Dress code rosso sangue – Marina Di Guardo

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IL GIUDIZIO:

dress code rosso sangue romanzo di marina di guardo edito da arnoldo mondadori editore

Be’, mi concederai che non è propriamente rassicurante sapere che il luogo di cui sei ora direttrice è denominato lo showroom della morte: già tre vittime, tutte con una croce rovesciata incisa sul corpo.

Il diavolo veste Ferragni (sort of)

D’accordo, cominciamo. C’è questo romanzo, Dress code rosso sangue. Sì, insomma… be’, è una cosa… non passa inosservato, ecco. Il titolo è bello roboante, e la copertina propone una “cover art” che potrebbe andar bene anche per uno di quei film che mandano in onda su Cielo. Che posso dirvi, con delle premesse così, non ho saputo resistere. A me piacciono le cose intelligenti, quindi come potrei disdegnare un po’ di intrattenimento trash, in stile Sharknado, Jesus Christ Vampire Hunter o Piranha 3DD? Eh sì lettori, già pregustavo una trama splatter, ma talmente splatter, da essere esilarante quasi come L’ultima riga delle favole; pensate, personaggi che muoiono a caso, una protagonista sexyssima e inutilissima, una scenografia grossolana, scene d’azione (e probabilmente di sesso) over the top.
Uhm, scritto così, so che adesso vi aspettate una rettifica: “no, lettori, in realtà le mie aspettative sono state tradite”, “questa roba è una moscezza sconcertante”, “uh, uh, uh!”. Nah, macché delusa! Ho avuto esattamente tutto il trash che mi serviva. E mi serviva, eh! Quella… cosa deprimente della Gamberale, accidenti… al solo pensiero la mia bile erompe dai suoi dotti. No, no, il mondo ha bisogno di ridere, l’ho già detto più di una volta; e Dress code rosso sangue fa ridere. Benché, uhm, credo che le intenzioni dell’autrice fossero diverse. Oh, avete ragione, non vi ho ancora detto chi è la mente geniale. “Marina Di Guardo”: vi dice niente? No? Neanche a me. Ma a quanto pare è non solo l’autrice di Dress code rosso sangue, è anche una scrittrice già famosa. Famosa, forse, per essere la madre di Chiara Ferragni. Vero? Non pensavate neanche lontanamente che qualcuno dei “Ferragni’s” scrivesse eh? Invece sì, qualcuno sa scrivere. Non bene, però sa scrivere.
Ora, Il pesciolino d’argento pregiudizi non ne ha, altrimenti Frank Carofiglio non avrebbe ricevuto tre stelline per Poesie del tempo stretto; pertanto, mettiamo da parte il sangue bluastro della nostra autrice e analizziamo unicamente le parole che ha scritto. E vediamo un po’ perché il suo libro merita. Perché merita, sì. Vai con la recensione!

Vi ho già anticipato di una protagonista sexy e inutile: il suo nome è Cecilia, tradisce Francesco Monte durante la partecipazione al Grande Fratello Vip… ah, no, non è lei? No, la nostra protagonista è una ventitreenne (o venticinquenne? Non è chiaro, il romanzo dice una cosa, la quarta di copertina un’altra) laureata in Giurisprudenza. Ovviamente, è l’ereditiera di una famiglia ricca. Ma che dico ricca, è una famiglia ricchissima. Ma che dico ricchissima, sfondata. Lettori, non devo certo farvelo notare, avete capito da voi che la Di Guardo scrive di ciò che conosce. Non fraintendetemi, è una bella mossa, e per questo bisogna lodarla: pare sia l’unica, nel panorama mainstream, a scrivere con cognizione di causa. Se poi quel che conosce è di per sé alquanto ridicolo, be’, non è colpa sua.
Vi siete messi in allarme, temete che Cecilia sia una specie di Gastone, fortunella e insopportabile? Non siate precipitosi: come ci ha insegnato Veronica Castro, anche i ricchi piangono, e infatti anche Cecilia ha i suoi guai. Tanto per dire le cose come stanno, senza eufemismi, la nostra eroina deve fare i conti con i genitori, i quali insistono perché lavori nello studio legale di famiglia; capite quant’è dura, per una ragazza che preferisce seguire le proprie passioni. Be’, adesso non prendetevela con me, non ho detto che nel romanzo non ci sono per nulla colpi di fortuna: infatti, ce n’è uno piccolo piccolo che permette a Cecilia di risolvere la grana coi suoi vecchi. Grazie alla soffiata di una “conoscente”, Cecilia tenta un colloquio di lavoro presso lo showroom di Franco Sartori, un importante stilista. Esatto, benché non abbia alcuna esperienza nel mondo della moda, e benché abbia “studiato” giurisprudenza, Cecilia riesce a farsi assumere. Non è una raccomandata, smettetela! È stata assunta unicamente per le sue capacità! Pensate, lettori, Cecilia… conosce due lingue straniere. Due, sì. Mica due lingue qualunque eh! Sa parlare il tedesco, e perfino l’inglese.
Avendo dato prova a Sartori delle proprie incredibili “skill”, Cecilia inizia la sua meritata carriera di addetta alle vendite. E ovviamente fa amicizia con il capo. Tutto procede bene, finché lo stilista viene ritrovato morto. Non morto e basta, morto ammazzato. E, tra l’altro, in una sinistra cascina disabitata, frequentata solo da satanisti e malviventi vari. Sul suo corpo i segni di numerose coltellate, e questa è prassi regolare; però ci sono anche dei dettagli strani. Inquietanti, macabri. Sul suo cadavere è stata infatti incisa una croce rovesciata, e intorno al corpo si trovano pentacoli e frasi in latino. Cecilia e il suo amico omosessuale Fabio, forse perché non hanno risintonizzato i loro televisori e non possono più guardare Rai YoYo, decidono di indagare sul caso, parallelamente alla polizia. Indovinate un po’? Proprio loro due, probabilmente grazie al trilinguismo di lei, riescono a scoprire alcuni segreti inimmaginabili del povero Sartori. Pensate, lettori, frequentava un mago brasiliano (non Do Nascimento, presumo) che gli procurava amuleti e ninnoli vari. Ah, volete sapere perché, certo. Be’, negli ultimi mesi della sua vita, lo stilista stava fronteggiando una crisi finanziaria, inoltre si era innamorato di un giovane bello e bruno. Mentre le indagini (ufficiali e clandestine) si svolgono, e nuove rivelazioni vengono man mano alla luce, nello showroom di Sartori la vita procede come prima. A parte una serie di ulteriori omicidi morbosi, con coltellate, croci rovesciate, e simboli satanici, tutto va come sempre, calma piatta. Sì, sì, questo e quello, bla, bla, alla fine Cecilia e il suo amico rimettono le cose a posto. Com’era scritto dal principio dei tempi.

