Architettura come atto d’amore – Giulio Girondi
Prima di tutto, la città è un “luogo” e, come tale, ha un’anima.
Leggere una città
Che cosa si può leggere? I libri, ovvio. Be’, anche gli elenchi telefonici, le insegne… insomma, si può leggere ciò che ha delle parole scritte, diremmo. In realtà, la questione è tipicamente filosofica, e la risposta a una domanda apparentemente semplice si rivela incredibilmente complicata e difficile. Si potrebbe infatti riprendere e tentare con: si legge ciò che ha dei segni. E allora che cosa sono i segni? Sono le parole? Sono anche immagini? Sono sensazioni?
No, lettori, non voglio iniziare un trattato metafisico. Voglio solo prepararvi, perché prendendo in mano il saggio di Giulio Girondi non dovrete trovare troppo strana l’idea di “leggere” l’architettura di una città. Sì, le strade, i palazzi, le decorazioni perfino, tutto in qualche modo si lascia leggere, comunica un messaggio: e il messaggio è spesso profondo, misterioso nel senso più vivo della parola, come suggerisce il nostro autore. Architettura come atto d’amore è, se vogliamo, un saggio della serie “Introduzione a… ”: è sotto molti aspetti una guida alla lettura, anche se la lettura in questione non è né un romanzo di Nabokov né un trattato di Locke. In Architettura come atto d’amore leggiamo (di) Mantova, una perla del nostro Bel paese: un “palinsesto”, come ricorda Girondi, un libro a cielo aperto, senza parole, che racconta storie d’amore colorite e avvincenti, in fondo come ogni testo che valga la pena di leggersi. E però, Mantova racconta anche di noi, basta soltanto saper leggere fra le sue “righe”.
Siete incuriositi? E allora vediamo più nel dettaglio il bel lavoro di Girondi.
Dimentichiamoci i saggi accademici, pieni di citazioni e di riferimenti a bibliografie sterminate (e quasi certamente mai lette per intero). Architettura come atto d’amore dà ciò che promette nel titolo: parla davvero d’amore. Innanzitutto, dell’amore che Girondi nutre per Mantova, sua città natale. Impossibile ignorarlo, il nostro autore lo dimostra non soltanto in un esame dettagliato della “pelle” urbana di Mantova, ma anche nel linguaggio entusiasta con cui espone tale esame. Di norma, chi si emoziona davanti a bugne e paraste? Eppure, Girondi è capace di trasmettere il suo vivo interesse, la sua soddisfazione. Io nemmeno ricordavo che cosa fossero le bugne, e ora, pensate un po’, non riesco più a rimanere totalmente indifferente al loro pensiero. Non sarò mai estasiata come il nostro autore, ma di sicuro non passerò più distrattamente accanto a un portico bugnato.
L’amore di Girondi non è l’unico a informare il libro. Si parla di principi, ovviamente dei Gonzaga. Prima signori, poi marchesi, poi duchi: l’autore ci regala un bel percorso storico della dinastia, per nulla invadente o posticcio. Ebbene, l’amore dei Gonzaga rivelato dal libro è spesso poco “nobile”, ma molto comprensibile. Amore per il bello materiale (soggettivamente inteso dai vari membri della casata), amore per la fama da lasciare alla posterità, amore per l’idea di avere davvero in pugno la città. Anche amori direttamente “volgari”, se vogliamo: per le donne, per l’ozio, per lo “spasso”.
C’è poi un’altra forma d’amore, ed è quella che più nettamente giustifica il titolo del libro. Bisogna partire, come Girondi fa, da un’affermazione di Filarete, contenuta nel suo rinascimentale Trattato di architettura:
[…] colui che vuole edificare bisogna che abbia l’architetto e insieme collui ingenerarlo, e poi l’architetto partorirlo e poi, partorito che l’ha, l’architetto viene a essere la madre d’esso edificio.
Il signore della città, il committente, è il padre, l’architetto la madre: e un padre e una madre sono tali perché hanno consumato un atto d’amore, appunto.
Amori ai tempi del Rinascimento
Giulio Girondi ci propone dunque tre relazioni del tipo detto, fra principe e architetto. Tre storie sorprendentemente avvincenti, che non si esauriscono nella nascita del pargolo, dell’opera architettonica. No, sono storie d’amore in piena regola, con personaggi molto ben caratterizzati, “a tutto tondo” e con “side stories” degne delle serie televisive più apprezzate.
