Cleoth e Arkh – Sergio Bertoni
[…] solo il passato è fisso e immutabile, il futuro è un intrico di possibilità che diventano via via così numerose da essere impossibili da leggere o da prevedere.
Eureka!
“Ogni corpo immerso in un fluido subisce una spinta dal basso verso l’alto di intensità pari al peso del liquido spostato”: ci ricordiamo tutti del principio di Archimede, non è vero? Ah, quanto tempo speso a memorizzare questa legge… tempo speso inutilmente, tanto poi all’interrogazione la lingua si inceppava, la mente si annebbiava e alla fine si finiva per enunciare un principio del tutto nuovo. Eh, le interrogazioni, benedette interrogazioni… non c’è da stupirsi se fuori dalla scuola nessuno vuole più sentir parlare di Archimede, di Euclide e di Pitagora. Eppure… eppure ci sarebbe ancora così tanto da scoprire riguardo questi personaggi: le loro vite sono spesso avvolte da una coltre di mistero. Non sappiamo chi siano stati i loro punti di riferimento, come affrontassero i fallimenti e che cosa ambivano a scoprire. E ancora, non sappiamo che tipo di uomini fossero, quali donne e uomini avessero amato, quale opinione avessero dei loro tempi. E con ogni probabilità non lo sapremo mai. Per fortuna, però, anche noi possiamo diventare inventori, proprio come Archimede: con una penna e un po’ di fantasia possiamo restituire un volto e una voce a tutti questi grandi personaggi del passato. È esattamente ciò che ha fatto Sergio Bertoni con il suo libro Cleoth e Arkh, la cui storia inizia… con un viaggio.
Siamo nel III secolo a. C. e una nave sta solcando le acque del Mediterraneo per raggiungere Alessandria d’Egitto. A bordo ci sono un giovanissimo Archimede e suo padre, che in questo libro l’autore immagina essere Fidia, un rispettato astronomo di Siracusa. Le ragioni del viaggio sono squisitamente culturali: allora Alessandria e la sua celebre biblioteca erano la meta prediletta delle grandi menti, che in quel luogo più di ogni altro potevano incontrarsi, scambiarsi idee e collaborare a grandi progetti. Perciò Fidia ritiene che un soggiorno in Alessandria sia essenziale per la formazione di suo figlio, già dedito da anni allo studio della scienza.
Fin qui la linea del romanzo è assimilabile a quella del genere storico. Ma ecco la sorpresa: nel momento in cui Fidia e Archimede mettono piede sul suolo di Alessandria, la storia prende una piega inaspettatamente fantasy. A questo punto della trama fa il suo ingresso una sensuale sacerdotessa di Iside, Cleoth. Cleoth ha ricevuto in dono dagli dei grandi poteri magici, fra cui la preveggenza. Grazie alla sua capacità di vedere nel futuro, Cleoth avverte la minaccia di un imminente pericolo, che potrebbe stravolgere l’Egitto intero. La minaccia è rappresentata dagli Hyksos, una popolazione che secoli addietro aveva governato l’Egitto, per poi essere respinta ed esiliata dal faraone Ahmose. Ora gli Hyksos si stanno dirigendo verso la tomba del faraone Ramesse per resuscitarlo. L’obiettivo? Eh… ve ne parlerò più avanti e presto scoprirete il perché.
Ma torniamo adesso a Cleoth. Fortunatamente gli dei, oltre a metterla in guardia, le suggeriscono anche la soluzione per combattere gli Hyksos: deve trovare un giovane forte e coraggioso che possa respingere la minaccia e preservare l’attuale equilibrio. Cleoth ha già in mente chi potrebbe fare al caso suo, un certo giovane bello e atletico arrivato da poco ad Alessandria… e sì, si tratta proprio di Archimede, ribattezzato dalla sacerdotessa “Arkh”. I due, predestinati a combattere insieme contro il nemico, ben presto si innamorano e danno inizio a una durevole relazione.
Perché dovreste leggerlo…
Questa è dunque la trama, un intreccio di elementi storici e fantasy. Ma ciò che impreziosisce quest’opera sono, più di ogni altra cosa, i dettagli storici. Soprattutto è interessante l’impronta quasi filologica e paleografica che l’autore dà al romanzo. Pienamente in linea con l’atmosfera dotta alessandrina, Cleoth e Arkh è ricco di riferimenti a opere antiche e rare, che divengono spesso per i personaggi argomento di discussione. Ad esempio, il bibliotecario di Alessandria, Callimaco, e Fidia discutono fra loro di un’introvabile opera di Archita, filosofo e fondatore della meccanica:
«Ti ringrazio, maestro Fidia, purtroppo noto che questo libro di Archita tratta solo di matematica e di altre cose che già ci sono note. Speravo che avesse scritto qualcosa sulla costruzione di quella meravigliosa colomba volante che aveva realizzato. Forse a Siracusa avete qualche trattato a proposito di quell’invenzione?»