Trash, eh? Non so voi, ma a me ricorda una storia di Geronimo Stilton, solo un po’ più splatter e un po’ più sexy (ma non tanto di più): l’autrice tira in ballo affari loschi, violenze efferate, riti satanici (o vudù, boh), e poi fa risolvere il caso a due ventenni molto glamour, che si improvvisano detective e non sbagliano un colpo. Rallegratevi, perché il romanzo (e il trash) non si esaurisce così: ad esempio, fra un delitto e l’altro, leggiamo anche dei piccoli problemi di cuore di Cecilia. Già, il sangue e i corpi profanati non riescono a distrarla dal fatto che si sente incompresa dal fidanzato Andrea, sempre perfettino e gne gne. Per fortuna, gli orribili omicidi sono un po’ galeotti, perché durante la lettura scopriamo che Cecilia è sempre più attratta da Remo, l’avvenente ispettore che gestisce le indagini.
Ehi, aspettate, abbiamo già letto di un fidanzato barboso e supponente che fa sentire in difetto la protagonista, spingendola fra le braccia di un altro uomo più fico, vero? Il buongiorno si vede dal vicino, esatto, l’archetipo del chick-lit del caz… ehm, del chick-lit trash.

Dress code rosa sangue

Oh sì, oh sì. Intuite bene. In effetti, se volessimo classificare Dress code rosso sangue, potremmo proprio definirlo un chick-lit splatter. Marina Di Guardo ha inventato un nuovo genere letterario, e già solo per questo merita la nostra ammirazione. Come, non siete convinti della mia proposta tassonomica? Siete liberi di farlo, lettori, però io proprio non saprei classificare diversamente un romanzo in cui leggiamo prima di un cane che si disseta col sangue di un cadavere martoriato…

Mentre era in attesa di una risposta dal numero di emergenza che aveva appena composto, si accorse con sgomento che il suo cane, quasi fosse stata la cosa più naturale del mondo, stava leccando il sangue rappreso dal petto del cadavere.

… e poi (“poi”, lo sottolineo) di Cecilia che arrossisce come una scolaretta al suo primo appuntamento con la pubertà, imbarazzata dai complimenti di Remo:

«Lo showroom dove lavori è affollato di ragazze splendide, ma un po’ superficiali. Tu ti distingui tra tutte per bellezza, semplicità, intelligenza.»
«Grazie» rispose Cecilia, sentendosi avvampare.
«Ecco, sei diventata rossa.»
Lei abbassò il capo, fissando il tavolo, sempre più confusa.

Va bene, ci sono dei morti, c’è Satana… o Santana, non so se ho capito bene… ma l’atmosfera generale rimane pur sempre quella di uno spensierato rosa! Sul serio, in molti punti del romanzo emergono con prepotenza un candore e una leggerezza disarmanti. Un esempio esplicito? Consideriamo dunque il modo in cui è stata caratterizzata la protagonista, di cui è messa continuamente in evidenza la grande bontà d’animo:

La modella le appoggiò la mano sulla spalla, le rivolse uno sguardo supplichevole.
«Ti devo chiedere un favore […]
Cecilia le tese la mano, come per incoraggiarla a parlare.
«Domani sera ho un evento al Palazzo della Triennale […]. La baby-sitter mi ha appena detto che non può fermarsi fino alle undici, terresti tu Larissa? […]
Lei non esitò. Altre volte si era occupata della bambina di Sasha [la modella].
[…]
«Ma certo. Devo venire da te?»
«[…]. Grazie per questo ennesimo favore, ti sono debitrice.»

Bene, benissimo: Sasha e sua figlia Larissa non hanno alcun ruolo nella storia, l’intero brano serve soltanto a farci intendere che Cecilia è una ragazza davvero eccezionale, senza ombre e senza malizia. Del resto, confermano ciò il suo amico Fabio…

«[…] Meglio che non torni da sola. E stai attenta, domani sera. A volte sei troppo ingenua.»

… e l’ispettore fico:

Remo, invece parve apprezzare la sincerità e la sua inconsapevole naïveté. Le dedicò un sorriso colmo di tenerezza.
«Sai cosa ammiro di più in te? La tua propensione a essere così spontanea, vera. […]»

Insomma lettori, la Di Guardo ce lo ripete fino allo sfinimento: Cecilia è buona, bella, dolce, gentile, e tutti gli altri aggettivi del caso. E, sia ben chiaro, è così dall’inizio alla fine della storia. Uhm, volete fare gli avvocati del diavolo? No, sappiate che la nostra autrice non esaspera l’innocenza di Cecilia per rendere più violento l’impatto fra il suo carattere e l’oggettiva crudeltà del mondo. Non assistiamo affatto a una sorta di crescita, vi sia chiaro una volta per tutte. Infatti, quasi alla fine del libro, Fabio avverte l’ennesimo moto di tenerezza nei confronti della sua amica:

«Sembri un uccellino scappato dal nido […] sei così vulnerabile, fragile. Qualcosa di prezioso da difendere e proteggere.»

Certo, perché no? Cecilia ha già visto morire molti suoi amici, e nutre la sotterranea paura di poter essere la prossima sulla lista, quindi… come dite? È il momento giusto per sfoderare la grinta e le unghie, per ribellarsi al ruolo di animaletto fragile che deve continuamente guardarsi dal predatore? Ma che dite, volete forse scrivere un thriller decente? No, guardate e imparate come si fa del trash fatto bene. Dopo l’imbarazzante (e un po’ sessista, direi) affermazione di Fabio, la nostra protagonista… gongola:

Cecilia non replicò, intenerita. Quella definizione le piaceva, la descriveva perfettamente […].