La prima coppia: Ludovico II Gonzaga e Leon Battista Alberti. Una storia d’amore fondata sulla comune passione per l’antichità, cioè per l’architettura classica. Intendiamoci, Ludovico II non è interessato a ripetere pari pari le soluzioni architettoniche della grecità e della romanità, per il principe la massima goduria è sperimentare con una “arte nuova” che si ispiri all’antico. Una nuova arte antica, insomma, in contrasto con l’altra arte, quella moderna, ossia il gotico internazionale. Ludovico II, come riporta Girondi, dà le spalle a Parigi, all’Europa, rivolgendosi a Roma e, soprattutto, a Firenze. Alberti, nato in esilio a Genova, ma fiorentino fino al midollo, è l’uomo che può far perdere la testa a Ludovico Gonzaga.
Giunto a Mantova nel 1460, durante la dieta indetta da papa Pio II, Battista Alberti (“Leon” è un secondo nome che a un certo punto decise di attribuirsi, ricorda Girondi) fu subito coinvolto nel progetto della Chiesa di San Sebastiano. Cantiere avviato in tempi record e terminato… in tempi biblici (fu consacrata nel 1529). Del resto, gli auspici non erano dei migliori: Girondi racconta di errori di interpretazione dei progetti albertiani da parte dell’esecutore Luca Fancelli, errori che non conosciamo, ma che “dovettero essere qualcosa di sostanziale”, tanto da scoraggiare per un momento Ludovico II.
Ecco, il libro è capace di far sentire vivo ciò di cui parla: sono questi dettagli solitamente trascurati a colorare altrimenti fredde cronologie e analisi formali delle opere. Certo, Girondi non è parco di osservazioni più tecniche, sicché possiamo farci un’idea piuttosto precisa di San Sebastiano anche se non l’abbiamo mai vista, anche se non conosciamo la sua storia di restauri e manomissioni. E riusciamo a capire bene la “poetica” di Alberti, esposta sì dal nostro autore, ma anche commentata da chi seguì direttamente il progetto. Girondi infatti non si limita a dirci che Alberti fu ispirato tanto dalla romanità quanto dal “mondo greco-orientale” (cioè bizantino), riporta le precise parole del cardinale Francesco Gonzaga, il quale disse di non capire, a proposito del cantiere:
«se l’havea a reussire in chiesa o moschea o synagoga».
Insomma, il saggio ci permette di entrare nell’autentica dimensione storica dell’arte architettonica, evitando di discutere le opere astraendole dalla concretezza della loro (spesso difficile) realizzazione e dalle genuine reazioni emotive da esse suscitate. A tal proposito, Girondi presenta ovviamente anche il capolavoro mantovano di Alberti, la Basilica di Sant’Andrea. Impeccabile e dettagliata l’analisi formale, ma devo dire che davvero gustosa è la genesi del progetto, ricostruita da Girondi. Il nostro autore racconta, riportando passi autentici, il carteggio fra Alberti e Ludovico II. Scopriamo un Alberti dalla “faccia di bronzo”, che in una lettera risponde ad alcune precise richieste del marchese, con un volo pindarico proponendosi poi di realizzare un cantiere per Sant’Andrea. Ludovico II già aveva dei piani a riguardo, ma Alberti in sostanza gli dice (nella parafrasi di Girondi):
[…] tu non sai bene quello che vuoi. Ma tranquillo, ci sono qua io a mostrarti quello che realmente desideri.
Et voilà, con una sicurezza invidiabile, Alberti critica, senza criticare, il progetto originario del marchese, “ruba” il posto a Manetti Ciaccheri (già incaricato di un progetto da Ludovico II) e ottiene la possibilità di sperimentare le sue proprie idee. Da lui stesso considerate eccellenti.
In effetti, la Basilica è uno dei tesori dell’arte italiana, e se le parole di Alberti sicuramente furono spocchiose, davvero si può dire che essa sia “più capace” (cioè “più funzionale”) “più eterna” , “più degna” (cioè più bella) rispetto alla proposta irrealizzata. Alberti convinse il marchese anche usando un argomento più terra terra, infatti assicurò che il progetto sarebbe costato molto meno. Girondi, con una certa vena ironica, afferma che Alberti “potrebbe essere stato sincero”, ma che la basilica reclamò, per il proprio completamento, “secoli e quantitativi enormi di denaro”.
Amore bello e… un po’ litigarello!