E ancora, troviamo citata un’altra preziosa opera: la stesura completa del Libro del ritorno nel giorno, essenziale affinché gli Hyksos possano resuscitare il faraone Ramesse:
Fen [sacerdote degli Hyksos], durante la conversazione, apprese anche che, tra i papiri di Manetone, vi era perfino quello che gli era indispensabile più di ogni altra cosa: la stesura completa del “Libro del ritorno nel giorno”. Infatti, solo alcuni brani del testo, che con un termine generico era stato definito “il libro dei morti”, erano stati riprodotti in un gran numero di papiri che si trovavano con facilità in diverse biblioteche. Tuttavia l’opera completa era ormai quasi introvabile.
Oltre a questi riferimenti colti (che, sono certa, delizieranno i bibliofili), ho trovato curiosa la decisione di inserire un uomo di scienza qual è Archimede in un contesto sovrannaturale e non del tutto intellegibile alla mente umana. Mi è parso che l’autore volesse in qualche modo demistificare il personaggio dello scienziato, presentandocelo per com’è stato realmente: un uomo ingegnoso, ma pur sempre un comune mortale in balia di forze misteriose e ingovernabili. Illuminante è a questo proposito lo scambio di battute che avviene fra Cleoth e il protagonista, quando questi apprende della missione che lo aspetta:
Sgomento e orrore invasero Archimede non appena Cleoth terminò il suo racconto. Ciò che stava per avvenire era assurdo, inconcepibile e molto più grave e macabro di quanto avesse immaginato. […]
«[…] Non ci credo, lo ammetto. Ho sempre pensato che fossero una favola inventata dagli uomini per dare una spiegazione a certi fenomeni naturali che non riuscivano a spiegarsi. Dopo le cose che mi avete rivelato, e dopo il prodigio che ha realizzato Cleoth, guarendomi e salvandomi da morte certa, non so più che cosa pensare. Sono confuso e anche, lo ammetto, molto spaventato.»
Insomma, sembrerebbe proprio che la scelta di far ricoprire ad Archimede il ruolo di protagonista nel romanzo non è al fine di elogiare l’intelligenza umana. Al contrario, serve a dimostrare che nemmeno l’intelletto più dotato può far nulla per svelare l’imperscrutabile mistero che permea l’esistenza. E a tal proposito, è arrivato il momento di svelarvi perché gli Hyksos vogliono resuscitare il faraone Ramesse. Venite, avvicinatevi… ancora un po’, fatevi più vicini… ecco, ascoltate bene: per nessun motivo.
Non fraintendete, non si tratta di un buco nella trama. Il fatto è che la decisione di resuscitare il faraone non è una decisione presa dagli Hyksos, ma è un ordine del loro dio Seth, che desidera imporre di nuovo il proprio culto sull’Egitto. Seth compare in sogno al sacerdote Fen e lo istruisce su ciò che deve fare, e Fen, con tutto il suo popolo, semplicemente obbedisce. L’uomo quindi appartiene ed è sottomesso a un ordine di cui non può comprendere del tutto la logica e le leggi. Ciò lo rende insignificante e impotente, anche quando, come il nostro Archimede, è dotato di grande intelletto.
… faticando un po’
Finora ho parlato di quel che ho apprezzato nel libro, adesso però arriva la parte più difficile. Sì, perché Cleoth e Arkh è certamente un libro molto curato dal punto di vista storico, inoltre non è un libro “vuoto”, in quanto si fa portatore di un pensiero filosofico ben preciso, ma… eh, di difettucci ne ha parecchi e non li si può certo ignorare.