Buoni o cattivi (non è la fine)

Ma insomma lettori, questa Cecilia è un cliché preso di peso proprio da un chick-lit! No, che dico, addirittura da una fiaba. In effetti, i due generi (sempre che consideriate il chick-lit un genere) hanno delle somiglianze. In una fiaba, come pure in un chick-lit, il desiderio dell’autore è di trascinare il pubblico all’interno di un sogno: la finzione è certa, palpabile, e volete sapere perché? Be’, forse lo sapete già: la finzione è evidente perché non succede nulla di irreparabile. Anzi, non si teme nemmeno che possa accadere. Il lieto fine è scontato, ed è anche esagerato. Se questa è la base teorica, non è difficile capire che la protagonista di una fiaba (o la protagonista di un chick-lit) deve essere adorabile (adorabile, non irritante, eh). Ma sì, se così non fosse, non si potrebbe simpatizzare per lei, e se non si simpatizza per la protagonista, non si può godere del lieto fine che la riguarda. In un thriller, invece, l’autore non intende vendere un sogno, bensì un’approssimazione quasi infinitesimale della realtà: e la realtà è torbida e crudele. Il protagonista dunque difficilmente è “adorabile” (tutt’al più è carismatico): è un personaggio realistico e sfaccettato, con pregi e difetti. Pregi e difetti, eh? Certo, ricorrente nei thriller è la doppiezza: se l’antagonista è capace sia di commettere atrocità, sia di fingersi un onesto cittadino, perché mai l’eroe dovrebbe essere piatto, totalmente buono?
Ecco, Cecilia… Cecilia. Probabilmente, l’essere Milano un’inquinata metropoli moderna è l’unico motivo per cui non la vediamo cantare insieme ai cerbiatti e agli uccellini. Se solo Marina Di Guardo avesse ambientato la storia a Roma, forse avremmo potuto apprezzare un duetto di Cecilia con un cinghiale. Ora non fraintendetemi, la nostra protagonista non è l’unico personaggio monodimensionale: anche altri soggettoni sono caratterizzati in maniera assai (e dico assai!) irrealistica. Georgette Lazare, ad esempio, la direttrice dello showroom di Sartori. Non ha particolare simpatia per Cecilia. Oh, dite voi, ma questo è aderente alla realtà, nessun essere umano in carne e ossa può trovare gradevole Cecilia. Oltretutto, il mondo della moda è estremamente competitivo, ed è perciò naturale che all’interno di uno showroom ci siano parecchi attriti fra la “boss” e i dipendenti. Anche se nel film si parla di una rivista di moda, Il diavolo veste Prada vi può dare un’idea di ciò che intendo. Però, però… Miranda non è proprio “cattiva”, più che altro è estremamente severa, esigente e intransigente. Parliamoci chiaro, è una donna che probabilmente ha faticato non poco per capire come fare bene il suo lavoro, ed è ben consapevole di ciò; per questo non perdona ai sottoposti errori e leggerezze che rischierebbero di compromettere il buon nome della rivista. Già, già, ma poiché il realismo di Dress code rosso sangue è andato in vacanza, chi ha in antipatia la nostra principessina Disney è necessariamente un personaggio disgustoso

[…] a un tratto [Cecilia] sentì una voce che sovrastava il brusio di sottofondo. Era Georgette Lazare […] [l]a stava chiamando da chissà dove con il consueto tono stridulo, vagamente isterico che la contraddistingueva. […] [Cecilia] [l]a osservò di sottecchi, statuaria ed eccessiva nel suo completo a fiori nei toni del rosa, le scarpe rivestite della stessa stoffa. […] [A Cecilia] sfuggì, maligno, un sorrisetto. Anche Franco le aveva confidato che certe mise di Georgette lo facevano inorridire […].

Ma sicuro! Voce stridula, isterismi vari, vestiti pomposi ed “eccessivi”… oh lettori, manca soltanto che Georgette calzi un quarantacinque, e possiamo supporre che il padre di Genoveffa e Anastasia abbia avuto qualche altra frequentazione, oltre alla madre delle due sorellastre. Tanto più che il motivo per cui Georgette tratta male Cecilia è…

A Georgette non era sfuggita la carriera fulminante della nuova arrivata. Di sicuro, la osservava con considerevole allarme. Col tempo, l’invidia e il risentimento della donna erano cresciuti a dismisura, trovando via di sfogo in ripicche e vendette sotterranee. Direttrice dello showroom da anni, con uno stipendio a molti zeri, di certo vedeva in quella ragazzina brillante che parlava perfettamente due lingue straniere la concreta minaccia di essere scalzata dal suo ruolo di dirigente.

Ah, ah, ah! Ah, ah! Ah, ah, ah… ehm. Scusate lettori, non ho potuto trattenermi. Insomma, Georgette, Georgette. L’irreprensibile Georgette. Direttrice dello showroom da anni, stimata dal capo e dai colleghi, stipendiata con cifre da capogiro. Si sente minacciata da Cecilia perché quest’ultima… parla due lingue?! Oh lettori, non pretendo affatto che Marina Di Guardo sappia come la gente trova lavoro, ma ecco, tutto questo mi sembra decisamente, uhm, fantasioso? Sì, fantasioso, quindi Dress code rosso sangue è anche un fantasy. È il primo fantasy horror chick-lit.

Trasformazione!

Va bene lettori, abbiamo assodato che i personaggi sono… quello che sono. Ma allora come si conciliano con una trama ricca di morti orride e scabrose? Semplice, non si conciliano. Vi ho già detto che Cecilia e il suo amico Fabio decidono di improvvisarsi detective per scoprire il colpevole dell’assassinio di Sartori. Sì, ma i nostri sono spesso del tutto inconsapevoli della gravità della situazione e del pericolo che corrono. Tanto per fare un esempio, a un certo punto Cecilia e Fabio riescono a mettersi sulle tracce di Bocão. Sì, quel mago brasiliano, quello sospettato di essere l’assassino. Vogliono vederlo in faccia, ma non vogliono che il mago veda in faccia loro. Bene, con un astuto stratagemma, Cecilia si camuffa da Valentina. Proprio “quella” Valentina. E poi, davanti al mago, se la ride un po’ sotto i baffi:

[Parla Bocão] «L’intero amuleto montato in una speciale lega di oro e platino avrà un costo di almeno ventimila euro. […]»
«Così tanto?» replicò Fabio, spalancando gli occhi, dando l’impressione di essere rimasto davvero colpito dal costo esorbitante del talismano.
Cecilia lo osservò di sottecchi, senza riuscire a trattenere un sorrisetto divertito. Se Fabio avesse deciso di cambiare mestiere, avrebbe potuto iniziare una promettente carriera di attore.

