pertanto al suo sostentamento e a quello dei suoi fratelli provvede unicamente la madre Annette, con grande fatica. In questa situazione familiare, Archy conosce da subito la fame e la competizione per accaparrarsi le poche risorse messe a disposizione dalla natura durante l’inverno. Competizione che si fa tanto più agguerrita quando Leroy, uno dei fratelli di Archy, si guadagna l’ammirazione di Annette perché è riuscito a predare un corvo. Archy non vuole essere da meno e inizia a trascorrere molto tempo fuori casa, sperando di trovare qualcosa di sostanzioso da mettere sotto i denti. Un giorno scorge un nido di passerotti su un albero: vi sono delle uova. Archy non perde tempo e le raggiunge, ma nel mentre cade dall’albero e rimane zoppo. Così conciato, la madre lo ritiene ormai nient’altro che un peso, perciò lo vende come aiutante a una vecchia volpe usuraia, di nome Solomon. Inizialmente il rapporto fra Archy e il suo padrone è burrascoso, in seguito però Solomon scorge nella giovane faina una scintilla di “Amore”, e ne fa il suo allievo: gli insegna a leggere e a scrivere, gli parla di Dio, della morte e della salvezza eterna. Archy però non apprezza fino in fondo questo dono: talvolta vorrebbe soltanto comportarsi da animale…

Bene, per il momento ci fermiamo qui. Probabilmente, mentre leggevate la trama, avete cercato di inquadrare il romanzo e di inserirlo in un qualche genere letterario. Ci ho provato anch’io, e… be’, bisogna ammettere che non è impresa facile. Da un lato I miei stupidi intenti avrebbe tutte le caratteristiche di una favola. Però sembrerebbe anche un romanzo esistenzialista. E un’opera religiosa, aggiungerei. Vi dirò, credo di aver scorto fra queste pagine anche della satira. Insomma, I miei stupidi intenti è decisamente un romanzo che abbraccia più generi. C’è però un genere letterario a cui sono certa non si avvicini neanche un po’: il romanzo di formazione.

Sì, so benissimo che molte testate giornalistiche e parecchi blog letterari hanno definito la storia di Archy un percorso di formazione. E posso anche capire le loro ragioni: Archy all’inizio è un animale ignorante come tanti altri, solo grazie agli insegnamenti della volpe si eleva dalla sua condizione di ottusità, divenendo, come recita l’introduzione al testo, “sempre meno animale”. E cacchiarola, mi direte, se questa non è formazione, allora che cos’è?

È fatalismo.

Sono andata troppo veloce? Occhei, sono andata troppo veloce. Facciamo un passo indietro, e riflettiamo sul significato di “formazione”. Il termine indica il cambiamento che conduce un materiale amorfo ad acquisire una definizione. Quindi la formazione riguarda tutti quei personaggi letterari, spesso giovani, che in principio sono confusi riguardo la loro identità e il loro ruolo nel mondo, e soltanto sul finale diventano consapevoli di chi sono e di che cosa devono fare in questa vita. Un romanzo di formazione, brutto senz’altro, ma pur sempre un romanzo di formazione, è ad esempio Spatriati di Mario Desiati, in cui solo con il passare degli anni il protagonista accetta e abbraccia pienamente la propria fluidità sessuale, e riesce a trovare il suo posto nel mondo, dove si sente davvero a casa.

Ora, Archy non è quel tipo di personaggio letterario. Tanto per cominciare, non è mai un personaggio amorfo o un personaggio che mima una personalità che non gli appartiene, la quale anzi è da subito ben definita. Archy infatti non è un animale che diventa un “non animale”. Lui nasce non animale. Ciò risulta evidente in un episodio raccontato nelle prime pagine, quando Leroy propone al nostro di placare la fame che li tormenta mangiando Otis, il membro più debole della cucciolata:

Una volta Leroy mi svegliò:
«Hai freddo?».
«Ho fame », risposi.
«Anch’io. Potremmo mangiarci Otis. È piccolo, e debole […] Allora?».
«Forse ho più freddo che fame». […]
Da lì cominciai a capire che fra me e Leroy c’era una leggera, orribile differenza: era più animale di me. 

