Fare cassa – Walter Mangini

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IL GIUDIZIO:

fare cassa giallo di walter mangini edito da tagete edizioni

«Macché! Datemi una leva che solleverò il mondo ho sempre sentito dire! È fisica, eh!»
«Ma stai bono, fisico!»

Meglio un morto in cassa che…

Cosa?! È già la mezzanotte di un giorno qualunque e non sto ancora dormendo?! Oh, saranno i peperoni, oppure quegli asparagini selvatici che mi fanno galleggiaaaaare la teeeeesta…
Vabbè, la televisione mi farà compagnia. Mediaset, ora che il vecchio è volato in cielo, che hai da offrirmi? Roba di qualità mi hai promesso. Oh, c’è Massimo Ranieri, mi piace, gran voce. Ah, è… una fiction, La voce che hai dentro… uh, ma sì, insomma, Ranieri ha anche fatto dei film, se non sbaglio. D’accordo e… ahhhh! No! Bioparco!, ma i comprimari sono dei cani mostruosi! E pure Massimo, che sta affà? Che battute gli hanno dato, chi le ha scritte, Erri De Luca?! Non ce la faccio!, non ce la faccio!, Piersilvio, sei un cazzaro, questa è la stessa merda che mandava in onda tuo padre!
Basta, basta così: Mediaset, vatteneaffangoolo. Sì, e io mo’ che faccio? Uhm, ci sono sempre i libri a tirarmi su, quando sono giù. Vediamo un po’ che ha da offrirmi il bookstore: La versione di Giorgia, che schifo! Ehi, e questo cos’è? Fare cassa. Sembra sempre in tema di politica, e infatti sulla copertina leggo Walter… Walter?! Ah, no, no, non Veltroni, uff, meno male: Walter Mangini. E va bene, dai, mettiamo alla prova questo Fare cassa.

Niente politica, evviva! I mitici Ottanta. E siamo nei dintorni di Pontedera, provincia di Pisa. Paris Collanti è un giovane giornalista che, proprio da Pisa, si è appena trasferito a Pianassolato fuor del Ponte, praticamente “un mucchietto di case”. E che ci fa di ficcarsi in un simile posto? Va bene che il detto dice “meglio un morto in casa che un pisano all’uscio”, però, fino a tal punto…
Uhm, è che Paris vuole proprio quattro case in croce. La sua idea è di lasciarsi alle spalle la frustrazione vissuta a Pisa, provando ad affermarsi con più facilità nella provincia. Insomma, mica scemo, se la vasca è piccola, è più facile che il pesce più grosso sia tu, no?
Ehi, al nostro protagonista dice bene: dopo non molto tempo gli capita l’occasione di scrivere un pezzo di cronaca avvincente, facendosi conoscere. Infatti, viene ritrovata in campagna una bara, ripiena del cadavere di un certo Ferruccio, il proprietario dell’impresa funebre “Spaccamonti Onoranze”. Ebbene, insieme agli amici Pietrino e Bardo, Paris inizia a trasformarsi da reporter a detective, andando in giro per il paesino, facendo domande e indagando per conto proprio. Via una cosa, l’altra, e… be’, che volete? Alla fine tutto si sistema, in qualche modo.

Lettori, è quasi superfluo sottolinearlo, Fare cassa è un giallo molto semplice, con poche pretese e con una trama essenziale: c’è un giornalista in cerca di una (piccola) avventura, c’è la campagna toscana, c’è un cadavere (tranquilli, è un morto caruccio, niente splatter). Niente morali, niente biografie, niente Milano e niente Berlino, niente donne partigiane, niente famiglie problematiche o personaggi LGBT che vivono in famiglie problematiche, niente soggetti che si masturbano davanti alle lucertole. In tutta sincerità, la presentazione che ho fatto (ed è in fondo quella corretta, un riassunto onesto) non impressionerebbe proprio nessuno: ci sono un pugno di eventi e pochi elementi di contorno, molti meno rispetto a quelli normalmente contemplati dai gialli. E parlo di gialli garbati e ben fatti, sia chiaro, come Una manciata di cenere. In effetti, per gran parte del romanzo, tutto ciò che sappiamo è appunto che c’è il cadavere di Ferruccio in una bara e che Ferruccio, qualche giorno prima della sua scomparsa, è stato visto litigare con un suo acerrimo nemico, di nome Ivano, pure lui sparito dalla circolazione da qualche giorno. “Per gran parte del romanzo”, ho detto. Voi allora mi domandate: com’è allora che il giudizio è positivo?

El ritmo vuelta! (Forse)

Lettori, considerate che ci sono più trucchi per costruire una trama avvincente. E Mangini ne ha usati alcuni davvero azzeccati. Eh, volete che vi dica quali sono? Be’, il primo trucco è la cura del ritmo. Già, perché pur difettando di animalacci (per questo, meno male!) e di enigmi complicatissimi à la Zodiac, Fare cassa decisamente dà l’idea di essere permeato da un’atmosfera di… ma sì, via, da un’atmosfera dinamica, se non proprio da un’atmosfera di tensione, a tratti. Vi faccio un esempio concreto, dai.
A un certo punto, i carabinieri credono di aver finalmente catturato il principale sospettato, un certo Ivano, ma poi capiscono che si tratta soltanto di un ubriacone. Uhm, sai che eccitazione, i carabinieri che prendono una cantonata. Non è che la scena racconti chissà che impresa eccezionale, eppure… eppure il nostro autore riesce a conquistarci e perfino a farci rimanere con il fiato sospeso. Guardate:

I due si avvicinarono con cautela al fermato, posizionandosi uno a destra e uno a sinistra. Gli infilarono le mani sotto le ascelle e, coordinatisi con uno sguardo, provarono ad alzarlo. L’uomo non oppose resistenza. Si fece sollevare. Un volta in piedi si sostenne sulle gambe. La testa abbandonata sul petto, trafitto dalla luce abbagliante dei fari, pareva Gesù davanti al Sinedrio.
«Signor Ripianati, come si sente?!» chiese il maresciallo Binario.
Nessuna risposta.
«Secondo me, Romano, è sordo» disse il collega di Ponsacco. «Però prima, quando l’ho chiamato, è scappato! Non è sordo, allora» ripensò.
Lentamente, senza dire una parola, il povero cristo tirò su il capo. Un secondo o due e lo lasciò cadere di nuovo.
«Non è sordo. È perso! È ubriaco. O forse drogato» concluse il maresciallo Binario.
Pietrino si fece spazio con mani e gomiti fra l’appuntato Pianella e l’altro carabiniere della stazione di Ponsacco. Si portò davanti e disse lapidario: «Non è né ubriaco, né sordo, né drogato. Oppure sì, anche tutte e tre insieme. Ma una cosa è certa, maresciallo: quest’uomo non è Ivano Ripianati! Gliel’assicuro: non è Ivano Ripianati!»

Ritmo lento, eh? Ehi, un attimo: lento?! Ma allora è un problema! È vero, è vero la prima parte del brano abbonda di descrizioni esageratamente precise, che appesantiscono lo sguardo. Vedete da voi, Mangini non si limita a dire che i due agenti si posizionano ai lati del fermato, spiega invece che si posizionano “uno a destra e uno a sinistra”. Ora, vi ricorderete di sicuro, perché ve l’ho già già ripetuto mille volte: è generalmente inutile raccontare che un oggetto di scena si trova a destra, oppure o a sinistra. Infatti, a meno che in esse non sia nascosto un dettaglio fondamentale per lo sviluppo della storia (ad esempio, un personaggio che capisce di essere stato derubato perché vede il quadro inclinato a destra, anziché a sinistra come di consueto), simili precisazioni non comunicano notizie interessanti, non ci aiutano a tratteggiare nella nostra mente lo sfondo dell’azione, non agevolano lo sforzo della lettura. Tutt’altro, anzi.
Per l’appunto, i dettagli che abbiamo esaminato sono privi di valore per la trama in sé, e c’è poco da fare: il ritmo diventa una melassa densissima da attraversare. Ma dunque mi sono rincretinita? Che mi è saltato in mente di elogiare il ritmo del nostro autore?

Il fatto è che, secondo me, Mangini sa bene tutto quel che ho detto: inserendo descrizioni inutili, il nostro ottiene proprio un’estrema dilatazione del testo, e ciò con un obiettivo chiaro. Quale? Be’, semplice: il brano si chiude con un (piccolo) colpo di scena, ossia la cantonata dei carabinieri, e in sostanza le lungaggini che lo precedono servono… uh… a farcelo gustare meglio. Non siete convinti?
Allora considerate com’è il ritmo proprio nei dintorni del colpo di scena. La scrittura si fa più decisa, ta-ta-ta (“né ubriaco, né sordo, né drogato”), e troviamo una ripetizione (“quest’uomo non è Ivano Ripianati! Gliel’assicuro: non è Ivano Ripianati!”) che sottolinea lapidariamente l’emozione del momento. Non solo, notate anche anche una punteggiatura molto più fitta e un abbondare di pause lunghe. Ah, ecco, si percepisce una certa tensione, no? E va da sé che l’accoppiata con la flemma che la precede è piuttosto felice: abbiamo la fase di caricamento della molla, e… e poi la molla che salta, no? Funziona sempre, dopotutto.
Sempre a proposito dei dettagli inutili, voglio spendere due parole sulla scelta dei dettagli stessi. Eh sì, perché pure a questo proposito credo che il nostro autore si meriti un minimo encomio. Mangini, infatti, avrebbe potuto dilatare il tempo della scena descrivendo con accuratezza il luogo in cui è stato fermato il tizio: certo, peccato che, se avesse optato per tale soluzione, il romanzo avrebbe richiesto da parte nostra uno sforzo immaginativo non da poco, sforzo appunto diretto alla ricostruzione dell’ambiente, dettagliatissimo. E tale sforzo ci avrebbe in definitiva distratto, indirizzato la nostra attenzione lontano dal nocciolo della scena, cioè l’abbaglio che si sono presi i carabinieri. In sostanza, il ritmo sarebbe stato comunque lento, però, poiché ci saremmo concentrati su altro, non si sarebbe più creata la stessa tensione intorno alla rivelazione finale. Pertanto, eh, ci vuole testa non soltanto per capire quando è opportuno servirsi di lungaggini, ma anche per capire di quali lungaggini è opportuno servirsi. E dopo aver letto i mostri (sacri?), Saraceni e Ciarapica, vi dirò, incontrare Fare cassa mi ha dato una soddisfazione forse anche maggiore del dovuto.