Passiamo alla seconda coppia, protagonista di una love story che occupa buona parte del saggio. “Padre” è Federico II Gonzaga, “madre” è Giulio Pippi de’ Jannuzzi, meglio noto come Giulio Romano. Anche in questo caso, Architettura come atto d’amore è puntuale e profondo nel presentare i progetti di Giulio Romano. Naturalmente il capolavoro, Palazzo Te, ma anche il Palazzo della Paleologa, la Sala di Troia del Palazzo Ducale, il progetto per la Rustica. Senza dimenticare la sua dimora privata, nota come… “Casa di Giulio Romano”, già.
Non una di queste meraviglie è stata trascurata dal nostro autore: l’analisi formale, la ricostruzione storica (talvolta ipotetica, come dichiarato nelle intenzioni del saggio, eppure sempre verosimile e rigorosa) e la semplice descrizione sono tutte curate nel dettaglio. Molte fotografie accompagnano il testo, però sapete una cosa, lettori? In Architettura come atto d’amore la parola scritta non è mai percepita come se fosse una didascalia dell’immagine, è bensì vero il contrario: la prosa di Girondi è evocativa nella sua precisione, e le varie fotografie semplicemente la confermano e la riassumono. Possiamo vedere la trabeazione del cortile di Palazzo Te, ma soltanto leggendo il testo abbiamo già ben chiaro in mente il motivo che essa esprime, motivo portante della concezione di Giulio Romano: il collasso dell’architettura.
Lettori, capite dunque che potete letteralmente “farvi una cultura” con le informazioni del libro. Io però, come già ho fatto a proposito di Ludovico II e di Alberti, voglio mettere in luce gli elementi più “narrativi”, elementi che Girondi propone anche nel caso della coppia Federico II e Giulio Romano. Sì, va bene l’opera architettonica, è il cuore del libro, ma qui facciamo la conoscenza di veri e propri personaggi!
Tutto storicamente documentato, intendiamoci, le fonti del nostro autore sono eccellenti, prima fra tutte una imprescindibile: Giorgio Vasari. E che cosa viene fuori, dalle fonti! Leggiamo di un Giulio Romano dotatissimo allievo di Raffaello, invitato dopo la morte del maestro a lasciare Roma con destinazione Mantova: invito accettato da Giulio anche per evitare le conseguenze della sua incauta decisione di illustrare I modi di Pietro Aretino. I modi, cioè i modi di fare l’amore, una raccolta di sonetti lussuriosi scandalosi anche per un periodo e per una città già di per sé scandalosi.
E Federico II? Anche lui smaliziato come Giulio: se non un erotomane, almeno un grandissimo estimatore delle grazie femminili. Palazzo Te, del resto, lo volle come luogo di “ispasso”,come una sorta di tana in cui rifugiarsi con la sua amante storica, Isabella Boschetti. Insomma, anche questa fra Giulio e Federico II è una coppia di “anime gemelle”, al pari di quella Ludovico II-Alberti: e Girondi, giocando un po’ con le ipotesi biografiche dei due “amanti” (non si conosce con esattezza la data di nascita di Giulio Romano) ce li presenta addirittura come coetanei, quasi predestinati a condividere la vita. Perché? Perché tale ipotesi è “più carica di fascino e poesia”.
Storia d’amore sì, ma non piatta. Un amore “litigarello”, a detta del nostro autore. Certo, Giulio Romano era stato nominato prefetto delle fabbriche e superiore delle strade da Federico II, cariche pregne di significato, di responsabilità e di potere, ma il duca (Federico II fu il primo duca della dinastia) aveva il suo carattere e talvolta non esitò a rimproverare l’artista. Anche minacciandolo. Giusto per citare un esempio, Federico II amava e rispettava Giulio, eppure, dopo aver appreso di ritardi nel cantiere della Palazzina della Paleologa, senza mezzi termini rese chiare le sue minacce:
Iulio, con nostro grande dispiacere havemo noticia che ancora non sono fornite le santie […] se iovedì proximo […] non ritroviamo tutte le stantie […] ni acorrociaremo con moi di tal manera che vi dispiacerà summamente […]
D’altronde, se abbandoniamo le fonti scritte e ci dedichiamo alla lettura dell’arte, come dicevo all’inizio, scopriamo ulteriori dettagli del carattere di Federico II e dell’ambiente in cui Giulio Romano “consumò” la sua storia d’amore col duca. Palazzo Te, in particolare, racconta dell’altra storia d’amore di Federico II, quella carnale. Tra gli affreschi, ideati da Giulio e realizzati dalla sua bottega, spicca Giove e Olimpiade: il soggetto è classico, il concepimento miracoloso di Alessandro Magno, un adulterio in piena regola, con Filippo di Macedonia che guarda sullo sfondo, trafitto dall’aquila per non aver lasciato a Giove la sua “privacy”. Ebbene, c’è un significato “storico” molto chiaro, se si fanno le giuste associazioni, vedendo cioè Isabella Boschetti nella figura di Olimpiade:
[q]uella scena diventa così un “primo” avvertimento al marito dell’amante del Gonzaga: meglio per lui voltarsi dall’altra parte che proferire parola.