Archy dunque nasce già con una coscienza, non la acquisisce nel corso della storia. E neppure ha bisogno di intraprendere un percorso di formazione per comprendere di essere diverso da suo fratello. Archy è una faina diversa, e consapevole di essere tale, prima ancora di ferirsi alla zampa, prima ancora di diventare allievo di Solomon, prima ancora di apprendere l’esistenza di Dio. Tutte le esperienze che affronterà nel corso del romanzo non sono le tappe di un percorso volto al miglioramento o all’accettazione di sé, sono invece una conseguenza diretta della sua diversità. Conseguenza diretta… e prevedibile. Ragionate con me: chi è diverso prevedibilmente fallirà e si farà del male nel tentativo di imitare gli altri, non è così? Poiché fallirà, prevedibilmente verrà allontanato dagli altri membri del suo gruppo. E a quel punto o morirà (ma in quel caso il libro sarebbe fin troppo breve) oppure cercherà di apprendere nuove abilità per sopravvivere. Quel che leggiamo insomma è una serie di eventi a cui Archy è destinato fin dall’inizio e a cui non può sottrarsi.

A volte ritornano… anzi, ritornano sempre

Tutto è predeterminato. Non solo. Tutto è destinato a ripetersi uguale nel tempo, senza subire modifiche. Archy infatti conduce un’esistenza molto simile a quella già vissuta da Solomon: senza rendersene conto, il protagonista prende le stesse decisioni e commette gli stessi errori che a suo tempo ha preso e commesso anche la volpe.
Ad esempio nell’autobiografia di Solomon si racconta che in passato la volpe ha incendiato il bosco e che ha ucciso “il suo unico amore”.

Mi sedetti sul letto e cominciai a leggere. Erano fatti di cui non mi aveva parlato. […] Dovevano essere storie da dimenticare, che aveva nascosto a se stesso, e a Dio. Erano segreti. Solomon aveva incendiato un bosco, e aveva ucciso il suo unico amore.

Ora, non voglio certo rovinarvi il gusto della lettura spoilerandovi tutto il romanzo; vi basti però sapere che… Archy fa lo stesso. Non vuole farlo, non è assolutamente nelle sue intenzioni, e tuttavia, a causa di una serie di eventi, farà del male alla sua compagna e causerà un incendio nel bosco in cui vive.

E non è tutto. Archy si comporta come il suo maestro perfino quando decide deliberatamente di prendere le distanze da lui. Ecco, considerate quanto avviene negli ultimi capitoli del romanzo. Archy, ormai anziano, diventa a sua volta maestro, e insegna a un’istrice di nome Klaus a leggere e a scrivere. Anche Klaus però, come Archy da giovane, si innamora di una femmina e distoglie l’attenzione dagli insegnamenti del suo maestro. A questo punto Archy valuta il da farsi. Ricorda bene che Solomon ha sempre scoraggiato e deriso le sue passioni, sostenendo che l’unico vero amore è quello per Dio:

«Se Dio ha voluto morta quella tua sorella è perché non fregava niente a nessuno, ci si pulisce il culo coi tuoi amori, imbecille!».

Memore di quanto dolore gli ha provocato l’intransigenza della volpe, e della fatica per portare avanti una relazione senza che il maestro la scoprisse, Archy sceglie di comportarsi in maniera diametralmente opposta: incoraggia l’amore di Klaus e lo invita ad accogliere l’amata sotto il loro stesso tetto.

Io avevo in mente le parole di Solomon, che l’amore è una cosa da stupidi.
«Amala, portala qui», gli risposi.

Benché Archy prenda le distanze dalla condotta del suo maestro, non ottiene l’effetto sperato: Klaus finisce ugualmente per sentirsi diviso fra l’amore di Elena, la sua compagna, e l’affetto per Archy. Elena infatti è spaventata dalla presenza di una faina nella sua tana e preme affinché Klaus la cacci via. L’antipatia che Elena nutre nei confronti di Archy è d’altronde ampiamente ricambiata. Anche la faina non può fare a meno di provare disprezzo per la nuova arrivata, che considera “stupida ed elementare”:

Lei si chiamava Elena e puzzava come lui. Non le piacqui da subito, e io d’altronde non facevo nulla per venirle incontro. La trovavo stupida ed elementare.

Archy insomma si sforza di mutare il corso degli eventi, ma ciò nonostante il destino trova comunque il modo di sopraffare la sua  volontà e di ripetersi.

Ci troviamo chiaramente di fronte a un romanzo che abbraccia appieno la filosofia dell’Eterno Ritorno. Archy non è padrone della sua vita, tutto quel che potrebbe fare è rassegnarsi, come consigliava Nietzsche, e accettare il fatalismo, sviluppando “amor fati”, ovvero l’amore per il proprio destino.