Per senso di completezza, lettori, chiudo questa parte della mia recensione con un’ulteriore nota a proposito del brano che abbiamo fin qui esaminato. Dopo l’inizio lento e descrittivo, vedete, esso prosegue con una parte dialogata, più movimentata. Questa è una fase di transizione, ed è particolarmente importante, perché serve ad aumentare il nostro livello di coinvolgimento. Mangini, da bravo drittone, si preoccupa di farci sentire i personaggi “al nostro stesso livello”, per così dire. Ma questo implica che noi stessi ci sentiamo allo stesso livello dei personaggi. Infatti, il maresciallo e il suo collega non sanno molto sul conto del fermato e delle sue condizioni fisiche, e mentre lo osservano provano a fare ipotesi per spiegarsi ciò che stanno vedendo: non si trovano forse i due nella stessa nostra condizione “epistemica”? E non si comportano, in fondo, come supponiamo faremmo noi? In breve, i carabinieri sono spettatori della scena esattamente al pari nostro, sono i vicini di platea che parlottano fra loro di quello che sta succedendo sul palco. E poiché li percepiamo così vicini, poiché la loro perplessità è la nostra, ci è naturale cominciare da subito a rivolgere l’orecchio alle loro parole, nello stesso modo in cui prestiamo particolare attenzione al compagno di classe che ha rivolto all’insegnante la stessa domanda che ci stava ronzando in testa da un po’, o qualcosa del genere.
Vabbè, succo del discorso? La prima parte del brano, molto pedante, carica le nostre aspettative; la parte mediana, con il dialogo dei carabinieri, catalizza la nostra attenzione; la parte finale, con il colpo di scena, trae vantaggio dalle precedenti, facendoci pensare che, in fin dei conti, vale la pena vedere dove andrà a parare il romanzo.

Toh!, un dialogo che non annoia…

Va bene, va bene, è tutto qui. È tutto qui, quantomeno, per ciò che riguarda il ritmo. Sì, Fare cassa si lascia leggere facilmente: è ben congegnato sotto l’aspetto dei tempi narrativi, nulla da dire, appunto. Però, se nulla di male dev’essere rilevato, sarò onesta: non è che il nostro autore si sia servito di chissà quali eccezionali tecniche. Ha fatto bene i suoi compiti, e il risultato è all’altezza, tuttavia quei compiti sono in sostanza da scuola dell’obbligo. Sia chiaro senza possibilità di fraintendimento: la maggior parte dei geniacci delle classifiche letterarie è stata bocciata al primo anno della scuola materna (e poi ha mollato), perciò… ottimo che Mangini abbia completato tutto il ciclo di studi. Solo che… ci vuole qualcosa di più, per giustificare un alto livello di apprezzamento del giallo, no? E… e sì, c’è qualcosa che fa al caso nostro.
Lasciamo ora perdere tutto di Fare cassa, e intendo proprio tutto. Il delitto in sé, il movente, come si sviluppano le indagini, questo, quello. Tutto. Tutto, tranne i dialoghi.
Oh sì, oh sì, oh sì. I dialoghi che s’è inventato Mangini mi garbano, altroché. Non sono mai noiosi. Mai, mai. Neppure quando vengono utilizzati per qualcosa che in genere è molto noioso, come raccontare fatti accaduti al posto della voce narrante.
E se non vi sembra possibile, considerate allora questo stralcio, in cui Pietrino e Bardo raccontano di come è stato ritrovato il cadavere di Ferruccio:

«Pietrino! Ehi!»
Pietrino Del Corto lo vide. Uscì dalla strettoia e si diresse verso di lui, buttando gli occhi sulla scena che gli apparve a destra, a dir poco inconsueta.
«Bardo! Ma che è successo?! Che ci fanno i pompieri qui?! E perché ce l’hanno con quella cassa? E quella cassa da dove viene? E i due carabinieri? E te? Te che ci fai qui?!»
«Un casino! Guarda Pietrino, è un casino! È dalle dieci e un quarto che sono qui. C’ho il camioncino pieno di pesce e praticamente non ho ancora iniziato il giro! A Peccioli di certo non ce la faccio ad andare! Le vuoi sentire quelle donne domani!»
«E perché non vai?! Chi ti regge?!»
«Ora non mi regge più nessuno, ma fino a due minuti fa mi reggeva il maresciallo. Quando gli ho telefonato stamani mi ha detto che mi voleva qui, con lui, per aiutarlo a individuare la cassa.»
«Te gli hai telefonato?! E perché?!»
«Perché sì! Perché stamani, che già la mattinata era partita male, mi son fermato per fare un po’ d’acqua laggiù, in quel canneto. E cosa ti vado a scoprire?! Una bara! Quella! Allora, sono andato a Montecastello e ho chiamato i Carabinieri, che mi hanno risposto e… Insomma, m’hanno tenuto qui fino a ora! Me ne vado! Ciao!» e fece per andar giù in direzione del camioncino.

Lettori dico… no, dico, provate a mettere a paragone questo dialogo con quelli de Le regole dello Shanghai. Avanti, fatelo. Anzi, guardate, vi agevolo io il compito:

– Hai le dita leggere.
– Per la fisarmonica.
– Più che a gitani assomigli a gente slava, zigomi alti, viso largo, magra. Il colore grigio degli occhi è di famiglia?
– Il colore di quelli dell’orso.
Dicevi prima di una settimana importante.
– T’interessa? Davvero?
– Mi piacciono le storie.
– Ero al liceo, l’anno dopo la morte di mio padre.
Un compagno di classe m’invitò a ferragosto nella sua casa al mare.
Ero un intruso nel livello sociale suo e degli altri ragazzi.
C’era lei, aveva la mia età […].