Ecco, per esempio, riguardo alla trama, la missione che viene affidata ad Archimede mi lascia molto perplessa. Il nome di Archimede è passato alla storia per via delle sue geniali scoperte scientifiche, giusto? Si tratta pertanto di un sapiente, di un intellettuale, di un uomo d’ingegno… in sintesi di un personaggio che spicca per la sua intelligenza più che per le doti fisiche. Dunque non capisco perché affidargli una missione in cui deve impugnare le armi e battersi corpo a corpo come se fosse un Teseo qualsiasi. Certo, l’Archimede immaginato da Bertoni non è solo un ragazzo intelligente, ma anche atletico, agile e in piena salute… e forse l’autore ha anche ragione di immaginarlo tale, eh. Però, però… per quanto Archimede fosse ben allenato, è mai possibile che fosse davvero lui l’uomo più coraggioso e più forte presente ad Alessandria in quel momento? Possibile che fosse anche più forte e più agile di altri giovani che avevano dedicato intere giornate all’arte del combattimento, senza “perdere tempo” con lo studio e la matematica? Insomma, mi sta bene che Archimede non sia raffigurato come uno sgobbone rachitico, ma francamente un protagonista straordinariamente intelligente e al contempo straordinariamente forte è… un po’ troppo. Innanzitutto crea confusione all’interno della trama, perché il viaggio dell’eroe di fatto si sdoppia: leggiamo di Archimede che si ingegna per inventare la coclea, e quindi che cerca di migliorarsi come inventore e scienziato, però leggiamo anche di Archimede che viene sfidato con la spada e che deve affrontare con le armi gli Hyksos, perciò Archimede intraprende un viaggio dell’eroe in qualità di guerriero… capite bene che si tratta di troppo materiale, di troppa carne al fuoco, di troppi intrecci che si sovrappongono. Inoltre, diciamocelo con franchezza… un protagonista a cui riesce bene tutto non è simpatico a nessuno. E questo non è un problema di poco conto. Quando si fa di un personaggio famoso e rispettato il protagonista del proprio libro, in genere l’obiettivo è avvicinare il più possibile quel personaggio al lettore, mostrandone le debolezze oltre alle virtù. Al contrario, in Cleoth e Arkh ad Archimede sono state paradossalmente attribuite ancora più virtù di quante gliene vengano riconosciute di norma. Anziché avvicinare Archimede al lettore, Bertoni l’ha reso ancora più “mitico”.
Non è tutto. A essere sinceri, lascia parecchio a desiderare anche il modo in cui l’autore ha trattato la storia d’amore fra Archimede e Cleoth: fra loro tutto fila liscio come l’olio, sempre. Si innamorano a prima vista, e la loro relazione non è mai ostacolata da nessuno. Infatti, pur essendo una sacerdotessa, Cleoth è libera di relazionarsi con chi desidera, e Fidia, benché non guardi proprio di buon occhio la relazione del figlio, non ha alcuna intenzione di intromettersi. È una storia d’amore monotona, non offre nessun brivido, non c’è nulla che ci faccia stare sulle spine e che ci spinga a domandarci se l’amore dei due personaggi resisterà; non c’è nulla, cioè, che ci motivi a continuare a leggere fino alla fine.
E sono tante altre le perplessità sulla trama, su cui tuttavia sorvolerò perché non è la storia quel che considero l’aspetto più problematico del libro. Ciò che in realtà mi ha impedito più volte di farmi coinvolgere dalla lettura è, senza ombra di dubbio, lo stile.
Che fretta c’era…
Per capire bene qual è il problema in Cleoth e Arkh è però necessaria prima una premessa. Dovete infatti tenere bene a mente che una buona storia si compone di due tipi di momenti.
Un tipo sono gli eventi, e cioè i momenti importanti, decisivi, quelli che costituiscono l’ossatura della trama. Ne Il nome della rosa un evento è l’incendio nella biblioteca, ne Il fu Mattia Pascal è il cambio di identità del protagonista, in “Harry Potter e la pietra filosofale l’arrivo della lettera per entrare ad Hogwarts, e così via.
Ci sono poi gli accidenti, ovvero tutti quei momenti “inutili” che non sono eventi, che non contribuiscono in maniera decisiva alla trama e che non le danno una direzione precisa. Sono “momenti inutili” i dialoghi fra Guglielmo da Baskerville e Adso, i bisticci fra Ron ed Hermione e le descrizioni dei paesaggi, ad esempio. In realtà gli accidenti, benché non abbiano un ruolo importante nella trama, sono tutt’altro che inutili: nel corso degli accidenti il pubblico abbassa la guardia, si rilassa, familiarizza con i personaggi e impara a conoscerli. Gli accidenti fungono quindi da pausa, danno il tempo al lettore di prendere fiato e di elaborare con calma gli eventi.