Ora, se Archy avesse raggiunto l’amor fati, probabilmente potremmo ancora definire I miei stupidi intenti un romanzo di formazione, seppur atipico. Se infatti Archy riuscisse a conciliarsi con il fatalismo, avremmo allora un personaggio che in qualche modo è maturato, che ha trovato la sua via per raggiungere la serenità che non possedeva nella giovinezza.
Ma Archy non giunge a mai a un tale epilogo. Sì, certo, ammette la possibilità che tutto sia già stato scritto…

Finiva una vicenda durata molto tempo, una vita intera, sotto i miei occhi. Forse era già scritto che dovessi esserci […].

E però non lo accetta fino in fondo. Ad esempio, quando si accorge di star invecchiando, entra nel panico e si dispera, opponendosi con tutte le sue forze all’inevitabile fine:

Persi un dente mentre mangiavo, e la paura mi assalì tutta d’un colpo. La morte, silenziosamente, venne a rubarmi il sonno nella notte, ad avvelenare ogni mio pensiero. […] Non voglio scomparire, davvero, non voglio nemmeno pensarci.

E a conferma del fatto che tutto si ripete all’infinito, vi faccio notare che le parole di Archy sono terribilmente simili a quelle pronunciate dalla volpe poco prima di spirare:

«Non voglio morire, ti prego, non voglio morire!».
E piangeva più forte, e io con lui, perché nessuno di noi due poteva farci niente […].
«Ti prego, ti prego».
[…]
«Non voglio, basta, non voglio!».

Diverso, ma non abbastanza

Che cosa ne concludiamo? Che Archy nel corso della sua vita impara tante cose: impara a leggere e a scrivere, impara le storie della Bibbia, impara perfino a fabbricare un libro. Ma nulla di tutto questo gli serve per cambiare, tantomeno per migliorare. Archy non ha imparato nulla di davvero utile, nulla che possa fargli affrontare la sofferenza, il lutto, la propria morte e quella altrui con serenità.
Bene. Ma se né la cultura, né la filosofia, né la religione servono a farci vivere meglio… che cos’è che può renderci felici? Zannoni dà una risposta chiarissima a questa domanda. Ecco, leggete:

[Louise, sorella di Archy] Mi diede la schiena, lasciandomi avvicinare a lei. Io le salii sopra, affannato, con lei che spingeva contro di me. Sentii il blocco svanire; il mondo rimpicciolì all’istante, mi si strinse tutto attorno, in un brivido di calore. […] Solo in quel momento mi resi conto che mi ero infilato dentro di lei. […] Mi ero dimenticato della mia disgrazia in un battibaleno, nemmeno lo sguardo sprezzante di nostra madre mi toccava.

Sara era una bella gallina. […] Le morsi la testa e tirai con forza; i denti bucarono le ossa, le sentii scricchiolare in bocca. […] In quel momento la paura si era fatta da parte. […] via i pensieri, agivo tramite un desiderio invincibile, mosso dal sangue. Uccisa la prima, avrei potuto ucciderle anche tutte, e mi fu difficile non iniziare a inseguire le altre. […] Non avevo più pura, ma continuai a piangere ancora, di gioia. […] Sentivo di essere diventato forte di colpo, un vero animale.

L’attimo dopo si lanciarono tutti verso il cadavere, contemporaneamente. […] La vista di quello spettacolo mi accese immediatamente. […] Mi lanciai dentro, infilandomi tra i corpi, graffiando, combattendo la paura, aizzato dall’istinto. […] Morsi chi stava davanti a me finché non mi lasciò avvicinare di più, e a quel punto mi ritrovai davanti al cinghiale. Non vivevo un momento così sereno da quando avevo ucciso la gallina. Senza dubbi, o domande. Il presente era ritornato ad essere il mio mondo per qualche attimo, e fuori da quello, il nulla. Ero un animale. Ero felice.

Chiaro, no? Archy è felice non quando pensa, non quando ha un libro in mano o quando si sente in contatto con Dio. Archy è felice quando cede ai suoi impulsi, quando si accoppia, quando uccide, quando lotta. In breve: quando si comporta da animale. Tutto ciò che lo allontana dall’animalità lo scontenta, condurre un’esistenza da animale evoluto e intelligente è per lui nient’altro che una condanna. E di questo il protagonista è ben consapevole, giacché più volte maledice la sua conoscenza:

Non mi sentivo più un animale; avevo barattato i miei istinti per dubbi e domande, per esercitare la ragione, per contraffare la mia natura. […] Pensai anche a Dio, e alla maledizione di averlo trovato […].