Eh, eh, eh, è un po’ come… uhm, mi ci vuole un paragone raffinato… uh… è come passare dalla cioccolata alla merda. E adesso vi spiego perché. Almeno, ci provo.
Tanto per cominciare… ah, aridaje, il ritmo. Che cavolo, l’avevo mollato e adesso ritorna, mah! Eh, che volete, dopotutto la parola è un suono, solo un babbeo ed Err… uhm… vabbè, ecco… solo un babbeo, dico solo un babbeo potrebbe pensare di scrivere un bel libro senza badare al suono delle parole e al loro intrinseco ritmo.
E questo ritmo, benché intrinseco, varia non poco alla percezione del nostro orecchio, a seconda del… nostro umore. Vero, no? Quando siamo felici pronunciamo le parole in un certo modo, se tristi, in un altro modo, se arrabbiati in un altro modo ancora.
Ebbene, salta subito all’occhio che le risposte che si danno i personaggi de Le regole dello Shanghai sono atone, prive di stupore, rabbia, frustrazione, divertimento e di ogni altro tipo di sfumatura emotiva che può venirvi in mente. Al contrario, guardate quanto sentimento c’è nei dialoghi di Mangini, guardate la chiarezza con cui emergono le emozioni, ora di Pietrino, ora di Bardo.

Il dialogo esordisce con un Pietrino stupefatto e curioso, talmente curioso che non si accontenta di fare una sola domanda (come invece fa la gitana di De Luca) ma ne fa tante e a raffica.
Segue un Bardo scoglionato, che più scoglionato non si può, per aver mandato a puttane una mattinata di lavoro. Poiché è parecchio scoglionato, Bardo tenta dapprima di coinvolgere Pietrino nella sua frustrazione (“Guarda Pietrino, è un casino! È dalle dieci e un quarto che sono qui. C’ho il camioncino pieno di pesce e praticamente non ho ancora iniziato il giro!”) e la sua stizza per il ritrovamento della bara, che proprio non ci voleva (“Perché stamani, che già la mattinata era partita male, mi son fermato per fare un po’ d’acqua laggiù, in quel canneto. E cosa ti vado a scoprire?! Una bara! Quella!”); quando poi capisce che il suo amico è interessato solo alla faccenda della bara, tenta di liquidarlo come può, dandogli in tutta fretta informazioni grossolane e frammentarie (“Allora, sono andato a Montecastello e ho chiamato i Carabinieri, che mi hanno risposto e… Insomma, m’hanno tenuto qui fino a ora!”). E adesso, fate il paragone con lo spiegone del vecchio de Le regole dello Shanghai… porco cazzo, il vecchio non è minimamente infastidito dall’invadenza della gitana, sembra anzi che per tutta la sua vita non abbia aspettato altro che l’occasione per attaccare un pippone su una sua vecchia fiamma. Dico, dopo giorni accampato in tenda in mezzo alle Alpi c’hai ancora voglia di cazzeggiare e parlare dei tempi andati con una sconosciuta?
Certo, se proprio volessimo cercare il pelo nell’uovo, allora diremmo che neanche i dialoghi di Mangini sono perfetti, considerato l’abuso dei punti interrogativi ed esclamativi affiancati… però… però che cazzo, il risultato è comunque di gran lunga superiore a quella cacatina partorita da Erri: i personaggi di Mangini non sono fantocci inespressivi, sono vivi, ed è soprattutto questo che rende le loro interazioni decisamente stimolanti.

(Beat)o chi capisce come si scrive un dialogo!

E poi i beat, cacchio, i beat. Ricordate? Ne abbiamo già parlato sempre a proposito de Le regole dello Shanghai: i dialoghi più appassionanti sono quelli in cui i personaggi “lottano” a parole, cercando di sopraffare il loro interlocutore. Diciamo che ciò che ci attira di un dialogo è lo stesso che ci attira di una partita di calcio: non ci emoziona il fatto che i calciatori si passino fra loro la palla, ma che i membri delle squadre avversarie cerchino costantemente di superarsi in velocità e di fare rete. Ecco, un buon dialogo funziona proprio allo stesso modo: i dialoganti si passano la parola non per “palleggiare” ma per segnare un punto a loro favore.
E questo è proprio il modo in cui parlano i personaggi di Fare cassa.
Il brano del ritrovamento della bara prosegue infatti così…

