Dante matematico

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Seduzione matematica

Comune è la convinzione che gli studi scientifici siano poco adatti all’applicazione nel campo della letteratura; del resto, non pochi autori di fama, soprattutto contemporanei, hanno scritto di una separazione fra le scienze e la letteratura, talvolta insinuando una certa aridità, o addirittura inferiorità, delle prime rispetto alla seconda.

Tornando indietro di secoli, a un tempo in cui la filosofia non era ancora considerata una “materia umanistica”, bensì un sinonimo di “scienza”, scopriamo che i più grandi letterati e poeti erano, se non degli scienziati, quantomeno informati sulla matematica e la fisica per loro più recenti. Dante, in particolare, era certamente affascinato dalla matematica, soprattutto dalla circolarità e dall’idea di armonia.

Misurare la vista nova

Dante, nella Commedia, usa infatti spesso la figura del cerchio come metafora per le realtà più elevate. Naturalmente, l’immagine suprema del poema è la visione della Trinità del XXXIII canto del Paradiso, visione appunto descritta facendo riferimento al cerchio:

Ne la profonda e chiara sussistenza
dell’alto lume parvemi tre giri
di tre colori e d’una contenza.

Qualcuno potrebbe supporre che il cerchio sia stato scelto principalmente per le sue proprietà storiche o estetiche e non matematiche: in altre parole, quella del cerchio potrebbe essere sembrata a Dante una bella metafora soltanto perché si tratta di una figura sin dall’antichità associata alla perfezione, o perché è priva di spigoli. Questa interpretazione è però messa in discussione da altri versi di Par. XXXIII, successivi a quelli che ho riportato:

Qual è ’l geomètra che tutto s’affige
per misurar lo cerchio, e non ritrova,
pensando, quel principio ond’elli indige,
tal era io a quella vista nova.

Dante si riferisce chiaramente al rapporto fra circonferenza e diametro (cioè a π), usando l’espressione “quel principio”. Davanti alla visione divina, ossia alla “vista nova”, il poeta si sente non come un innamorato che contempla la donna amata, non come un artista davanti a un’opera perfettamente proporzionata, si sente come un matematico (geomètra) che affronta un problema astratto, appunto un problema matematico. Lo stato d’animo più adatto, più sublime, più intellettualmente puro è quello dello scienziato che conosce bene la teoria e che tenta di ampliarla. Inoltre, Dante riesce a creare l’immagine poetica di una realtà ineffabile, del tutto superiore a ogni forza umana, riferendosi non a un problema qualsiasi, ma a uno di notevole portata teorica: la quadratura del cerchio.

Se oggi per noi l’impossibilità di quadrare il cerchio è un’informazione banale, forse non proprio tutti sanno che π è irrazionale e trascendente, e ben pochi, tra cui non io di sicuro, saprebbero dimostrare facilmente perché π è un numero trascendente. Al tempo di Dante, già solo per rendersi conto che “il cerchio per lo suo arco è impossibile a quadrare perfettamente” (Convivio, II, XIII, 26-27) occorreva essersi occupati di matematica in modo piuttosto approfondito. Per fare una proporzione, è come se attualmente, in un bestseller di qualche nostro autore di punta, leggessimo precisi e corretti riferimenti alla gerarchia di Von Neumann. Tranquilli, questo non succede, possiamo invece leggere di luce e materia che sono due facce della stessa medaglia, come ci dice D’Avenia: giusto per ricordarci che la Storia è un processo, non un progresso.

Dante dà i numeri

C’è di più. Il filologo Wilhelm Pötters suppone l’esistenza di riferimenti ancora più precisi a π, nascosti nel complesso dell’opera dantesca: tali riferimenti diverrebbero palesi considerando alcuni numeri particolari tenuti in gran conto da Dante.

Il primo numero è il sessantuno. A ben pochi dirà qualcosa, eppure secondo Pötters esso è il numero associato al nome di Beatrice, così come il seicentosessantasei è, nell’Apocalisse, il numero del nome della bestia. Pötters giunge a questa conclusione riferendosi a un passo della Vita Nova, in cui Dante afferma enigmaticamente di voler ricordare con un sirventese, che però non scriverà, il nome di Beatrice accompagnandolo ai nomi di altre sessanta bellissime donne; oltre a ciò, il filologo tedesco si appoggia anche a uno studio di Manfred Hardt, il quale pure ritrova il sessantuno come risultato di un’interpretazione gematrica del nome “Beatrice”. Certo, non si tratta di un’ipotesi che poggia su fondamenta granitiche, però ai tempi di Dante la gematria, una tecnica cabbalistica, era effettivamente in gran voga.

Il secondo numero di cui si serve il filologo è più in evidenza, è il cinquecentoquindici. È Dante stesso a nominarlo, nell’ultimo canto del Purgatorio:

nel quale un cinquecento diece e cinque,
messo di Dio, anciderà la fuia
con quel gigante che con lei delinque.