Forse adesso vi sentite un po’ confusi. Insomma, se Archy sa bene che è felice solo quando asseconda la sua natura più animalesca… perché continua a leggere e a scrivere, perché non molla tutto e vive serenamente la sua esistenza da bestia? Perché si fa del male?

Be’, la risposta in realtà ve l’ho già data: Archy non può scegliere. Il fatalismo non prevede che l’individuo possa scegliere come vivere la sua esistenza. In particolare, Archy non può comportarsi liberamente da animale, perché è nato diverso da tutti gli altri animali. Consiste proprio in questo il vero dramma di Archy: la diversità. Conoscere Dio, apprendere di essere destinati alla morte, porsi continuamente domande e cercare risposte sono tutti “mali collaterali” di una mente diversa, che non riesce a essere semplicemente animale.

E forse la diversità non è nemmeno il male più grande. Peggio ancora di essere diversi è non esserlo abbastanza. Sì, perché Archy potrebbe abbracciare totalmente lo stile di vita della volpe, potrebbe astenersi dal sesso, potrebbe intraprendere il mestiere di usuraio per guadagnarsi da vivere senza dover cacciare, potrebbe starsene tranquillo fra le sue quattro mura senza doversi scontrare con i pericoli del bosco. Ma Archy non è abbastanza lontano dagli animali per prendere le distanze da uno stile di vita adrenalinico. Come diceva Blaise Pascal, “[t]utta l’infelicità dell’uomo sta nel non saper restare quieti in una stanza”, e lo stesso possiamo dire di Archy: continuamente in bilico fra l’istinto e la ragione, il protagonista è impossibilitato a raggiungere la quiete, e perciò la cerca senza sosta (e senza successo) al di fuori di sé e della “sua stanza”. Archy esplicita la sua irrequietezza in un passo in particolare…

Trascrivevo gli affari sulle tavole, segnando la merce, annotando i dettagli che mi diceva Solomon. Era un lavoro che non mi dispiaceva, ma di nascosto non aspettavo altro che di ripartire. Quando stavo troppo al chiuso, mi raggiungeva la tristezza: rispuntava dal bosco, dove l’avevo seminata l’ultima volta, e allora il desiderio del viaggio era l’unica cura. 

Ecco, in queste righe il dramma della duplice natura di Archy è chiarissimo: Archy ama il lavoro che fa, è contento di scrivere per la volpe e di guadagnarsi così il pane, mentre fuori dalla sua tana gli altri animali patiscono la fame e il freddo. Ma non basta, Archy vuole di più, vuole altro. Non sa nemmeno lui che cos’è, se è la libertà, se è il semplice bisogno di sgranchirsi le gambe (ops, le zampe!) o di respirare un po’ d’aria fresca. La sua tristezza non ha una forma precisa, e pertanto non ce l’ha nemmeno la sua cura. Infatti, badate bene a quel che dice Archy: non afferma che è il viaggio la cura della tristezza, bensì il “desiderio del viaggio”. Ciò vuol dire che Archy non guarisce dalla tristezza viaggiando, ma che crede, spera, si illude di poter guarire viaggiando.

Non t’illudere, è un’illusione

Archy (come anche la volpe) è insomma una creatura destinata all’infelicità, il destino gli ha tolto la possibilità di godersi la vita senza porsi troppe domande, e in cambio non gli ha fornito risposte. Il protagonista di conseguenza deve aggrapparsi a qualcosa per non rimanere schiacciato dal senso di smarrimento, dalla solitudine e dalla paura di morire. Ed è qui che entrano in gioco le illusioni.

L’illusione di Solomon è Dio. Si convince che il mondo non è in balia del caos, e che tutto sia governato con giustezza e raziocinio da un’entità superiore. Quindi, anche se il singolo individuo non può far nulla per cambiare il proprio destino, non c’è motivo di allarmarsi: tutto andrà bene, perché è Dio a decidere.
Così persuasa, la volpe tenta di reinterpretare ogni singolo evento della sua vita in funzione della logica divina: ogni evento si è verificato perché Dio l’ha voluto…

«Sono il figlio unico di mia madre Celine», leggevo.
Mi fermava la zampa.
«Sono il figlio di Dio, nato volpe da Celine, per sua volontà. Scrivi».
Cambiava tante cose. Insinuava Dio ovunque potesse. La maggior parte delle sue gesta, delle sue avventure, si trasformarono in missioni per conto dell’unica verità. Ogni assassinio, o ruberia, o malefatta, diventavano ricerche della luce. […]
«Rubo le galline con Victor, uccidiamo le altre per divertimento».
«Aspetta. Prendiamo una gallina per noi, e le altre le offriamo al Signore. Così».