[…] e fece per andar giù in direzione del camioncino.
«Aspetta un attimo! Ma che c’è dentro? Anzi, chi?» chiese curioso Pietrino.
«Ma che ne so chi o cosa c’è dentro! Voglio andare via!»
«Aspetta un attimo, t’ho detto! Dove vuoi andare!»
«Scusi! Lei?! Lei chi è?!» L’appuntato Ciro Pianella, che aveva seguito con gli occhi l’ometto appena sbucato di lato al camion dei pompieri, si avvicinò.
«Buongiorno. Mi chiamo Pietrino Del Corto.»
«Ha bisogno di qualcosa?!» chiese l’appuntato con un tono che esprimeva intolleranza.
«Sì, di andare a casa! Ma questo camion blocca la strada e non posso passare con la macchina.» Pietrino rispose senza mostrare soggezione per la divisa.
[…]
«Torni indietro con l’auto e passi dall’altra parte, dalla statale Toscoromagnola.»
«See, bah! Mi ci vuole un po’ e via, a passare di là! No, aspetto che si liberi la strada. A proposito: ma che è successo?»
«Ma che dice! No, no, lei qui non può stare e la strada sarà liberata fra un po’, non so quanto. Prego! Vada!»
«Guardi… carabiniere: aspetto. Zitto zitto, qui in disparte.»
«Appuntato prego, non carabiniere! Le ho detto di andare! Circolare! Sgomberare! Vada!» alzò la voce spazientito l’appuntato […].
Nel frattempo il maresciallo Binario si stava chiedendo quanto ancora avrebbe dovuto attendere prima di vedere aperta la bara. «Ma un trapano non ce l’avete? Uno di quelli che servono per avvitare e svitare!»
«Se ci s’aveva, non crede che l’avremmo utilizzato? E meno male che queste non sono arrugginite» rispose uno dei due vigili sulla cassa […].
[Il maresciallo] Si voltò verso l’appuntato, ancora in discussione con quell’ometto che pure lui aveva visto sgattaiolare da dietro il camion dei pompieri.
«Pianella! Che c’è?!» quasi dovette gridare per superare il rumore del motore del camion, ancora acceso.
L’appuntato tornò dal maresciallo.
«È quello lì! Dice di essere il custode del cimitero che si trova in cima alla salita e che non può andare a casa perché la strada è occupata. Gli ho detto di passare dalla Toscoromagnola, ma non vuole andarsene. E come mi risponde! Lo butterei di sotto al burrone, al posto della bara!»
«Ma lascialo stare. Ma che vuoi che faccia di male.»
«Non lo sopporto!»
Il maresciallo ripensò velocemente alle parole dell’appuntato. «Fallo venire qui.»
«Chi?!»
«Quel custode del cimitero.»
«Ma come?!»
«Può esserci di aiuto. Fallo venire.»

Pezzone, lettori, mi rendo conto, ma era proprio necessario. Allora, si tratta di un brano composto pressoché esclusivamente da dialoghi, eppure non risulta mai monotono: proprio perché è un continuo scambio di beat, di azioni e reazioni. Prima fra Bardo e Pietrino, poi fra Pietrino e l’appuntato, poi fra il maresciallo e il vigile e infine tra il maresciallo e l’appuntato. Ciascuno dei personaggi tenta di affermarsi sul suo interlocutore, e questo, badate bene, anche quando non c’è reale ostilità fra i due dialoganti.
Infatti, quando si parla di “lotta” relativamente ai dialoghi, viene subito in mente una lite o come minimo un alterco, una discussione. Ma la verità è che il più delle volte le nostre lotte dialogiche sono fatte di semplici sfottò e di amabili prese per il culo. Per scrivere un dialogo appassionante non è affatto necessario impegnarsi per immaginare una discussione articolata… uno sfottò ben posizionato è già sufficiente a spezzare la monotonia dei botta e risposta, come succede in questi brani:

«Oh Pietrino! Alla tua età ci vuole la gru per sollevartelo!» [Ferruccio] esordì arrogante senza nemmeno dare la buonasera.
Il minuto pensionato reagì come caricato a molla. «Ma stai zitto chiorbone, che m’hanno detto sei più veloce te a letto che Carl Lewis in pista!»
«Povero Pietrino. Io ne ho viste cose che voi umani…» si provò nella citazione l’altro con tono superiore. Non ricordandosi il seguito glissò e chiese: «C’è Lido?».
«Ma vai, disumano! C’è lido?!» ripeté a pappagallo Pietrino per sottolineare la stupidità della domanda. «Secondo te chi è quello là ripiegato su quel mobile?!»”

«Che si fa, Pietrino! Si chiamano i pompieri?» chiese il pescivendolo.
«Sìì, i pompieri! I pompieri non bastano! Ci vuole l’esercito! Ma ti levi! Te e i pompieri! Vado a prendere un gaìno e si prova a alzare la lapide.» […]

Ora, gli sfottò presenti in questi dialoghi sembrano non servire a nulla ai fini della trama (l’autore avrebbe potuto anche scrivere semplicemente di Ferruccio che entra nella falegnameria, saluta i presenti e chiede di Lido, senza rischiare di cambiare il significato complessivo del brano), ma in realtà sono proprio quell’elemento che fa la differenza, perché aggiungono colore e caratterizzano i personaggi. Ma soprattutto, conferiscono realismo al testo. E questo voglio sottolinearlo per bene, perché non capita spesso che un autore presti attenzione al realismo.
Spesso infatti gli scrittori, quando lavorano al worldbuilding, si concentrano esclusivamente sul presente, ovvero su ciò che i personaggi fanno e pensano nel momento in cui la storia è raccontata, dimenticando che il passato è importante quanto il presente, e forse anche di più, giacché lo determina. In questo modo, gli scrittori tralasciano di creare un rapporto di intima confidenza tra i personaggi della storia, i quali di conseguenza si comportano fra loro come se fossero degli estranei perfino quando invece sono amici di vecchia data. Questo fa sì che si infranga la sospensione dell’incredulità, perché non concepiamo realistico il rapporto fra i personaggi, e quindi non riusciamo più a concepire realistico nemmeno tutto il resto.
Mangini invece crea delle interazioni fra i personaggi che sono davvero realistiche: Ferruccio e Pietrino, abitanti di un piccolo paese, non si salutano con distaccata cordialità, si perculano come tutti i vecchi conoscenti. E quando Bardo va nel panico e vuole chiamare i carabinieri, Pietrino non è che si preoccupi di dissuadere il suo caro amico senza ferire i suoi sentimenti, lo prende in giro con un’iperbole (“I pompieri non bastano! Ci vuole l’esercito!”) e scherzosamente gli dice di piantarla. Il risultato sono quadretti di vita reale e quotidiana che ci fanno credere di essere al bar a parlare con i nostri amici di sempre e ci fanno dimenticare di star invece leggendo un’opera di fantasia.