Affinché una storia sia una buona storia, è necessario che presenti un equilibrio fra eventi e accidenti, e cioè tra fasi di tensione e di distensione, di accelerazioni e di rallentamenti. Insomma, scrivere un romanzo assomiglia molto a comporre un brano musicale: la sinossi non è che un elemento di partenza, il grosso lo fa il ritmo.
In Cleoth e Arkh l’equilibrio fra eventi e accidenti manca: gli eventi sopraggiungono senza un’adeguata preparazione e terminano senza che vengano sfumati, mancano veri momenti di distensione, tutto il racconto è un continuo susseguirsi di informazioni utili che reclamano l’attenzione vigile del lettore, con il risultato che quest’ultimo non riesce a distendersi, a familiarizzare con i personaggi e ad ambientarsi. Vediamo qualche esempio. Badate al seguente brano: siamo sulla nave e il capitano, Cassandro, ha appena sventato un attacco da parte di una nave nemica…
[…] i guerrieri mamertini, disperati, cercavano di sfilarsi la pesante armatura e di gettarsi in acqua. Alcuni vi riuscirono […] mentre molti altri, appesantiti dalle armi, sprofondavano negli abissi cercando invano aiuto, agitando le braccia e lanciando grida di terrore. In breve la flottiglia nemica, che si era arrestata, invertì la rotta e divenne un puntino all’orizzonte.
«Ora il pericolo è finito, maestro Fidia.» sorrise Cassandro rivolgendosi ai suoi illustri passeggeri «Potete entrambi riprendere il posto che più vi piace. I predoni sono scomparsi.
È la prima volta che vi recate ad Alessandria?» soggiunse «Io vi sono già stato quattro volte ma […] non ho mai avuto occasione di visitarla bene, quindi ne conosco pochissimo. So soltanto che è una città molto grande, diversa dalle altre e davvero bella.»
«Grande? Direi immensa, caro comandante.» rispose Fidia, osservando l’orizzonte ormai sgombro. «Mi risulta che in quella città vi siano quasi trecentomila abitanti provenienti da ogni parte del mondo […].»
Il brano ha inizio con un evento estremamente adrenalinico, che si conclude in maniera drammatica: benché non siano i nostri protagonisti a soccombere, l’immagine dei mamertini che annaspano e annegano è comunque alquanto traumatica. A una scena simile dovrebbe seguire una scena molto distensiva, di “raccoglimento”, affinché i personaggi e con essi il lettore possano elaborare quanto appena visto. Ma, al contrario, l’autore fa seguire alla scena adrenalinica un’altra scena energica: Cassandro, come se nulla fosse, intavola una conversazione su Alessandria con Fidia. Ora, la disinvoltura di Cassandro avrebbe anche potuto aver senso se l’autore avesse voluto farci intendere che gli attacchi dei mamertini erano all’ordine del giorno, e che un comandante esperto (come appunto Cassandro) era tanto abituato a scene di violenza e di morte, da non farci più caso. Ma se fosse stata questa l’intenzione dell’autore, allora la nonchalance di Cassandro avrebbe dovuto contrastare con lo shock di Fidia (o di un qualunque altro personaggio non avvezzo a spettacoli truculenti) nel quale il lettore poteva immedesimarsi. Tuttavia nel brano vediamo con chiarezza che Fidia replica a Cassandro con uguale nonchalance e imperturbabilità. L’impressione dunque è che l’autore non volesse mettere in risalto il fatto che a quei tempi violenza e morte fossero la norma, e che piuttosto avesse fretta di concludere l’episodio dei mamertini per passare ad altro.
Conferma la frettolosità dell’autore anche un altro brano, in cui si racconta degli studi e delle invenzioni messe a punto da Archimede per migliorare l’efficienza del sistema di specchi del faro di Alessandria:
Archimede, pur senza conoscere gli effetti chimici dell’ossidazione, si era da qualche tempo convinto che fosse l’aria marina a provocare certi fenomeni di annerimento, e si sforzava invano di trovare un qualche sistema che potesse eliminare l’inconveniente. […] Passando più volte davanti alla bottega di un artigiano fu attirato dagli oggetti esposti: vasi, anfore, statuette di creta e di metallo erano dotate di una lucentezza particolare ben diversa dal solito aspetto opaco di quella materia. Una ricca mancia convinse il commerciante a confidargli che, dai suoi antenati, gli era stata tramandata la ricetta di un liquido incolore che, spalmato su qualsiasi oggetto, solidificava, donando quell’aspetto vetroso e lucente che li rendeva inalterabili nel tempo.