Però si tratta pur sempre di un’illusione. Abbiamo infatti già letto della reazione di Solomon quando è sul punto di morire: smette di pregare Dio, smette di sperare in un Paradiso, smette di mentire a sé stesso, e si aggrappa invece con tutte le sue forze alla vita che  gli sfugge. Insomma, la religione è un divertissement che serve a distogliere la nostra attenzione dalla morte imminente, ma quando poi ci troviamo faccia a faccia con la nostra fine, nessuna menzogna riesce più a consolarci.

Nonostante gli insegnamenti della volpe, la fede religiosa non attecchisce profondamente nell’animo del protagonista, che si mostra molto più disincantato di Solomon:

«Il mondo è bellissimo», disse una volta. «È bella l’erba, l’acqua, gli alberi, l’aria».
Respirò profondamente.
«Forse è bello perché è l’unico che c’è», feci io.
La vecchia volpe si girò a guardarmi, era irritata.
«È così che l’avrei fatto se fossi stato Lui».
Indicò verso l’alto.
«Abbiamo i gusti simili».
«Già».

Si tratta di uno scambio di battute apparentemente insignificante, e che tuttavia ci comunica qualcosa di essenziale. La volpe crede nella Creazione, crede che il mondo non sia frutto del caos ma di un progetto divino, vi vede dunque logica, coerenza, teleologia. E ne è appagato. Archy invece non si lascia ingannare: il suo pensiero è molto più pragmatico e nichilista, non sente di potersi abbandonare al volere divino come un bimbo farebbe tra le braccia del padre. Al contrario, avverte Dio e il fato come nemici da cui guardarsi:

Mi sentii imprigionato. Non era giusto. Io volevo dimenticare, io potevo dimenticare. Allora mi fu chiaro che la colpa era di Dio. Era lui che lo voleva, era lui che si divertiva con me. […] Lo maledissi, gli chiesi di uccidermi, ma non fece nulla.

Archy non si rassegna a non essere il protagonista della propria esistenza, non accetta di consegnare il proprio destino nelle mani di Dio o del fato. Addirittura chiede di essere ucciso, purché la morte giunga quando è lui a volerlo, e non altri. In breve, Archy non ha bisogno di essere rassicurato come Solomon, e ha invece bisogno di sentirsi padrone e artefice del mondo che lo circonda. Ecco perché trae immenso conforto dalla scrittura. Attraverso la scrittura, infatti, Archy riesce a ergersi a demiurgo, a guardarsi dall’esterno e a esorcizzare la paura e il dolore. Per questo, dopo la morte dell’amata sorella Louise, Archy si sfoga riversando i propri pensieri su carta:

Dopo cinque giorni sfioravo la pazzia. La notte non riuscivo a dormire, e con la luce mi perseguitavano piccoli sogni crudeli. Fu allora che notai un gruppo di fogli vicino alla finestra […]. Li raggiunsi rotolandomi su me stesso, cercando di ignorare il dolore, gemendo a ogni movimento. Presi uno stelo di paglia dal mio letto, il più duro che trovai, poi mi morsi una zampa e lo intinsi nel mio sangue. Funzionava, scriveva. […] Scrissi del mio viaggio e di Louise, del mio sentire, di ogni emozione provata. […] Quando capii di avere finito, erano quasi passate due settimane senza essermene accorto. […] Tutta la mia rabbia era sbiadita insieme allo sconforto. Il mio viaggio era diventato un ricordo leggero, una storia terribile ma antica. […] Avevo intrappolato la mia prigione nella carta.

Inoltre, nella letteratura Archy cerca risposte e soluzioni alle domande e ai problemi che lo tediano. Così, durante un rigido inverno, Archy legge assiduamente le memorie di Solomon, come se potesse trovare nelle esperienze del suo maestro un rimedio alla fame e al freddo:

Passavo le giornate nella stanza di Solomon, rileggendo il suo libro. […] Speravo mi illuminasse di qualcosa, una buona verità che sistemasse tutto. Mi chiedevo cosa avrebbe fatto la volpe nella mia situazione […]. Leggevo di storie più buie della mia, superate con ingegno, con fortuna, con Dio dalla propria parte.