Una finestra sul mondo

Un altro particolare che rinforza la resa realistica dei dialoghi è l’aggiunta di un terzo elemento che disturba i dialoganti.
Infatti, un altro errore, in cui spesso cascano gli autori impegnati nella fase di worldbuilding, è l’eliminazione del mondo esterno dalle sezioni dialogiche. Succede cioè che lo scrittore non tenga in conto che, mentre i personaggi discutono, il mondo intorno a loro continua ad andare avanti (gli uccelli cinguettano, un borseggiatore deruba un vecchietta, un temporale si avvicina…) e che pertanto rischia con i suoi eventi di… be’, rischia di distrarre i personaggi. Il dialogo può così deviare verso un tema diverso da quello di partenza, o addirittura può interrompersi. Ad esempio, supponiamo uno scambio di battute ambientato durante una giornata molto nuvolosa: ecco, l’autore che volesse dargli forma dovrebbe considerare la possibilità di introdurre uno scroscio di pioggia proprio durante la conversazione, con conseguenti bestemmie e simili.
Aggiungere un elemento del mondo esterno al dialogo rende perciò più realistico il racconto, e non solo: serve anche a creare un piccolo imprevisto che interrompe il flusso di battute e rattizza la nostra attenzione.
Il fattore “ambientale” è quindi l’ideale per ravvivare un dialogo lungo, o comunque non proprio brioso, e… e infatti, guardate un po’, Mangini inserisce un elemento esterno proprio quando Pietrino parla con un Paris molto abbattuto e giù di tono…

Con una faccia piuttosto sconsola [sic] entrò Paris.
«Proprio te! Bravo, vieni! Mettiti un po’ino qui a sedere accanto a me che c’ho da dirti due cosette!» lo accolse acuminato il piccolo custode del cimitero.
Paris raggiunse il tavolino con passo mesto e si sedette sulla sedia vuota.
«Altro che qualcosina hai scritto! […] Ascoltami bene, maremma schìcchera» si accalorò ancor di più Pietrino, «che non ti venga in mente di scrivere sul giornale di domani che questa roba ti si è detta io e Bardo perché mi fai inc… Mi fai perdere la pazienza!» riuscì a frenarsi guardando il nipote seduto a suo fianco.
Il giornalista abbassò lo sguardo. «No, Pietrino, stai tranquillo. Non lo scrivo. Non scrivo niente. Non so nemmeno se esco con un altro pezzo, domani.»
«Ecco il caffè e le patatine» annunciò Valeriana con un vassoietto in mano.
«Grazie. Te?! Te vuoi qualcosa?!»
«Sì, grazie Pietrino. Un caffè. Forte» rispose Paris apatico.
«Un caffè, Valeriana. Forte.» Il custode del cimitero, resosi conto del morale del giovane, proseguì meno collerico.
«Allora?! Il tuo articolo ha fatto furore stamani, eh! […] Ti sei prodigato tanto a raccontare degl’affaracci di Ivano e ti è mancato di scrivere di quei due buchi, forse di proiettile. È un po’ pesa come cosa, eh!» lo stilettò Pietrino.
«Grazie per avermelo ricordato. Comunque non sei il primo, come non lo è stato il mio capo Ginnasi quando mi ha chiamato per farmi il mazzo.»
Pietrino capì il motivo dell’avvilimento del giovane.
«Allora gli hanno sparato per davvero, nonno!» ribadì Mattia [nipote di Pietrino] mentre stropicciava e strattonava l’involucro scrocchiante delle patatine con l’obiettivo di aprirlo.
«Mangia le patatine!» gli rispose secco il nonno. «E la tua collega che ha scritto questo articolo qui, come avrà fatto a saperlo?!» si rivolse di nuovo al giornalista, graffiante.
Stranp!
Mattia aveva tirato troppo i lati del sacchetto e lo aveva squarciato completamente. Con una scenografica pioggia parabolica dorata, le patatine si erano disseminate tutte intorno, fortunatamente in buona parte sul tavolo, sui giornali e sul nonno.