Lettori, un brano del genere andrebbe benissimo se stessimo leggendo un Geronimo Stilton, come ho detto, oppure un gialletto della serie Il battello a vapore. Una comitiva di studenti delle medie coalizzatisi per scoprire chi ha fatto sparire i palloni della palestra, ecco. Non è invece accettabile in un thriller serio, pensato per un pubblico adulto. L’idea stessa di un travestimento è comica, e non c’è bisogno di ricordare che è spesso parte di trame leggere. Non c’è bisogno, ma non fa male, perciò considerate questi esempi: White chicks, Mrs. Doubtfire, Perla nera, Funny money. Perché, mi domandate? Be’ la risposta è intuitiva: no, non si tratta di una tradizione narrativa, è che i travestimenti (in generale) difficilmente funzionano, nella realtà perfino i bambini riescono a riconoscere i genitori camuffati da Babbo Natale. Oh, ma Dress code rosso sangue è stato pubblicato! Mah, forse ai piani alti credono che Mrs. Doubtfire sia un documentario…
Va bene, va bene, poniamo pure che un caschetto nero basti a Cecilia per rendersi irriconoscibile. Eh. Ma perché Cecilia ride? Sì, abbiamo capito che è divertita da Fabio, ma ciò che davvero è incomprensibile è perché sia così rilassata. Non è un riso isterico, no. Oh lettori, Fabio e Cecilia dovrebbero trovarsi davanti a un assassino, a uno che venera Satana e che ha ucciso un nome molto noto: non dovrebbero essere… uhm… più tesi? I due dovrebbero essere cauti, e anche un po’ spaventati, non vi pare? A Marina Di Guardo non pare proprio. Perciò, siamo costretti a leggere una scena di contrattazione tra Fabio e un vucumprà, tanto è distesa l’atmosfera.

La nostra autrice, insomma, commette lo stesso errore del “maestro del thriller”: unisce un intreccio leggero con un intreccio scabroso, inquietante. Sì, lettori, lo so, non siete granché convinti, vorreste obiettare che molti gialli hanno una spiccata vena umoristica. Avete assolutamente ragione. Però, badate, gli autori di quei gialli non si limitano ad accorpare omicidi e scenette comiche. Pensate ad esempio alla serie Monk. È divertente, no? È divertente, nonostante ogni episodio inizi con un omicidio. Che cosa dovremmo dedurre, che i fan della serie sono persone orribili, con un terribile senso dell’umorismo? Macché, il segreto sta nel modo in cui gli autori del programma fanno percepire il “male”: le vittime sono molto spesso persone che conosciamo solo quando sono già defunte, con cui non riusciamo a stabilire nel corso dell’episodio alcun tipo di legame emotivo. Le vittime, inoltre, vengono in genere uccise in maniera molto “ordinaria”: avvelenamenti, colpi di pistola, accoltellamenti, “incidenti”. Eventi crudi, sì, ma che troviamo in un certo senso “accettabili”, perché fanno parte di una triste quotidianità. Al contrario, gli smembramenti, i simboli satanici incisi sul corpo, le teste mozzate, e chi più ne ha più ne metta, non sono eventi comuni: quando ci imbattiamo in notizie che riportano simili avvenimenti, siamo inevitabilmente pervasi da un senso di orrore (a meno di non essere dei sociopatici come Alessandra Mendoza). Ora, l’autore di un giallo serio, o direttamente di un thriller, deve mantenere, e se possibile accrescere, quel senso di orrore di cui ho detto; di sicuro non può ridicolizzarlo affiancandolo a elementi stupidi, perché l’effetto finale su noi poveri lettori (o spettatori) è sì di orrore, ma di un altro tipo.

Monk(o)

Non insistiamo oltre, via, mettiamoci una pietra sopra. Il modo in cui la Di Guardo confonde gli elementi comici e quelli tragici dà come risultato (indesiderato) un effetto grottesco, e fin qui non ci piove. Ma sapete che Il pesciolino d’argento è anche un blog gentile, quindi è il caso di vivisezionare ulteriormente Dress code rosso sangue per vedere se ha qualche pregio. Un minuscolo pregio, suvvia. Vi propongo questo esperimento: facciamo finta che la trama da chick-lit e quella del thriller non convivano nello stesso libro, proviamo a scorporarle e a considerarle singolarmente. Magari insieme non funzionano, ma da sole… chissà!
Esaminiamo meglio la storia d’amore: Cecilia è fidanzata con Andrea, un dipendente di suo padre. Andrea è posato e conformista (non capisce e non condivide la scelta della fidanzata di abbandonare lo studio legale per fare l’addetta alle vendite da Sartori), ma è anche protettivo e rassicurante; tali caratteristiche fanno sentire Cecilia sia incompresa, sia protetta. Molto più affine alla nostra protagonista è Remo, che pure ha deluso i genitori intraprendendo una carriera da poliziotto: solo per questo, riesce a capire la frustrazione di Cecilia. E poi è un poliziotto, più protettivo di così! Ebbene, mentre le incomprensioni e le liti fra Cecilia e Andrea crescono… e crescono… e crescono, Remo guadagna terreno, e riesce a combinare un appuntamento galante. Neanche a dirlo, Cecilia è “presissima”, e spera che Remo la baci e la “riaccompagni a casa” (if you know what i mean).
Uhm. Ci sono due cose che proprio non funzionano. Ecco la prima: Cecilia passa con troppa leggerezza da Andrea a Remo. Sì, la leggerezza è il tallone d’Achille (o forse “da killer”… ah, quanto mi manca il vecchio Grande Fratello) di Dress code rosso sangue: ce n’è troppa, per fino nei momenti che la richiedono. Riflettiamo su qualche esempio tratto dal romanzo, a cominciare da questo: Cecilia, in compagnia del buon Fabio, non riesce più a negare a sé stessa di essere interessata a Remo, benché sia ancora fidanzata con Andrea…

[Fabio a Cecilia] «Senti, a me puoi dirlo […]. Avevi voglia di rivederlo, non è vero? […]»
Lei abbassò di poco gli occhi, esitò qualche secondo.
«Sì, avevo voglia di vederlo. Anzi, ti dirò di più: quando sono arrivata all’appuntamento, stavo addirittura pensando che sarebbe stato bello partire con lui […]. Chissà, probabilmente sono totalmente impazzita, o forse ho solo bisogno di evadere dalle situazioni angoscianti che sto vivendo.»
«Io credo che tu abbia solo voglia di sentirti lieve come deve esserlo una ragazza della tua età, come forse non sei mai stata in tutta la tua vita.»