Solo l’intervento autorevole del bibliotecario Callimaco, l’esborso di una notevole somma, e l’assicurazione di mantenere il segreto, persuasero l’artigiano a rivelare la formula di quel liquido. L’effetto protettivo che ne seguì sui nuovi specchi, ideati per utilizzarli nella lanterna del Faro, fu prodigioso! […] La fama di Archimede e dei componenti del suo gruppo si diffuse ben presto in Alessandria e il Re in persona volle conoscerlo e rendergli onore. L’orgoglio e la felicità di Fidia furono grandi e non appena il figlio rientrò, dopo la cerimonia dell’incontro col Re, lo strinse con forza in un caldo abbraccio.
Lo stralcio racconta a tutti gli effetti di un’impresa di Archimede: riuscire a dare lucentezza agli specchi del Faro. Si tratta di un evento rilevante, e che tuttavia è raccontato in maniera sbrigativa, quasi come se (di nuovo) l’autore avesse fretta di passare ad altro. Nella fretta, l’autore non si accorge di non star raccontando una storia, ma di star stilando nient’altro che il suo riassunto. Ciò che rende interessante l’evento è del tutto ignorato. Ad esempio, sarebbe stato interessante leggere dello scambio di battute fra Archimede e il commerciante. Infatti il commerciante rappresenta in questo brano una sorta di antagonista da combattere, è l’ostacolo che si frappone tra il protagonista e l’oggetto del suo desiderio. Fra i due dovrebbe quindi avvenire una sorta di scontro, in cui ciascuno dei contendenti ha i suoi buoni motivi per non cedere: da un lato Archimede necessita di quella formula per compiacere il re e acquisire prestigio come inventore, dall’altro il commerciante deve proteggere il segreto di famiglia che gli consente di vendere i manufatti più belli della città. Ma l’autore salta subito alle conclusioni, e noi proviamo la stessa sensazione di quando troviamo un bel film in televisione, e ci accorgiamo che è già finito.
La fretta con cui l’autore narra la storia risulta controproducente per due motivi. Come appena visto, una narrazione tanto riassuntiva smorza l’interesse del lettore nei confronti della storia. Inoltre, contraendo la trama in un riassunto, l’autore è costretto a concentrare le informazioni in poche frasi, informazioni che invece avrebbero potuto benissimo essere trasmesse attraverso una scena più lunga. Uhm, occhei, ammetto di non essermi spiegata al meglio… via, facciamo un esempio. Prestate attenzione a questo stralcio:
Uno degli Hyksos intento a spegnere il fuoco che stava divorando la sua casa, aveva scorto l’ingresso di Fen [sacerdote a cui compare Seth in sogno] nel tempio e con gioia e commozione aveva avvertito i vicini.
In una sola frase l’autore stipa tantissime informazioni: sappiamo che c’è uno degli Hyksos che sta perdendo la casa a causa di un incendio, sappiamo che poi lo stesso personaggio vede il sacerdote e che (presumibilmente) interrompe ciò che stava facendo per spargere la voce. È una frase pesante da leggere, la nostra mente è costretta a fare uno sforzo per assimilare tutte le informazioni e per ricostruire l’accaduto. Ora, date un’occhiata alla mia versione dello stesso brano:
Amset [supponiamo che si chiami così il protagonista del brano] guardava la sua casa andare a pezzi. Aveva già fatto allontanare la moglie e i figli, con la promessa che tutto sarebbe andato bene. Ma il fuoco aveva già divorato tutto, non erano rimaste che poche cose da salvare. Amset sapeva che ormai tentare di spegnere il fuoco era inutile, ma non voleva fermarsi. Se si fosse fermato avrebbe dovuto fare i conti con la realtà, ma ne aveva paura. Perciò continuava a combattere contro le fiamme. A un certo punto sentì dei passi: si voltò di scatto, temendo che uno dei suoi bambini fosse tornato indietro e che assistesse al disastro. Come gli avrebbe potuto spiegare che non avevano più una casa, un luogo sicuro in cui stare? Ma non era suo figlio, era Fen. Fen…? Fen! Fen era vivo! E se Fen era vivo, allora poteva ancora esserci speranza. Abbandonò quel che rimaneva della sua casa, e corse a dare la notizia ai vicini, anche loro affranti e ricoperti di cenere: che smettessero di piangere, Fen era vivo, era vivo!