Lettori, torniamo ancora una volta al dilemma essenziale: se più e più volte ho criticato le inutili divagazioni che in un romanzo fanno perdere il filo del discorso, com’è che adesso il caffè, e le patatine del nipote di Pietrino, vanno bene? Ve la faccio semplice: a volte è assolutamente bene perdere il filo del discorso. Certi fili di certi discorsi, almeno. Siamo sinceri, un conto è se il bidello entra in classe e interrompe una lezione pallosa, un conto è se vostra madre vi chiede di apparecchiare la tavola proprio mentre state per battere il vostro record a un qualunque Super Mario.
In questo caso, con Paris che è depresso e si autocommisera… ben venga l’interruzione! Non è certo paragonabile all’interruzione di Buonvino che prende a parlare delle proprie fobie e di altri cazzi davanti a un cadavere decapitato…

Niente di vero, per fortuna

Oltre a tutto questo, i dialoghi di Fare cassa hanno nel romanzo anche un’altra funzione: divertirci.
L’avrete sicuramente già notato, i dialoghi di Mangini hanno un tono scanzonato, leggero, allegro, decisamente in contrasto con il tema dell’opera, che parla pur sempre di un omicidio. Ci troviamo insomma davanti a un’incongruità, a un’aspettativa (la morte è una cosa seria, perciò quando se ne parla dobbiamo assumere un tono serio) che viene disattesa. E se avete letto la recensione di Niente di vero, allora sapete già che cosa significa tutto questo: comicità. E anche di un certo livello, nel nostro caso. Giusto per puntualizzare, la comicità di Mangini non si basa sullo slapstick, su macchiette stereotipate o su situazioni esagerate e paradossali (avete presente Boldi seduto sul cesso che scia sulla neve? Benissimo, non troverete niente di simile nel giallo). No, la sua è una comicità simile a quella di Pulp Fiction, data dal contrasto fra le vicende e l’atteggiamento dei personaggi.
Certo, Fare cassa è molto, ma moooolto meno pulp di Pulp Fiction. Però, però… uhm, leggete un po’ questo brano e ditemi se non avete la stessa impressione. Vi ricordate del battibecco fra Pietrino, che è incuriosito dal contenuto della bara, e l’appuntato, che lo vuole mandare via? Ebbene, a un certo punto il maresciallo dice all’appuntato di far venire Pietrino vicino alla bara, e…

L’appuntato, nero in faccia, dovette tornare indietro.
«Il maresciallo le vuole parlare» annunciò seccato.
«A chi? A me?! Eccomi! Andiamo Bardo!» rispose arzillo Pietrino prendendo sottobraccio l’amico.
«Ma che andiamo! Vuole te, non me! Io me ne vado!» obiettò il pescivendolo.
«Sì! Ora vai!»
Raggiunsero il maresciallo.
«Buongiorno, maresciallo. Ha bisogno?!»
«Forse, forse signor… come si chiama? L’appuntato mi ha detto che lei è il custode del cimitero. Se la sente di assistere all’apertura di questa cassa? Immagino che il signor Baldetti le abbia già raccontato tutto, giusto?»
«Mi chiamo Pietrino Del Corto. Sì, sono il custode del cimitero. Di certo che me la sento di assistere! Lo sa quante riesumazioni ho visto io? Centinaia. Anche Bardo rimane, vero Bardo?!»
«No. Io me ne vado. Il maresciallo mi ha detto che posso andare, e quindi vado.»
«O stai bono! Ora vai. Aspetta un attimo.»
Anche se fisicamente era quasi il doppio, Ubaldo riusciva raramente ad opporsi al minuto pensionato.
[…] Aprirono.
«No! Mamma mia!» proruppe Pietrino portandosi una mano alla fronte. «Bardo! Guarda!»
Ubaldo, che si era allontanato quanto bastava per non vedere dentro, rispose di no con il capo. Poi, visto che il maresciallo, l’appuntato, i due pompieri e il caposquadra erano muti, come in gelida contemplazione, e non stavano dando di stomaco, si fece coraggio e avanzò lentamente. Prima di fare l’ultimo centimetro, oltre il quale lo sguardo avrebbe scavalcato il bordo della cassa, chiese con il cuore in gola: «Ma che c’è?! Pietrino! Che c’è?!».
«Guarda!» rispose.
Guardò.

In tutta sincerità, questo brano mi ha veramente fatta ridere di cuore. Le incongruità si susseguono una dopo l’altra, senza darci nemmeno il tempo di tornare seri per un secondo. Si comincia con Pietrino che segue con estremo interesse i movimenti dei carabinieri intorno alla bara, nonostante poco prima si fosse lamentato con l’appuntato perché la strada sbarrata gli impediva di tornare a casa. E già qui scappa il sorrisino per il personaggio curioso come una scimmia, che però non se la sente di dismettere del tutto i panni dell’italiano pronto a lamentarsi di ogni cosa.
E poi arriva il bello. Quando il maresciallo lo invita ad avvicinarsi, Pietrino cambia completamente atteggiamento: da burbero contrariato perché non può tornare a casa, diventa un ragazzino contentissimo per essere stato finalmente coinvolto nelle faccende dei “grandi”. E, proprio come un mocciosetto che cerca di darsi un tono, Pietrino fa lo spaccone, assicura gli altri di avere esperienza (“Lo sa quante riesumazioni ho visto io? Centinaia.”)… e (LOL) cerca di coinvolgere anche il migliore amico in questo “upgrade” sociale.
Ora, non so che cosa ne pensiate voi, ma a me l’entusiasmo smodato di Pietrino mi ricorda proprio quello di Jimmy, il quale, nonostante abbia un “negretto disintegrato” in garage, è al settimo cielo perché il signor Wolf ha gradito il suo caffè…
A proposito del signor Wolf, personaggio tostissimo che invece di bersi un virile caffè amaro lo chiede con “molta panna e molto zucchero”… avete notato come è descritto Bardo? Eh, eh, grande, grosso e… e “pussè ciula che balòss”, come dicono i polentoni! Non solo si fa comandare a bacchetta da Pietrino, ma è anche il più impressionabile di tutti, e su!