Ecco, Fabio suggerisce a Cecilia un’idea interessante: forse si è “accasata” troppo presto, senza darsi il tempo di vivere con spensieratezza i suoi vent’anni. Ma, ma… forse Fabio si sbaglia, e Cecilia non sta cercando “divertimenti”, bensì l’uomo della sua vita. Ma, ma… forse, come già sospettato proprio dalla nostra protagonista, tutta la faccenda è una reazione di difesa della sua mente, che la indirizza verso gli svaghi per evitare di soccombere al peso della sequela di morti. Oh, insomma, Cecilia ha molti dilemmi su cui riflettere, non trovate? Peccato, ha già speso tutte le sue energie per imparare perfettamente due lingue straniere, quindi dà ragione a Fabio e si guarda un film:

«[…] come forse non sei mai stata in tutta la tua vita.»
Cecilia fu d’accordo con lui. Come sempre, Fabio aveva colto nel segno.
Quando arrivarono a casa, decisero di cercare un film per svagarsi e trascorrere la serata cercando di evitare pensieri angoscianti. Optarono per un lungometraggio comico di qualche anno prima. Cecilia l’aveva già visto più volte, ma concordò sulla scelta: alcune scene le provocavano attacchi di ilarità incontenibile […].

D’accordo, Dress code rosso sangue come chick-lit è… gne! Un rosa che si rispetti ha come argomento principale i vari tormenti d’amore; sì, alla fine si risolvono, non si tratta di veri tormenti, però almeno nel corso della trama sono sviluppati in qualche modo, più o meno. La paura di farsi del male, il timore di perdere ciò che non riesce a emozionarci ma che ci dà sicurezza, l’eterna esitazione: bene, la Di Guardo sorvola su tutto ciò, preferendo parlarci delle reazioni di Cecilia che guarda un film cretino. È una mia ipotesi, ma secondo me la nostra autrice non ha ancora ben capito che un romanzo non funziona proprio proprio proprio come una storia su Instagram; cioè, l’interesse che un’opera letteraria (anche modesta) riesce a suscitare nel pubblico non è proporzionale alla quantità di momenti di vita quotidiana descritti nelle sue pagine…

L’intreccio “rosa” di Dress code rosso sangue ha poi un altro grande problema: be’, non finisce. Sì, avete capito bene. A un certo punto viene troncato e basta. Eravate un minimo curiosi di sapere con chi si sarebbe definitivamente accoppiata Cecilia? Ciccia! Lettori, lo so, sto andando troppo di fretta, facciamo un passo indietro e riprendiamo dal punto in cui eravamo rimasti: Cecilia ha un appuntamento galante con Remo, il quale confessa di avere una ex in Sicilia, e di incontrarla ancora occasionalmente. Cecilia si stizzisce per la gelosia, e Remo si raffredda. La protagonista intanto continua a investigare per conto suo, e con Fabio parte per Noto, dove scoprirà infine l’identità del serial killer. Ebbene, quando leggiamo di Cecilia e Fabio che prendono l’aereo per la Sicilia, siamo proprio sul finire del libro: a un passo dalla conclusione, Cecilia si domanda ancora che cosa prova per Remo…

Remo è affascinante, pieno di calore, ma non è l’uomo adatto a me. Apparteniamo a mondi troppo diversi.
Si chiese se quel pensiero fosse autentico o solo il goffo tentativo di bloccare un’attrazione nascente.

Poi, il nulla. Il caso si risolve, dopodiché Remo e Cecilia si incontrano solo per necessità (no, non “quelle” necessità):

Remo era arrivato il giorno stesso a Noto, con l’ultimo volo da Milano. Non aveva avuto il coraggio di chiederle una deposizione completa, si era accontentato del resoconto dettagliato che Fabio aveva rilasciato con grande accuratezza, rimandando l’opportunità di sentirla quando fosse tornata a Milano.

E poi, a Milano…

Remo l’aspettava nel suo ufficio. Quando lei arrivò, si alzò in piedi e la fece accomodare sulla sedia davanti alla scrivania. Aveva un’espressione seria, preoccupata. Quella dei giorni più cupi.

Facciamocene una ragione, non sapremo mai nulla della loro storia e dei loro sentimenti, non sapremo se hanno provato a frequentarsi, o se hanno capito che la reciproca attrazione era soltanto passeggera. L’intreccio amoroso si interrompe, come questa sezione della mia analisi.

«Perché siamo qui adesso?», urlò Cecilia

E noi allora… mah, fingiamo che Dress code rosso sangue sia un thriller puro e consideriamo gli omicidi. Lettori, non so proprio da dove cominciare. Questo intreccio macabro non ha senso, a partire dalla decisione di Cecilia e Fabio di indagare per proprio conto. Perché si ficcano in un tale pasticcio? Di certo la letteratura gialla pullula di detective improvvisati, ma tutti hanno un motivo per immischiarsi in affari sporchi e pericolosi. In Beata gioventù, per darvi un punto di riferimento, l’anziana protagonista è indignata dalla noncuranza e dalla superficialità con cui la polizia sta cercando di risolvere l’omicidio di una sua amica. In altri casi (non so quanto più aderenti alla realtà) è la polizia stessa che sceglie di avvalersi dell’aiuto di un volenteroso “civile”. In Dress code rosso sangue tutto è molto più confuso. Cecilia vuole fare luce sull’assassinio del suo amico stilista per rendergli giustizia; però si fida di Remo e della polizia; però alcune informazioni se le tiene per sé e non le condivide con chi lavora alle indagini. Insomma, è impossibile capire le ragioni dei personaggi, anche quando loro stessi tentano di chiarirle. Una bella prova di quel che dico è il seguente scambio di battute tra Fabio e Cecilia, la quale spiega al suo amico perché è assolutamente necessario che investighino in un cruising bar frequentato da Franco Sartori:

«Io credo sia importante indagare nella vita privata di Franco. Forse sarà un buco nell’acqua, forse no, ma è solo un tentativo. Non rischiamo niente e, in via informale, potremmo ricavare molte più informazioni di quelle che la Polizia raccoglierebbe mandando in campo agenti in divisa che non invitano certo a svelare verità scomode.»