Il brano che ho scritto di mio pugno è più lungo, ma non direste che è più pesante da leggere, vero? Poiché infatti il brano è più lungo, riesco a inserire al suo interno le informazioni necessarie in maniera più “diluita” e più fluida. Le informazioni utili (l’arrivo di Fen) si alternano a quelle superflue (Amset ha fatto allontanare la sua famiglia, Amset è abbattuto, Amset scambia Fen per suo figlio), e in questa maniera chi legge non è costretto a elaborare tutte in una volta le informazioni che gli sono necessarie. Benché dunque il mio brano sia più lungo dell’originale, richiede al lettore meno concentrazione per essere compreso.
Posso spiegarti tutto!
Con il fine di dispensare informazioni, l’autore riempie i dialoghi dei suoi personaggi di infodump. Guardate solo come si svolge questo dialogo fra una schiava, Irene, e il suo padrone romano:
«Sei tu che nella tua presuntuosa arroganza non comprendi quale danno hai fatto! Questa era forse l’unica e ultima copia di un libro che descriveva le meravigliose costruzioni ideate dal grande scienziato Archita di Taranto. Il mio sventurato padre, a Corinto, aveva trascorso oltre metà della sua vita per cercarla e buona parte dei suoi beni per acquistarla! Era la sola cosa della mia patria che fossi riuscita a sottrarre alle luride insanguinate mani dei tuoi avidi sgherri. Avete invaso la mia terra interessati solo a massacrare e depredare, e ora tu hai distrutto tutto!» […]
«Lurida e insolente serva, come osi rivolgerti in tal modo al tuo padrone! […] Rimpiango che i miei centurioni ti abbiano lasciato in vita dopo aver decapitato il tuo imbelle padre, annientato i tuoi miserabili e incapaci fratelli e la tua gente, e conquistato senza sforzo, presso Corinto, quel tuo miserabile villaggio greco che aveva osato opporsi alla potenza di Roma. […]»
È palese che si tratti di uno scambio di battute pesante e del tutto innaturale. È pesante perché, come nel brano precedente, abbiamo di nuovo tante informazioni che si succedono una dopo l’altra. Addirittura il padrone elenca a Irene tutte le offese che i romani le hanno arrecato! E poi è uno scambio innaturale perché le informazioni che si scambiano i personaggi sono evidentemente dirette al lettore. Ad esempio, sia Irene sia il padrone sottolineano più volte che gli eventi di cui stanno discutendo si sono svolti a Corinto. Ma perché dovrebbero reciprocamente ricordarselo? Non erano forse presenti entrambi nel momento in cui si sono svolti i fatti? È assurdo che riepiloghino gli eventi, soltanto per informare il lettore. L’autore aveva a disposizione due soluzioni per evitare l’infodump: rendere più dinamica la spiegazione, oppure raccontare gli antefatti.
Il seguente, ad esempio, è un infodump proferito da Cassandro che avrebbe funzionato molto meglio se l’autore avesse aggiunto dinamicità alla scena:
«Comandante» chiese Fidia «riesci a capire a chi appartengano quelle imbarcazioni?»
«Credo che siano etruschi, ma anche se sono passati molti anni sono certo che non hanno dimenticato la lezione che con la nostra flotta impartimmo alle loro navi a Cuma. In quella battaglia distruggemmo tutto il loro naviglio e mettemmo in fuga i pochi superstiti. Per molto tempo le loro navi non hanno più osato mettere in pericolo quelle dei nostri mercanti.»
La spiegazione di Cassandro in questo caso è particolarmente tediosa perché manipola l’intera scena e non dà spazio a nient’altro, sembra di assistere a una noiosissima lezione scolastica. Per rompere la monotonia è sufficiente aggiungere qualche interazione con un altro personaggio, così:
«Comandante» chiese Fidia «riesci a capire a chi appartengano quelle imbarcazioni?»
«Credo che siano etruschi, ma anche se sono passati molti anni sono certo che non hanno dimenticato la lezione che con la nostra flotta impartimmo alle loro navi a Cuma… »
«Oh sì, altroché!» un marinaio dal naso rubicondo e palesemente alticcio si intromise nella conversazione. «Quella volta gli abbiamo dato proprio una gran bella lezione! Tutte le navi gli abbiamo distrutto, se la sono data a gambe come conigli! Quei bastardi, per un bel po’ non hanno avuto le palle di farsi vedere! Ahah! Fottuti figli di…»
A quel punto intervenne la vedetta, che urlò dalla sua postazione:
«Ma falla finita! Non darti tante arie, c’ero anch’io quella volta e me lo ricordo benissimo: ti pisciasti sotto e frignavi come un pupetto!»