Ma soprattutto, la letteratura offre ad Archy la sensazione di potersi rendere immortale:

Più scrivo, più l’ossessione della morte si fa leggera. La sconfiggo ad ogni pagina […]. Dio porterà la mia anima chissà dove disperderà il mio corpo nella terra, ma i miei pensieri rimarranno qui, senza età, salvi dai giorni e dalle notti.

Ma esattamente come la religione, anche la letteratura non è altro che un’illusione. E infatti, Archy non riesce mai realmente a liberarsi dello spettro di Louise, il cui nome anzi ricorre ancora molte altre volte nel romanzo:

Pensai a Louise. L’immagine di mia sorella sdraiata nella neve mi apparve ancora nitida, carica di dolore, una spina mai tolta.

Inoltre, Archy non riesce a trovare nel libro di Solomon soluzioni al freddo e al suo stomaco vuoto. Infine, non sappiamo davvero dire che fine faranno le memorie che il protagonista affida a Klaus: quest’ultimo se ne prenderà cura? Qualora lo facesse, chi altri oltre a Klaus troverà interessante la vita di una faina che fu apprendista di un usuraio?

A tutte queste domande, l’autore non dà risposta. O almeno, non esplicitamente. Già, perché mi sembra che il finale del romanzo significhi pur qualcosa: Archy muore, ucciso dal suo stesso figlio. La sua creatura l’ha cancellato dal mondo. Ora, se volessimo cogliere in questo finale un’allegoria, diremmo che le nostre opere, le nostre “creature”, sopravvivono a noi, ma non ci rendono immortali. Piuttosto ci annientano e prendono il nostro posto. Benché siamo stati noi a dar loro la vita, benché raccontino di noi e ci assomiglino, nell’esatto momento in cui vedono la luce le opere diventano “altro” da noi, e acquisiscono un’identità personale. Per intenderci, sappiamo bene che Zeno Cosini è l’alter ego letterario di Italo Svevo, è “figlio” del suo essere. E il personaggio e l’autore si assomigliano, hanno molte cose in comune, questo è certo. Ma quando leggiamo La coscienza di Zeno non tifiamo per Italo Svevo, non è per lui che proviamo empatia: è Zeno Cosini il nostro beniamino. Anche se Zeno Cosini “parla” di Italo Svevo, non è all’autore che va la nostra attenzione, ma solo al suo personaggio letterario. Zeno Cosini insomma ha “ucciso” Italo Svevo e ne ha preso il posto. Chi di loro due può considerarsi immortale?

Quello che siamo

Riguardo alla natura illusoria della letteratura, si direbbe che il finale non lascia spazio a… illusioni. Ma dopotutto è questo il compito di un’opera: illudere il suo autore, e aprire gli occhi a chi legge. Ai lettori la letteratura infatti non mente mai:

«Tienili sempre con te, sono un tesoro. Ti diranno tante verità, ti faranno male, ma non potranno mai ingannarti su quello che sei, su quello che siamo».

A questo punto è arrivato il momento di capire quali verità dolorose I miei stupidi intenti può rivelarci. Finora ci siamo soffermati su quei temi (la morte, Dio, la lotta fra istinto e ragione, le illusioni) su cui siamo abituati a ragionare, e che consideriamo dilemmi esistenziali riservati solo a noi umani, esseri evoluti e superiori. La verità, però, è che leggere I miei stupidi intenti riflettendo soltanto sugli atteggiamenti tipicamente umani dei personaggi, come se tutto il resto non ci riguardasse, significherebbe leggerlo a metà. Forse ciò che è davvero doloroso e che preferiremmo non vedere sono quegli atteggiamenti bestiali da cui noi ci consideriamo immuni, a torto.

Nel mondo di I miei stupidi intenti si creano infatti situazioni molto simili a quelle presenti nella nostra società. L’unica differenza è che Zannoni le rappresenta senza agghindarle con ipocrite sovrastrutture umane. Facciamo un esempio. Crudissima è la scena in cui Otis, il fratello più debole di Archy, rinfaccia a sua madre di non averlo generato sufficientemente forte da affrontare la vita:

Nostro fratello Otis era rimasto rachitico, con le zampe che non lo reggevano. […] Nessuno gli prestava attenzione, esisteva per non esserci, all’ombra delle nostre vite. Quando si mangiava guardavamo tutti il suo piatto.
«Morirò perché non cresco», disse una sera, durante il pasto.
Ci eravamo fermati per un attimo, anche nostra madre.
«Chi te l’ha detto?», fece lei.
«Nessuno. Lo so. Non mi hai cresciuto, mamma».
Due lacrime gli scesero dal muso scarno.
«È vero», disse lei. Poi riprese, e noi pure. Nessuno però gli tolse il piatto.