Questo è un “enigma forte”, ossia la profezia di Beatrice sulla venuta del “messo di Dio” che ucciderà la prostituta e il gigante, portando a compimento la vendetta di Dio sui suoi nemici. Tradizionalmente, il numero è interpretato come anagramma della cifra latina corrispondente, cioè DXV: a partire dall’intuizione di Iacopo della Lana, l’anagramma porta, prevedibilmente, a vedere un futuro DVX mandato da Dio (siccome Mussolini è passato e ha causato dei bei guai, possiamo star tranquilli, non era lui). Questa dunque è la lettura tradizionale, ma a Pötters interessa il numero in sé.

C’è un terzo numero, anche questo piuttosto facile da trovare: è il cento. Perché è facile? Perché è il numero complessivo di canti della Commedia. Inoltre, se vogliamo, traduce in cifra la totalità dell’universo, almeno dell’universo cantato da Dante: la sua importanza è dunque evidente.

Sorprendentemente preciso

Ebbene, con questi tre numeri, Pötters ci propone alcuni affascinanti risultati. Moltiplicando il numero di Beatrice per quello del “messo di Dio”, si ottiene:

31 415

cioè un’approssimazione di π moltiplicato per il quadrato del terzo numero, il numero dei canti della Commedia. Sapendo ciò, si può ricavare con l’ovvia formula… un cerchio di raggio cento! E questo cerchio sembra essere proprio una bella rappresentazione dell’universo dantesco, del resto tutto modellato, dal punto di vista della sua “fisica” e della sua “geografia”, sulla figura circolare (basti pensare ai gironi infernali e ai cieli del Paradiso). Inoltre, il cerchio di raggio cento è una variante del cerchio di raggio unitario, molto importante in trigonometria e nelle scienze in generale. Non che Dante avesse in mente esattamente questo, tuttavia Pötters avanza l’ipotesi che il cerchio di raggio cento possa aver colpito, con le sue particolari proprietà numeriche, la fantasia del poeta, il quale l’avrebbe preso come sintesi unificante proprio di tutti i motivi circolari ricorrenti nella Commedia.

Oltretutto, Pötters nota che il π ricavabile dai “numeri di Dante” è un’approssimazione sorprendentemente precisa, più precisa perfino del valore tipicamente riscontrato nei trattati matematici dell’epoca, cioè:

3,1429

risultato della frazione classicamente usata in riferimento a π, ossia ventidue settimi.

Se così fosse, Dante avrebbe studiato matematica in modo davvero approfondito, tenendosi al passo con le più aggiornate scoperte dei suoi contemporanei. È una pura ipotesi, tuttavia non è fantascienza: ad esempio, fa notare Pötters, il figlio di Dante certamente frequentò le lezioni di Paolo dell’Abbaco, valente matematico del tempo, perciò non è improbabile che il poeta si sia confrontato con lui. Considerando poi il dichiarato amore di Dante per la filosofia e dunque la sua sfrenata curiosità…

Bisogna poi ricordare che la matematica era strettamente legata alla poesia già da generazioni, ben prima dell’arrivo di Dante sulla scena. Il sonetto, ad esempio, con quattordici versi di undici sillabe, ha particolari connessioni con π, connessioni nascoste nella disposizione stessa dei versi (talvolta scritti a coppie su una sola riga, dunque ventidue sillabe per sette righe): è improbabile che tali connessioni siano sfuggite al momento della sua invenzione, tenendo anche in conto che Iacopo da Lentini era quasi certamente in stretti rapporti con Fibonacci.

Inseparabili

Forse non sapremo mai se tutte le interpretazioni e osservazioni che in questo piccolo articolo ho riportato sono vere. Il punto però è questo: scienza e letteratura non sono mai state e non potranno mai essere mondi totalmente separati, incapaci di comunicare. Anzi, molti grandi letterati furono anche valenti scienziati: Isaac Asimov, biochimico; Carlo Emilio Gadda, ingegnere; Michail Bulgakov, medico; Primo Levi, chimico. E questi sono soltanto alcuni dei nomi che si potrebbero fare.

Attualmente ci sono tanti libri, tante storie interessanti, che esprimono un fecondo rapporto fra il rigore della scienza e il calore dell’inventiva letteraria, quindi non voglio dipingere un quadro con tinte più fosche di quelle che merita. Però, come dicevo all’inizio, non si fa una buona pubblicità a tale rapporto, preferendo invece sottolineare una contrapposizione, in realtà, più che altro presunta.
E questo sì è un vero peccato.

Sara

Ciao! Sono la fondatrice del blog letterario "Il pesciolino d'argento", amo profondamente i libri, l'arte e la cultura in generale.

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