Un coro di risate si levò da parte degli altri marinai.
«Ora basta, vi sembra il momento di scherzare? Tornate immediatamente alle vostre faccende, altrimenti vi getto in mare a suon di pedate!» tuonò Cassandro. Dopodiché si rivolse nuovamente a Fidia, rimasto in disparte ad ascoltare in silenzio: «Non preoccupatevi maestro Fidia, qui con i miei uomini siete in buone mani.»
Ecco, vedete? In questo brano ho cercato di compensare la noia dell’informazione con una scenetta vivace e spiritosa: in tal maniera si danno al lettore le informazioni che gli servono, senza tediarlo.
Prendiamo adesso un altro brano. Questa volta si parla di un ittita che viene “ipnotizzato” da uno stregone e a cui viene ordinato di uccidere Archimede. Terminato l’incantesimo, l’ittita non ricorda nulla di quel che ha fatto sotto l’influenza del maleficio, perciò lo vediamo mentre tenta di ricostruire gli eventi della giornata:
Perché, questa mattina, mi sono allontanato dalla taverna, ai confini del deserto, dove aspettavo un ingaggio con i compagni mercenari e mi sono recato in città? Chi me l’ha ordinato? […] Noi attendevamo che qualcuno ci reclutasse e ci offrisse una buona paga per avere la nostra spada al suo servizio… Ah, già: la mia spada… La mia potente spada… poi, dopo, sì, mi sembra di essere andato da un vecchio stregone in una casupola nascosta per farla cospargere con una strana sostanza.
Sono certa che avete già individuato il problema: di nuovo ci troviamo davanti un personaggio che ricapitola informazioni di cui dovrebbe essere già a conoscenza. Non ha alcun senso che l’ittita sottolinei che la taverna si trova ai confini del deserto e che lì aspettasse un ingaggio. L’ittita dovrebbe domandarsi soltanto: “Perché questa mattina mi sono allontanato dalla taverna e mi sono recato in città?”. Tutto il resto è superfluo. Per dare le informazioni necessarie al lettore e per evitare l’infodump, in questo caso sarebbe stato utile raccontare gli antefatti. Prima che leggessimo dello scontro fra Archimede e l’ittita, avrebbe potuto esserci un capitolo simile: si inizia con il racconto di una giornata tipo alla taverna. I mercenari, l’ittita compreso, sono impegnati a bere, a giocare d’azzardo e a contrattare con le prostitute che pure bazzicano nello stesso locale, in cerca di clienti. A un certo punto l’ittita, proprio quando era riuscito a convincere una prostituta a concedergli del tempo a buon prezzo, cambia espressione. La prostituta vede che l’ittita non si muove e si spazientisce, gli dice di sbrigarsi perché lei non ha tempo da perdere. L’ittita sembra pietrificato, la ignora, e si dirige senza proferire parola verso l’uscita della taverna, sordo alle proteste della donna e perfino agli sberleffi degli altri mercenari. Fine.
Un capitolo costruito in questa maniera, benché non offra spiegazioni esplicite, è comunque utile perché ci fa intuire che c’è qualcosa di strano nel comportamento dell’ittita. Quando poi verremo a conoscenza dello stregone, saremo capaci di fare due più due e giungeremo facilmente alle giuste conclusioni, non avremo bisogno di un infodump che ci spieghi per filo e per segno come sono andate le cose.
Ci vuole un po’ di mistero
Voglio chiudere l’argomento “spiegoni” trattando quello che per me è lo spiegone più evitabile e inadeguato dell’opera: quello fra Iside e Seth.
Nel libro infatti si giunge a un momento in cui i due si confrontano e tentano di riappacificarsi:
[Parla Iside] «Tu, però, non hai ancora risposto alla mia domanda. Perché questa macabra e inutile impresa?»
«Non è evidente? Il Faraone Ramesse, il suo popolo e tutta la sua stirpe mi adoravano. E così anche gli Hyksos. Il ritorno di Ramesse sul trono non potrà che rinvigorire il mio culto e riedificare i miei templi. La mia potenza allora…»
«Il trono? Quale trono?» lo interruppe la voce argentina della Dea, «[…] l’Egitto non è più il regno dei Faraoni, bensì dei Re macedoni che l’hanno da tempo conquistato. […] Il tuo era un sogno assurdo e impossibile, fratello Seth, e tra l’altro forse ignori che purtroppo anche il nostro tempo è alla fine e sta per concludersi. Può darsi che tu, io e qualcun altro, si possa restare in vita, ma con altro nome e con altri compiti. […]»
Probabilmente adesso sarete un po’ confusi: che cos’ha di sbagliato questo dialogo? Non vi sono stipate tante informazioni, e i personaggi non si raccontano eventi di cui dovrebbero già essere al corrente. E in effetti, di per sé, il brano non ha proprio nulla che non va. Anzi, a essere sinceri è gradevole da leggersi. Il problema è che questo dialogo si trova in questo libro. Tranquilli, adesso vi spiego per bene.