Vi ricordate quando all’inizio della recensione vi ho detto di aver scorto un tono satirico in questo romanzo? Ecco, adesso potete capire perché. In questo brano Zannoni evidenza tutta la crudeltà che si cela dietro l’assistenzialismo. Otis è soltanto un peso per la sua famiglia: non riesce a vivere con lo stesso ritmo con cui vivono gli altri, e per questo è destinato a rimanere indietro, da solo. Come se la solitudine e l’abbandono non fossero abbastanza, Otis deve subire anche l’ostilità dei suoi familiari (“[q]uando si mangiava guardavamo tutti il suo piatto”), perché consuma risorse senza offrire nulla in cambio.

Perciò Otis è emarginato e condannato, anche se… be’, anche se formalmente nessuno lo priva del cibo o di un tetto sopra la testa (per il momento). Capite dove voglio arrivare, non è vero? Il nostro atteggiamento nei confronti dei più deboli (disabili, disoccupati, migranti, malati e tutti coloro che hanno bisogno di assistenza) non è poi così tanto diverso da quello dei familiari di Otis: ci preoccupiamo del loro sostentamento, e tuttavia il loro posto nella società è pur sempre marginale. Non li eliminiamo, anzi costruiamo strutture che li possano accogliere e pensiamo a misure economiche che possano aiutarli, ma… eh, forse non lo facciamo per un autentico spirito altruista, forse lo facciamo solo per evitare di prenderci la responsabilità di farli morire, aspettando che siano gli eventi a fare il loro corso. Consideriamo “umanità” questo atteggiamento, ma probabilmente si tratta più di codardia.

Altro esempio assai crudo della natura umana sono le attenzioni che Annette rivolge al figlio più forte e capace, Leroy:

Un giorno Leroy tornò con un corvo. L’aveva cacciato vicino ai torrenti […]. Nostra madre tornò dopo il tramonto, con qualche bacca da mangiare. Quando lo vide, appena entrata, si bloccò di colpo. […]
«Che cos’è?», fece lei.
«La cena».
Nostra madre lasciò le bacche sul tavolo.
«La tua cena, vorrai dire».
Poi prese il corvo, gli staccò la testa, e si mise a cucinare. Vedere Leroy mangiare quel pezzo di carne mi scuoteva dentro. La mia era una sensazione diversa dall’invidia degli altri. […] Mi sentivo stupido. A letto la sua schiena sembrava una montagna, e sognai di essere braccato tutto il tempo.

Ora, negli ultimi tempi si è discusso molto sul concetto di meritocrazia. Di primo acchito, non sembrerebbe esserci proprio nulla di sbagliato nel premiare il meritevole e il capace, a discapito di chi non lo è: è giusto che il migliore abbia i risultati che gli spettano, no? È un discorso che fila liscio come l’olio. Il problema però è che in questo discorso si danno per scontate certe premesse. Chi sostiene la giustezza della meritocrazia dà per scontato che tutti gli individui abbiano pari capacità, e che alcuni di loro riescano a emergere perché si sono impegnati più dei loro compagni. Ma è un presupposto falso. L’idea che i risultati arrivino sempre con un po’ di impegno è un’altra di quelle illusioni con cui cerchiamo di addolcire la realtà, che invece è questa: la nostra personalità, come il colore degli occhi e dei capelli, è in gran parte determinata dalla genetica. Vi sarà sicuramente capitato di conoscere fratelli che sono dotati di caratteri molto diversi, pur avendo vissuto nel medesimo contesto sociale e familiare, pur avendo ricevuto lo stesso tipo di istruzione e la stessa quantità di attenzioni dai genitori. Ciò vuol dire che la bravura di uno studente in matematica è in larga parte determinato dai suoi personali interessi, dal suo quoziente intellettivo, e anche da alcuni tratti della sua personalità che lo rendono particolarmente competitivo e deciso a emergere: lo studente bravo in matematica è nato per essere bravo in matematica; gli altri studenti non riusciranno a ottenere i suoi stessi risultati, e se li otterranno, lo faranno con il doppio della fatica. Ed è esattamente quanto succede ad Archy. Invidia il fratello per la preda che è riuscito a portare a casa, e tenta di imitarlo. Archy però non tiene in conto che Leroy è nato per cacciare: leggiamo infatti che “la sua schiena sembrava una montagna”, e anche in precedenza ci viene detto che Leroy era il cucciolo più forte fin dalla nascita… insomma, non è diventato forte a furia di cacciare, è nato forte e quindi caccia… riecco il fatalismo e il determinismo, vedete?
Ad ogni modo, Archy non vede (o fa finta di non vedere) questa decisiva differenza fra lui e suo fratello, perciò tenta di imitarlo, da bravo studente si “impegna” e va anche lui a caccia. Conosciamo già l’epilogo dell’impresa.