Lettori, non so bene come interpretare una simile esternazione. Forse la Di Guardo crede che i poliziotti in borghese siano un qualche tipo di ceto sociale (inferiore al suo, ovviamente), forse crede che gli agenti in divisa siano modelli di body painting. Mah! Fatto sta che non esiste un filo logico nella trama, la nostra autrice si limita a raccontare senza prima chiedersi perché i suoi personaggi dovrebbero agire in un certo modo. E dire, lettori, che in realtà sarebbe bastato davvero poco: sarebbe stato infatti sufficiente che Fabio non ci fosse, e che i due “partner in crime” fossero Cecilia e Remo. Seguendo tale canovaccio, la trama non si sarebbe inutilmente complicata con ridicole investigazioni parallele. Inoltre, indagando insieme, Cecilia e Remo avrebbero avuto maggiori possibilità di conoscersi. Tombola! Pure l’intreccio rosa avrebbe acquisito un po’ di spessore, e si sarebbe integrato meglio con l’intreccio giallo. D’altra parte, nel romanzo, Cecilia e Fabio trascorrono in effetti dei momenti molto intimi. Mentre sono a Noto, ad esempio, Cecilia ha un incubo e Fabio la abbraccia per rassicurarla:

Una lama di luce, filtrata dalle persiane, li aveva svegliati abbracciati e un po’ sudati. Quando avevano aperto gli occhi, si erano sorpresi nel ritrovarsi così vicini, così intimi.

È un momento indubbiamente tenero, ma… inutile. Cecilia e Fabio si vogliono bene e sono buoni amici, sì: e allora? Già lo sapevamo. Se invece i protagonisti fossero stati Cecilia e Remo, be’, la scena avrebbe acquisito una certa importanza: la protagonista si sarebbe definitivamente resa conto che Remo è molto affezionato a lei, e che è disposto a tutto pur di farla sentire bene, e quindi…

E poi ci sono le orge

Lettori, capite che per creare una buona trama spesso basta utilizzare bene pochi elementi. Già. Eh, la Di Guardo non soltanto li utilizza male, ma li utilizza male ripetutamente. Vi ricordate? Travestire Cecilia da Valentina non è stata un’ottima idea; eppure la nostra autrice, entusiasta per la trovata, traveste di nuovo Cecilia (da uomo, stavolta) affinché possa entrare nel cruising bar.
A proposito del cruising bar… no, non subito, prima concedetemi una piccola premessa. Io ho il dubbio che la nobiltà della Di Guardo non affondi le sue radici in Instagram, ma addirittura in Francia. Secondo me è una lontanissima parente del marchese De Sade, perché pare avere una vera e propria fissazione con le orge. E di orge si occupano proprio il mago Bocão e un amico di Sartori, tale Alfredo Torriani. Torriani, a quanto pare, adescava e drogava modelle per convincerle a partecipare a esclusivi festini hard, a cui prendeva parte la crème de la crème milanese:

Le celebrazioni venivano organizzate in palazzi sontuosi, partecipavano imprenditori, figli di papà dell’alta borghesia milanese […]. Bocão […] [f]aceva indossare a tutti i partecipanti strane tuniche nere corredate di cappuccio […].

Uhm, sarebbe stato sicuramente meglio se l’autrice avesse seguitato a trattare delle orge private di Torriani, benché l’atmosfera paia sfacciatamente scopiazzata da Eyes Wide Shut. Tali orge, infatti, sono riservate, del tutto precluse a paparazzi e a ficcanaso. Insomma, sono festini che meglio si adattano alla trama di un thriller, e riescono a dare anche una vaga immagine della corruzione e della perversione che si nasconde in certi ambienti.
Per carità! La Di Guardo rinuncia presto ad approfondire: fa morire Torriani, e inizia a parlare di un altro luogo di trasgressione, appunto il cruising bar. Ma il cruising bar, rispetto ai festini privati, ha un enorme problema: è un luogo pubblico, in cui si entra semplicemente presentando la carta d’identità! Lettori, sono solo io, o anche voi concordate con me che è assurdo che una persona famosa come Sartori si faccia vedere a capo scoperto in un posto tanto compromettente? E non è parimenti assurdo che, nonostante tutto, la polizia non ne sappia nulla? Inoltre, sono certa che non vi è sfuggito un particolare: se all’ingresso del cruising bar è richiesta la carta d’identità, come riescono Fabio e Cecilia a entrare, senza lasciare tracce del loro passaggio? Oh, oh, stavolta la Di Guardo non si lascia cogliere impreparata! Il buttafuori chiude un occhio su Cecilia, mentre per Fabio ecco in arrivo un bel deus ex machina con i fiocchi:

[Parla Fabio] «Non ti preoccupare, immaginavo che ci avrebbero chiesto i documenti per fare una tessera, e mi sono preparato: gli ho dato un documento falso che ho fatto qualche anno fa per gioco in un mercato turistico in Thailandia. La foto è talmente sfocata che sfido chiunque a riconoscermi.»

Lettori, ma… ma… come è possibile che all’ingresso accettino una carta d’identità con una foto sfocata? E poi, non è davvero una coincidenza fin troppo fortuita che Fabio avesse bella pronta una carta d’identità fasulla in casa? Fabio, Fabio, che cos’altro ci fai con quella, eh?

Fatevi forza, quello che ho appena riportato non è l’unico deus machina del romanzo. Il più assurdo e bello è… LOL… un passaggio segreto. Sì, lettori, sì, oh sì. Un passaggio segreto. In un castello? Meh, non proprio, nello showroom di Sartori. Esatto. E non è tutto. Il passaggio segreto non viene neppure scoperto: Cecilia, a un certo punto del romanzo, si ricorda improvvisamente che una volta aveva visto Sartori sparire proprio in quel pertugio. Siccome era un dettaglio assolutamente irrilevante e ordinario, la nostra protagonista si era… dimenticata di dirlo alla polizia:

[Cecilia] Stava già preparandosi a uscire quando, guardando con la coda dell’occhio un enorme ritratto di Franco […], le venne in mente, del tutto improvviso, un ricordo. […] Cercò di mettere a fuoco l’esperienza vissuta diversi mesi prima: […] aveva visto Sartori di spalle. Con la mano stava sfiorando un punto della grande specchiera […]. Dopo uno scatto secco, si era aperto un varco. Una vera e propria porta scorrevole a scomparsa che portava a uno spazio comunicante di cui lei ignorava l’esistenza.

Lettori, abbiamo appena toccato livelli di trash come non accadeva dai tempi de La profezia della curandera. Sono felice. E se siete felici quanto me, allora dovreste proprio leggervi il prossimo paragrafo. Vi avverto, c’è qualche anticipazione pesantuccia (qualche brutto spoiler, per i millennial che stanno leggendo) ma non potevo evitare, l’alternativa era di farvi godere soltanto a metà.