Abbiamo capito che Federico II è incline alle minacce. Ma non è semplicemente un can che abbaia. Morde. L’avvertimento di Giove e Olimpiade è ignorato:
Federico II […] nel 1528 accusa di tradimento e fa giustiziare il marito legittimo della sua amante Isabella Boschetti […] evidentemente, l’avvertimento rappresentato dal dipinto di Giove e Olimpiade non era stato abbastanza chiaro.
E se pensate a qualche forma di giustizia per queste nefandezze… be’ dimenticatevela. Giulio Romano dà a Palazzo Te una “loggia di Davide”, decorata ovviamente con scena della vita del re biblico. Non manca l’episodio di Davide e Betsabea: conosciamo la storia e un parallelo con la vita di Federico II non è azzardato, è d’obbligo. Girondi è chiarissimo su questo punto:
Colpisce la nostra sensibilità come il duca non provi a nascondere i fatti violenti di cui fu responsabile, ma anzi, li esponga con sfacciataggine in uno degli ambienti di rappresentanza della sua delizia preferita. […] Nel secolo di Machiavelli valeva infatti la regola […] il principe è sciolto (o, meglio, al di sopra) dalle leggi. Fortunatamente per noi, i tempi sono cambiati e oggi vale il detto «la legge è uguale per tutti».
Gonzaga, ultimo atto
Dopo queste vicende, che prima o poi la HBO prenderà in prestito per farci una serie, Architettura come atto d’amore prosegue con l’ultima coppia, Vincenzo I Gonzaga e Antonio Maria Viani. Sono gli anni che avviano la discesa, l’acme artistica e politica è già stata raggiunta. Vincenzo I, sotto molti aspetti, è sfortunato: i suoi progetti “europeisti” e strategici, dice il nostro autore, non vanno a buon fine e forse, più di ogni altro fattore, è l’imponderabilità della storia a metterci lo zampino.
I capitoli che Girondi dedica ai due “amanti”, però, non calano nella qualità: le opere di Viani sono presentate con competenza e rigore, al pari di quelle di Alberti e di Giulio Romano. I progetti e i cantieri di Palazzo Ducale, di Sant’Andrea, della Chiesa di Sant’Orsola… nulla è trascurato e dopo la lettura ci sentiamo, se non esperti, almeno capaci di visitare Mantova e fare un figurone con gli amici dicendo: “Lì c’è la mano di Viani! Là invece c’è Giulio Romano!”
Vi ho detto che Vincenzo I Gonzaga è il “padre” dell’ultima coppia: sì, ma devo anche dirvi che il prefetto Viani si “risposò” altre quattro volte, dopo la morte di Vincenzo. Lavorò a corte per altri diciotto anni dopo la morte del duca, ci informa Girondi: tuttavia, nonostante i suoi meritori servigi, quella con Vincenzo I fu la vera storia d’amore. Viani, in un certo senso, rimase vedovo e Mantova “orfana”. I Gonzaga fecero sentire sempre meno la loro mano sulla città: terminato il dominio della dinastia nel 1707, “[d]a gloriosa capitale, Mantova si avviava a percorrere la stessa storia di tante altre città della provincia italiana”.
E oggi, dov’è l’amore?
Lettori, a questo punto vi dico che Architettura come atto d’amore non è un saggio distaccato. Ci propone delle storie avvincenti sì, ma ha anche una morale profonda. Così il libro si chiude:
Quell’atto d’amore di cui parla Filarete ora appare impossibile. […] Case, case e ancora case, senza più confini con i comuni vicini. I laghi […] sono diventati un corso d’acqua che attraversa una città senza forma. A tratti senza amore.
Qual è dunque la morale? Il “progresso” è cattivo, ha snaturato l’uomo? No, non credo, perché nelle prime pagine Girondi afferma perentorio che:
[…] l’animo umano è sempre lo stesso. Le sue ambizioni, le sue aspirazioni sono sempre le stesse, così come il suo bisogno di rappresentarle nell’architettura. Quello che è cambiato sono le modalità con cui una società si mostra e si autocelebra nell’architettura.