Forse a questo punto vi sta tornando in mente C’è un cadavere al Bioparco, e il bel momento in cui Veltroni ci racconta della Viganò che “googlava in allegria” davanti a “un pover’uomo il cui corpo sezionato giaceva nella teca di un rettilario”. Bene, e vi state domandando perché quel passaggio veltroniano è di un’insensibilità agghiacciante, mentre la scena vagamente simile di Fare cassa no: dopotutto in entrambi i casi c’è un personaggio che non assume un atteggiamento lugubre di fronte a un morto, qual è la differenza?
La differenza sta tutta nei tempi. Veltroni ritrae allegra la Viganò proprio mentre a pochi passi da lei c’è un corpo profanato. Mangini, invece, è ben attento a non accostare la parte comica al ritrovamento del cadavere: prima scrive le cavolate divertenti, e poi svela il contenuto della bara. E per evitare qualunque effetto straniante, ecco il colpo di genio: cliffhanger! In questo modo, e con un colpo (di genio) solo Mangini, evita di rovinare la scena comica parlando di un cadavere, aumentando la suspense della narrazione. Nice!

Una specie di Pulp Fiction, e tanto basta

Va bene, basta così, saltiamo alle conclusioni. Uhm. Allora, allora. Ma sì, è ridicolo farla lunga, sono rimasta soddisfatta di Fare cassa. Mi rendo conto che la recensione è alquanto breve, però… a parte che forse voi siete anche più contenti così… però, davvero, non mi sento di dire altro. Quando si commenta un giallo, chiaramente, c’è quasi l’obbligo scientifico di sezionare minuziosamente il suo delitto e la soluzione di esso, per capire se tutte le parti sono al posto giusto, se è plausibile, se il meccanismo funziona, se c’è una buona proporzione di elementi eccitanti e di elementi “coi piedi per terra”, e via di seguito. Già, solo che… come avete inteso, quello di Mangini non è proprio un giallo serio, è qualcosa di scanzonato che ha anche un… un morto, sì. E dai, il morto è una specie di mcguffin, è una spezia che dà sapore, non è la ciccia del piatto. E così un po’ tutte le vicende, se prese per quello che sono. Concentrarsi specialmente su quanto fila la storia, o su quanto è verosimile… meh, sarebbe un po’ una dimostrazione di non aver mostrato granché interesse per il romanzo.
D’altro canto, Fare cassa non è nemmeno la parodia di un giallo, o un esperimento demenziale la cui natura sfugge pure al suo autore. Non è bene, perciò, essere troppo leggeri nel giudizio su di esso. Ha una struttura, segue degli schemi, strizza l’occhio a qualche modello consolidato. Appunto, ho menzionato più e più volte Tarantino: senza arrivare a quelle vette (se non altro perché Le iene e Pulp Fiction sono arrivati prima), Fare cassa è “qualcosa di”, ecco. E, di conseguenza, va assaporato (e poi eventualmente commentato) come “una specie di Pulp Fiction”. Una specie di Pulp Fiction, però con i pisani. Che, detta così, mette i brividi, lo so, però… oh, funziona, ve l’ho detto. Scherzo, eh, sia chiaro: tutti amano i pisani, altroché. Specialmente i livornesi, da quel che so.

Dai, seria. È una lettura piacevole, e sicuramente non scontata sotto molti aspetti. È il romanzo dell’anno? No, e nemmeno credo il nostro autore abbia mai preteso di scriverlo. A essere totalmente onesta, oltre che pignola, Fare cassa ha qualche difettuccio, specialmente sul lato della… eh, della grammatica. C’è più di un refuso, e alcuni strafalcioni che sicuramente giudico non voluti: “a lavoro” al posto di “al lavoro” (’nagg!), virgole fra il sostantivo e il predicato verbale, assenza delle “d” eufoniche quando necessarie (ad esempio in “[…] iniziò a annusare qua e là […]”). È anche vero che queste sono le magagne di qualunque libro, di qualunque tempo: solo che, ehi, oggigiorno c’è il servizio di editing… sceglierne uno attento e professionale è un compito cui l’autore dovrebbe dedicare particolare attenzione.
Ehi, lettori, minuzie, minuzie. Vi metto il mio sigillo di garanzia: quand’anche non vi piacesse quanto è piaciuto o me, quand’anche trovaste dei punti su cui discutere, quand’anche voleste poi obiettare ad alcune mie osservazioni… sono sicura che non vi pentirete di aver dato una possibilità al giallo di Mangini. Sinceramente, ho un po’ paura che qualcuno si accorga di Fare cassa e decida che è una buona base per trarre un prodotto audiovisivo. Cioè, in realtà non mi dispiacerebbe nemmeno, e secondo me si potrebbe anche farci un pensierino, solo che… eh!,… non voglio ritrovarmi la solita fiction del cazzo con (il povero) Gianni Morandi, (il povero) Massimo Ranieri e Matteo Oscar Giuggioli (il biascicone!). Ma, ehi, queste sono paranoie. Per ora c’è solo il libro, in carta e inchiostro. E, con esso, possiamo almeno fare una buona lettura!

Sara

Ciao! Sono la fondatrice del blog letterario "Il pesciolino d'argento", amo profondamente i libri, l'arte e la cultura in generale.

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