(SPOILER ALERT) Lavarsi accuratamente dopo la lettura

Cecilia e Fabio sono a Noto, alla ricerca del compagno di Sartori. Lo trovano, e scoprono che si tratta… ta-dah!… di Andrea, il fidanzato di Cecilia. Per paura che la sua omosessualità venisse allo scoperto, Andrea ha ucciso prima Sartori, e poi tutti quelli che avrebbero potuto sapere qualcosa della loro relazione. Un gran colpo di scena, non c’è che dire. Solo che… uhm. A ben guardare, è un colpo di scemo alla Francesco Carofiglio! Vi rinfresco la memoria: i colpi di scena sono tali se il lettore non se li aspetta, sì, e se risolvono un mistero della trama. Se sono coerenti con certi dettagli della narrazione, fino a quel punto “incomprensibili”, “strani”. Be’, in Dress code rosso sangue non ci sono delle “stranezze” che trovano il loro logico posto dopo il colpo di scena finale. O meglio, delle avvisaglie ci sono, ma si risolvono prima ancora che possano essere considerati dei problemi. Ad esempio, leggiamo che Andrea si lava accuratamente subito dopo aver fatto l’amore:

[Cecilia] Lo vide alzarsi e andare in direzione del bagno per lavarsi. Avrebbe voluto che rimanesse a lei dopo l’amore […].
Andrea si accoccolò vicino a lei, la strinse a sé.
«Amore, lo sai che ho avuto un’educazione rigida, quasi ossessiva. Quando ero piccolo, mia madre mi lavava spesso, e forse la sua fobia è diventata anche la mia.»
La ragazza lo guardò, polemica. «Un po’ mi offende questo tuo repentino bisogno di pulizia. Perché? Non sono di certo infetta.»

Ecco lettori, leggendo questo brano con il senno di poi, potremmo credere che Andrea, lavandosi, tentasse in un certo senso di “togliersi di dosso” l’odore e gli umori femminili, poiché ne è disgustato. Un’ipotesi assolutamente dignitosa, perfino corretta, se, più avanti nel romanzo, Andrea non avesse vinto con facilità il suo bisogno di lavarsi, pur di far contenta Cecilia:

Fecero l’amore. Quella volta lui non si allontanò come era solito fare, sgattaiolando subito in bagno, ma, stremato dall’intensità vissuta, rimase tra le sue braccia.

In un’altra occasione, poi, Andrea fatica ad avere un’erezione con Cecilia:

Cecilia lo baciò sul collo, sulle labbra e poi scendendo sempre più giù, con estremo languore fino all’inguine. Quando arrivò al suo sesso si fermò, non era in erezione come al solito. Le parve strano, non le era mai successo con Andrea.

Pensate che Andrea non riesca a reggere la maschera da eterosessuale, che stia iniziando a tradirsi, vero? Ma va’, giusto una ventina di pagine dopo, i due piccioncini si riconciliano con vigore e con insolita tenerezza:

Si abbracciarono e non aspettarono neanche un secondo per fare l’amore. Si spogliarono in fretta e, senza dirsi una parola, si abbandonarono l’una all’altro, occhi negli occhi, mani nelle mani […]. Lui non aveva mai smesso di guardarla, raramente lo faceva durante l’amplesso […]. Avvolta dal velluto di quelle iridi scure, le sembrò di annegare, di perdersi in quel mare nero, profondo, allentando ogni freno […].

Insomma lettori, alla fin fine Andrea non si comporta tanto diversamente da un qualunque altro ragazzo etero, non c’è nulla in lui di “sospetto”. Sicuramente potreste obiettare dicendo che dopotutto anche nella realtà è così: anche nella vita di tutti i giorni un uomo “ufficialmente” etero può condurre una doppia vita da omosessuale, senza destare sospetti. Sì, però non sono del tutto d’accordo. Innanzitutto, dobbiamo tener conto che la narrativa non ambisce a essere un’esatta fotocopia della realtà: la realtà è una palla, non è arte, e di per sé difficilmente suscita pathos. Inoltre, credo sia necessario porci una domanda: chi conduce una doppia vita senza destare sospetti, ci riesce perché non lascia alcun indizio della sua reale natura, o perché è circondato da persone distratte? Lettori, seguitemi: non vi è mai capitato che qualcuno vi mettesse una pulce nell’orecchio? Non vi siete poi accorti di cose che prima non avevate mai notato? Ecco, lo scrittore dovrebbe proprio essere quella persona che mette la pulce nell’orecchio; lo scrittore, cioè, dovrebbe guidare il nostro sguardo con discrezione (un po’ come nei film, quando il regista zooma su un particolare), segnalandoci dettagli che magari sul momento sembrano privi di importanza, ma che acquisiranno significato più tardi (appunto, dopo il colpo di scena). Ecco, la Di Guardo, proprio come Frank Carofiglio, non ci prepara al colpo di scena, non coltiva la tensione, non aizza il sospetto, non accresce la curiosità. In breve, il colpo di scena ci cade sulla zucca come una tegola, lasciandoci più storditi che impressionati.

Ma dobbiamo riprenderci in fretta, perché la nostra autrice ha in serbo per noi un’altra serie di boiate che meritano la massima attenzione. Una boiata, in particolare, merita la nostra attenzione. La scena che segue il “colpo di scemo”. Oh, lettori, sembra tratta da una puntata di Scooby-Doo!: Andrea, mentre impugna una pistola, spiega a Cecilia e Fabio tutto il suo diabolico piano. Dopodiché, li lega e inizia a preparare il solito luogo del delitto, con i soliti simboli satanici e i soliti pentacoli. Ecco lettori, a questo punto succede qualcosa di sconcertante:

Sulle pareti, con una bomboletta spray di vernice nera iniziò a disegnare alcuni pentacoli e scritte inneggianti a Satana, ma dopo pochi secondi il colore si era già esaurito. Imprecando cercò qualcosa nella borsa, forse un’altra bomboletta, ma non la trovò. Diede una rapida occhiata ai due ragazzi per assicurarsi che fossero ben legati e poi si avviò verso l’uscita, probabilmente per andare a prendere altro materiale.

Lettori, ma LOL (è il secondo LOL della recensione, incredibile). Andrea spiattella tutto il suo piano dall’inizio alla fine, poi, pur avendo con sé una pistola, decide di lasciare vivi (e incustoditi) per un tempo indeterminato i suoi prigionieri. Il tutto per recuperare una bomboletta di merd… e finire i suoi disegnini sulla parete? Ma lettori, mi rimangio tutto quello che ho detto: i cattivi di Scooby-Doo! avevano molta più dignità e molto più cervello di Andrea.