Vi ho già detto che gli Hyksos non sono i veri antagonisti della storia, bensì lo strumento di cui si avvale l’antagonista. Anche Cleoth cerca l’aiuto di Archimede solo dopo essere stata consigliata da Iside. Tutti i personaggi che vediamo in azione e con cui ci immedesimiamo sono nient’altro che pedine su una scacchiera. Ciò ci porta a riflettere sul ruolo che noi stessi occupiamo nel mondo: quanto siamo realmente padroni del nostro destino? Quante delle nostre esperienze sono state frutto delle nostre scelte? Siamo esattamente nel corpo che vorremmo abitare, nel luogo in cui vorremmo stare, con le persone che vorremmo accanto? Se potessimo modellare la nostra vita a piacimento, sarebbe proprio come la stiamo vivendo?
Insomma, lo stato di subalternità in cui vivono i personaggi di Cleoth e Arkh suscita una sensazione di spaesamento: ci rendiamo conto di essere infimi al cospetto delle forze superiori che governano l’Universo e di cui non comprendiamo la natura.
Ora, questo spaesamento, questa sensazione di “sublime” viene meno se vediamo parlare due di quelle stesse forze superiori proprio come fossero essere umani qualunque. Con questa scena l’autore infrange il mistero che era riuscito a creare, e declassa quelle forze superiori allo stesso livello delle loro pedine.
Ecco il punto: credere che tutto vada chiarito, spiegato e rivelato è un madornale errore. Talvolta è molto meglio non scolpire i contorni delle cose a tutti i costi, e lasciarli piuttosto nella loro indeterminatezza. Ciò che è determinato è infatti finito, ciò che è finito può essere conosciuto, e ciò che può essere conosciuto può essere posseduto e manipolato. E se le divinità possono essere conosciute, come possiamo conoscere gli animali e le piante, allora vorrebbe dire che la conoscenza dell’umanità è perfino più vasta della potenza divina. Ma se così fosse, non avrebbe alcun senso che Cleoth e gli Hyksos obbediscano ai loro dei, non vi pare?
In conclusione, direi che Cleoth e Arkh è un’opera che avrebbe bisogno ancora di tanto lavoro, di tanto cesellamento e di tante correzioni. Anzi, più che averne bisogno, direi che le meriterebbe. Già, perché si tratta evidentemente di un libro che è stato scritto con infinita passione. È infatti impossibile rimanere indifferenti di fronte alla cura dei dettagli storici e all’impegno dell’autore per scrivere una storia memorabile e fuori dagli schemi. E non si tratta di poca cosa: in un periodo in cui gli influencer scrivono solo perché glielo comanda la casa editrice, e in cui i libri sono considerati poco più che gadget, un’opera come Cleoth e Arkh si distingue per la deferenza (seppur talvolta un po’ goffa) che l’autore dimostra nei confronti dell’arte. Se perciò siete stanchi di vedere la Letteratura brutalizzata da autori come Bazzi, e se pensate che dopotutto qualche infodump di troppo non è un grande problema… bene, allora questo potrebbe essere il libro giusto per voi. Buona lettura!
Penso che questa è forse la prima volta che ricevo una VERA recensione, accurata, costruttiva, talvolta giustamente spietata ma sincera e utilissima! Ho fatto non bene, ma benissimo a rivolgermi a te. Hai messo nella giusta evidenza i punti deboli ed evidenziato le possibili e necessarie alternative. Dovrei rimetterci mano e apportare alcune indispensabili variazioni, ma dovrei ovviamente evitare, cosa non facile, di copiare i geniali “intermezzi” che proponi e sforzarmi di trovare alternative altrettanto sagaci e interessanti. Sarei in grado di farlo? temo di no. Potrei solo tentare di provarci. Credo però che, tutto sommato, il libro ti sia in parte piaciuto e, comunque, non posso che ringraziarti con affetto, ammirazione e un grandissimo abbraccio!