In effetti, non possiamo dire che oggi ci manchino dei principi retti e giusti, il libro non nasconde bassezze, infamie e sfortune dei Gonzaga: oggi, come allora, abbiamo capi che perdono la testa per le proprie amanti, che minacciano, ordinano omicidi, che provano a contare qualcosa scontrandosi con un destino avverso. Eppure ai tempi di Giulio Romano, un uomo come Federico II poteva essere “padre” di un gioiello come Palazzo Te. Che cosa è cambiato?
Vogliamo forse ribattere sostenendo che nel Rinascimento non c’era la xenofilia di oggi? Ma no, siamo seri, Architettura come atto d’amore ci costringe a fare i conti con la marea di suggestioni (dell’antichità, del mondo orientale… ) di cui si sono nutriti gli artisti dei Gonzaga! Che cosa è cambiato?
Dunque, accanto a quest’ultima, rimane anche l’altra domanda: qual è la morale del libro? Lettori, credo che il nostro autore voglia dirci questo: oggi ci “autocelebriamo” come la massa disordinata e triste di consumatori che siamo diventati, un gregge nutrito da altri, che non ha una vera coscienza di sé, che non ha più amor proprio. Per Federico II l’amante nel letto non era tutto: appetiva una sorta di immortalità, di grandezza. Tesori che immaginava avrebbe potuto raggiungere attraverso l’arte, l’architettura. Oggi, forse, si crede che l’amante nel letto sia una prova sufficiente di aver già raggiunto una sorta di immortalità e di grandezza. E le case sono perlopiù solo case, devono servire, possono anche non comunicare nulla.
E poi, per i Gonzaga e per gli uomini del loro tempo, anche ai confini del mondo c’era del bello, e che bello! Però anche il proprio “cortile” doveva essere bello: e il bello non si poteva copiare, non avrebbe avuto senso, si doveva adattare, reinventare, ricreare. E oggi? Oggi c’è chi ha detto l’ultima parola e ci si può solo conformare. Lo straniero non può più essere fonte d’ispirazione, deve essere semplicemente riprodotto in serie, senza pensarci. Perché, evidentemente, oggi si crede che qualcuno abbia già pensato al posto nostro, e che le nostre ambizioni e aspirazioni possano essere rappresentate degnamente da modelli preconfezionati, che non richiedono nessuna fastidiosa fatica.
Docere (davvero) delectando
Siamo alle conclusioni, lettori. Avete certamente capito che il saggio di Giulio Girondi è ben fatto, preciso, profondo, coinvolgente. Sì, coinvolgente, e non solo perché invita a riflettere. È coinvolgente perché lo stile del nostro autore è molto fluido: Architettura come atto d’amore riesce ad amalgamare i vari tecnicismi in una scrittura ben studiata, che non tormenta mai l’orecchio. Non si perde in meandri aulici e fin troppo forbiti, né scende nei bassifondi di un gergo fasullo, ostentatamente “simpaticone” e pateticamente volgare. A dire il vero (ma l’avevamo già intuito), Girondi sembra essere un autore spiritoso, e nel testo si trovano spesso osservazioni ironiche e anche qualche battuta, diciamo, un po’ nazionalpopolare:
Un po’ come la cella monastica del megadirettore galattico di Fantozzi. O, per ritornare seri e mantovani, il Ludovico II di Mantegna che nella “scena della corte” riceve la famiglia marchionale in veste da camera, l’equivalente antico di un pigiama.
Ma appunto, tutto è ben dosato e il tono sempre garbato, disteso. Fa molto piacere leggere finalmente un saggio educativo che evita di irritare con sciocchezze mostruose. Sciocchezze che, spesso, coprono un contenuto inesistente.
Ebbene, so che non avreste mai pensato di ricevere un consiglio simile, ma se volete leggere di sentimenti forti e di personaggi autentici, lasciate perdere certi “libri forse” come L’acqua del lago non è mai dolce e Cara pace: un saggio di storia dell’arte, pensate un po’, vi saprà soddisfare senza alcun cedimento. E lo stesso, se volete passare dei momenti sereni senza rinunciare ai doveri della razionalità e della conoscenza, lasciate perdere soluzioni da televendita che talvolta vi propinano in libreria. Architettura come atto d’amore saprà rendervi orgogliosi di averlo nella vostra personale collezione.
E se vorrete dunque provare il piacere della sua compagnia sul comodino prima di addormentarvi, io vi auguro buona lettura!