Famose ‘na risata

Insomma lettori, non voglio farla troppo lunga, questo è tutto (o quasi) sulla trama di Dress code rosso sangue. Ma aspettate un momento prima di andar via, perché anche lo stile ha un suo… un suo perché. Sarò sincera, la nostra povera autrice, tanto bistrattata finora, non scrive poi così male. Dress code rosso sangue, tanto per capirci, non è nemmeno lontanamente paragonabile alla cacca scritta dalla Gamberale. Più che altro, la Di Guardo scrive in una maniera… uhm… infantile.
Si può dire “infantile”? Ad ogni modo, avete mai letto una fanfiction o una storia su Wattpad? Ecco, allora sapete esattamente di che cosa sto parlando. Lo stile è semplice e chiaro, però è anche elementare, e fa spesso uso di alcuni espedienti per apparire più elaborato. Espedienti spesso usati dai ragazzini quando tentano di imitare il linguaggio degli adulti:

Il suo austero genitore, l’avvocato Alberto Carboni, uno dei più quotati legali di Milano, non l’aveva presa bene. Era subito esploso in una reazione inconsulta […].

Sua madre […] non l’aveva mai difesa dalla coercizione paterna.

Ecco lettori, capite che cosa intendo dire? “Austero genitore” ha un sapore così vetusto, sembra di sentir parlare un figlio cadetto che prega il padre di non destinarlo al convento. E altrettanto fuori luogo è la parola “coercizione”, un tecnicismo troppo forte per indicare un padre assente e anaffettivo, non credete anche voi?

Un altro difetto nello stile è l’indugiare su dettagli inutili. Sì lettori, lo so, ormai siete abituati. Ma non dimenticatevi che la Di Guardo fa parte della “nuova nobiltà italiana”, perciò i suoi dettagli sono particolarmente scicchettosi! Ad esempio, leggiamo continuamente di ristoranti e di localini trendy:

Quella sera aveva optato per un ristorante siciliano che preparava piatti a base di pesce e disponeva di un efficiente servizio di consegna.

«Pensavo di invitarti al nuovo ristorante libanese qui vicino a casa mia.»

La Briciola era uno dei suoi ristoranti preferiti. Cecilia adorava l’atmosfera rilassata, elegante delle sale […].

«Ho prenotato un tavolo in un ristorante giapponese nuovo, ne parlano tutti bene […]»

Ordinarono la cena da un ristorante toscano, bevendo un ottimo spumante italiano, discutendo della vicina estate […].

Eh lettori, non vi aspetterete che la nostra autrice ci parli di personaggi che faticano ad arrivare a fine mese e che fanno la spesa nei discount, non è vero? Che diavolo è un discount? Nah, la Di Guardo ci trasporta in una novella Belle Époque. Sì, una Belle Époque per bauscia, molto più esclusiva dei festini di Torriani.

E va bene lettori, assaporare per un momento la spensieratezza della vita da ricchi è stato abbastanza divertente, ma devo dire che le ripetizioni sono ciò che mi ha divertita di più. Vi ho già parlato della spiccata propensione dell’autrice a ripetersi con orge e travestimenti, nondimeno la situazione è ben più grave, perché spesso ripete interi concetti. Ad esempio, Georgette avvisa Cecilia di stare attenta, perché l’ambiente in cui entrambe lavorano è un covo di serpi:

[…] siamo circondati da un covo di serpi e tu devi stare attenta, molto attenta. […]»

Ecco, Cecilia rimane sconvolta da questa affermazione, ma proprio sconvolta sconvolta eh! Tanto sconvolta, che la riferisce immediatamente a tutti quelli che conosce, e con le stesse parole. Nelle successive due pagine, leggiamo due volte il riassunto di quanto accaduto:

[Cecilia a Fabio] «Mi ha ripetuto che il marcio deve ancora venire a galla e ha precisato che non alludeva ai possibili assassini, ma al covo di serpi da cui siamo circondati. […]»

[Cecilia ad Andrea] «Mi ha raccomandato di stare attenta perché tutto il marcio deve ancora venire a galla. Quando le ho chiesto se si riferisse ai probabili assassini, mi ha risposto che non sa chi siano e che la sua affermazione si riferisce in generale al covo di vipere che mi circonda.»

Sì lettori, in effetti ho barato, Cecilia non ripete le stesse cose con le stesse parole: a Fabio parla di “serpi” e ad Andrea riferisce di “vipere”. Be’, che c’è? Questo ampio vocabolario sottolinea una volta di più le capacità linguistiche della nostra protagonista; oh, due lingue straniere parla!

Basta, basta, basta. Di sicuro volete le conclusioni, e io vi accontento. In definitiva, Dress code rosso sangue è… uno spasso. Dico davvero, non ho alcuna intenzione di “condannarlo” (come se avessi mai condannato qualcuno). Dopotutto, è evidente che la Di Guardo ha scritto il suo romanzo senza alcuna boria: non vuole impartirci una lezione, non vuole spiegarci come va il mondo, non si mette, insomma, su un piedistallo (no Gamberale intended). La Di Guardo, semplicemente, ha avuto l’idea di una storia e si è divertita a raccontarla. E certo, possiamo piangere con in bocca la solita lamentela: un Pinco Pallino qualsiasi, se ha una storia in mente, al massimo la racconta ai nipotini, mentre la nostra autrice ha potuto contare su una squadra di editor e sulla pubblicazione da parte di una grande casa editrice. Ma ehi, lettori, c’è sempre un pochino d’invida in questo genere di invettive, perciò lasciamole fuori dai nostri garbati discorsi, che cosa ne dite? E poi, Marina Di Guardo (lei in rappresentanza di tutti) non ne può nulla, se nel nostro bel Paese il concetto di nobiltà non è mai davvero passato di moda. Io dico che avete due possibilità: potete seguire Barbero e correre per strada brandendo una spranga, oppure potete leggere Dress code rosso sangue e godervi del puro e sano trash. Datemi retta, non fate fare alla Di Guardo la fine di Anastasia, è molto meglio ridere tutti insieme (insieme a lei eh) e prendere la vita per quello che è. E, come sempre, se troverete utile il mio consiglio, io vi auguro una buona lettura!

Sara

Ciao! Sono la fondatrice del blog letterario "Il pesciolino d'argento", amo profondamente i libri, l'arte e la cultura in generale.

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