Nel romanzo ci sono molte altre scene di particolare crudezza, che sorprendono, fanno inorridire e spingono a porsi delle domande. Ce n’è una in particolare di cui voglio parlarvi, per via della sua intensità. È la seguente:

Ti amo Archy, è la stagione.

A proferire queste parole è Louise, sorella e prima amante di Archy. Si tratta di una battuta brevissima, in cui però l’autore riesce a condensare l’intero significato del libro. Innanzitutto notiamo che la frase è divisa in due parti, separate dalla virgola. Nella prima parte è espresso il sentimento più intenso e nobile di cui è capace l’uomo, l’amore. Nella seconda parte invece si fa riferimento alla stagione degli amori, con il conseguente picco di ormoni sessuali, e all’accoppiamento. Il concetto è chiarissimo: l’amore è solo una sovrastruttura, l’ennesima illusione con cui vogliamo abbellire la natura, con cui mistifichiamo l’attrazione animalesca e puramente sessuale. Alla fine tutto nel libro si riduce sempre a questo: siamo animali intelligenti, ma pur sempre animali, e trascorriamo la nostra esistenza cercando di venire a patti con il nostro lato ferino, tentando ora di sopprimerlo, ora di occultarlo, ora di rinnegarlo. E poiché siamo animali che non vogliono più essere animali, la strada verso l’infelicità è inevitabile.

È solo l’inizio

Bene lettori, direi di trarre le conclusioni su questo romanzo, che cosa ne dite? I miei stupidi intenti è stato certamente una bella sorpresa.
Bisogna dire però che Zannoni per molti aspetti è un autore ancora immaturo, troppo incline a “rubare” la filosofia di altri autori (si riesce facilmente a intuire l’influsso del pensiero del già citato Nietzsche, ma anche di Foscolo, di Pirandello e tanti altri ancora), e troppo poco propenso a mettere a punto una filosofia personale. Forse questa immaturità deriva anche dal fatto che l’autore, per sua stessa ammissione, ha scritto il racconto senza avere in mente un progetto preciso. Non mi stancherò mai di ripeterlo: scrivere a “ruota libera” non toglie le redini alla creatività, tutt’altro. Se la mente non sa bene “dove andare a parare”, per precauzione regredisce a modelli e idee che già conosce e con i quali si sente al sicuro, non ne sperimenta di nuovi. Quando dunque un autore scrive, come ha fatto Zannoni, senza avere un’idea definita della storia conclusa, si illude (per rimanere in tema con il romanzo) di dare libero sfogo alla propria creatività e immaginazione, ma in realtà dà voce soltanto a vecchi concetti che la sua memoria ha accumulato nel tempo, senza rielaborarli. E questo è un gran peccato, perché dalla lettura di I miei stupidi intenti risulta evidente che Zannoni sia dotato di un animo particolarmente sensibile, e che riesca a esprimere i suoi pensieri con uno stile molto d’impatto, asciutto e contundente. In conclusione, I miei stupidi intenti è sicuramente un bel romanzo, e bisogna dargliene conto. Ma non credo nemmeno che sia giusto gridare al capolavoro: in realtà si tratta soltanto di un assaggio del talento di Zannoni, che mi auguro non si adagi sugli allori e scriva presto un’opera che abbia davvero la sua voce, e non quella degli autori che ha letto. Nel frattempo, I miei stupidi intenti può aiutarvi a ingannare l’attesa senza deludervi. Buona lettura!

Sara

Ciao! Sono la fondatrice del blog letterario "Il pesciolino d'argento", amo profondamente i libri, l'arte e la cultura in generale.

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2 risposte

  1. Elisa Guasti ha detto:

    Hai notato nell’ultima pagina quando rivede il figlio nessuno, dice “cane”, non faina. È un errore?

  2. Sergio Bertoni ha detto:

    Bello. Bello e profondo questo tuo articolo di commento al romanzo di Zannoni. Hai una capacità di introspezione che fa paura. Sicura di non essere un’attempata insegnante di filosofia che ha passato l’intera vita in mezzo ai libri e ora si gode la pensione? 😀