Acque del Bosforo acque del Piave – Elsa Zambonini Durul
Il cuore di un genitore è diviso in tanti pezzi quanti sono i suoi figli, ma ogni pezzo ha la magica capacità di rigenerarsi in un intero, così che ogni figlio ha a disposizione tutto il suo cuore.
Insegnante detective
Nella serie realizzata da Elsa Zambonini Durul, Lisa è una giovane insegnante di origini italiane che lavora in una splendida ed esotica Turchia. Spesso, però, si trova invischiata in intricate vicende, ed è costretta ad abbandonare il registro per improvvisarsi detective.
In Acque del Bosforo acque del Piave, Lisa indaga sulla scomparsa di Emma, la giovane nipote della sua amata tata Ginetta.
Cerca inoltre di mettersi sulle tracce di Isabella, la misteriosa sorellastra di sua madre di cui nessuno in famiglia sembra sapere nulla, e che pare inaspettatamente essere implicata nella sparizione di Emma.
Famiglie in crisi
Il quadro è dunque articolato e ad arricchirlo c’è l’approfondimento psicologico dei personaggi. Emma, ad esempio, ha dimostrato fin da bambina di essere ostile e aggressiva, atteggiamento non utile tuttavia a sanare la sua grave fragilità emotiva. E sua madre, Anna, ne è consapevole: per questo ha ricoperto Emma di attenzioni e coccole, spesso sottraendole all’altro figlio, il posato e coscienzioso Andrea, cresciuto così con la convinzione di essere poco amato:
Lui ha tutte le qualità che dei genitori vorrebbero in un figlio: è bello, intelligente e anche buono. Solo non capisce un dettaglio: se io do a lui un bacio, ne devo dare dieci a Emma, perché a lui i baci li dà già la vita spontaneamente, gli amici, la sorte, le ragazze che gli corrono appresso, e ottiene tutto gratis, mentre Emma è incapace di guadagnarsi il consenso, l’amore.
All’acredine tra fratelli, genitori e figli, si aggiunge quella fra Lisa e il suo compagno Emre, un turco di vecchio stampo: innamorato, certo, ma anche maschilista, possessivo e geloso fino ad essere soffocante. E nel corso della storia, la protagonista si troverà anche costretta a riflettere sulla sua relazione, che non la fa sentire libera e rispettata come vorrebbe.
Acque del Bosforo acque del Piave si propone quindi ai suoi lettori come un thriller che non si ferma alla risoluzione del caso, ma scava nella psiche dei personaggi, esplorando le sfumature delle relazioni malate, tossiche, o anche solo problematiche che possono talvolta instaurarsi fra persone.
Ritmo e narrazione
Si tratta di un programma ambizioso, che però non è stato trattato nel giusto modo.
Ciò che risulta immediatamente evidente è il ritmo narrativo spesso inadatto a rappresentare l’evento raccontato: nonostante il romanzo conti più di trecento pagine, si ha l’impressione di una narrazione precipitosa, sovente incurante dei dettagli.
Gli eventi, le situazioni e le azioni dei personaggi sono riferiti in maniera piuttosto meccanica, rigida, laconica perfino:
Ginetta ha lasciato la nota della spesa ad Andrea che ha saccheggiato il supermercato con la carta di credito di Anna, dopo di che è andato al lavoro. Faccio presente alla malata che si sta affacciando dalla porta della cameretta sulla sua sedia spinta dall’infermiera, che non è assolutamente necessario tutto ciò, ma lei mi prega di permetterle almeno questo. […]
Più tardi Emma e Ginetta ritornano e la ragazza si siede accanto alla madre mentre la mia tata va in cucina a programmare il pranzo e la cena. […]
Lasciamo che la madre si coccoli la figliola, ma in breve è evidente che le costa troppo sofferenza. Melisa propone quindi a Emma di andare un po’ nell’appartamento a chiacchierare […]
Qui siamo verso la fine del romanzo, la famiglia si è riunita e sta cercando di riconquistare un nuovo equilibrio dopo le recenti peripezie e gli antichi livori. Quella raccontata è una scena conviviale, in cui ci si dà da fare intorno alla tavola, si cucina insieme e si apparecchia fianco a fianco. È un momento cruciale, un espediente utilissimo per rappresentare la nuova famiglia riunita. Ma l’autrice non indugia su sguardi significativi, su gesti particolari o sui sorrisi accennati e titubanti tipici di una riappacificazione recente; piuttosto si lancia in una lunga lista di azioni che, raccontate in questo modo, sono assolutamente prive di valore narrativo. L’idea offerta al lettore non è di una famiglia infine riunita, bensì di un gruppo di persone indaffarate, per le quali è difficile provare interesse.
Dialoghi anaffettivi
L’approfondimento psicologico di cui ho parlato all’inizio, in effetti, avviene esclusivamente nei dialoghi: i personaggi non sono mai caratterizzati fisicamente, dalle loro movenze e dal loro aspetto fisico non possiamo dedurre alcunché del loro carattere o del loro modo di essere. Per comprendere qualcosa di più su di loro, dobbiamo aspettare che, a turno, prendano la parola e si spieghino.
Spesso però anche i dialoghi risultano meccanici, quindi freddi e innaturali.
Questo perché l’autrice tende a delegare ai propri personaggi il compito di spiegare al lettore alcuni retroscena o particolari: elevandosi a narratori, i personaggi sembrano astrarsi dal contesto narrativo, il quale ci appare così estremamente finzionale.
In secondo luogo, i dialoghi sono spesso anaffettivi: sembra non esserci confidenza fra i personaggi, solitamente cortesi e molto formali l’uno nei confronti dell’altro. Inoltre, parlano fra loro nella stessa maniera atona con cui il narratore (Lisa) racconta le vicende:
«[…] Il giorno dopo, quando ci sono andata, mi hanno riferito che si era presentato un certo Francesco per una dichiarazione spontanea. Mi hanno poi chiesto se io conoscessi questo tale, amico di mia figlia. Ricordando quello che mi hai detto tu, ho fatto il nome e cognome del ragazzo, tanto non c’era problema se lui stesso aveva spontaneamente raccontato i fatti. […]»
Se la trama dunque fa grandi promesse, la forma in cui questa si esplica delude: gli eventi non sono realmente narrati, sono al più riferiti e i personaggi sembrano sempre piatti nella loro scarsa caratterizzazione. Il lettore, in definitiva, non riesce mai ad essere coinvolto emotivamente.
Un ultimo appunto
Anche la trama in sé merita un appunto, l’ultimo della recensione. Da Lisa, donna occidentale e acculturata, il lettore si sarebbe aspettato almeno una certa riluttanza nel farsi coinvolgere in una relazione all’insegna del “maschilismo esasperato”:
Il suo maschilismo esasperato gli suggerisce istericamente che una donna non può guadagnare più di un uomo e, se mai accade, bisogna trovare altri motivi per farla sentire inadeguata e in colpa. Se il principio base maschile è “la baracca la mantengo io e quindi comando io”, il problema che sembra disorientare Emre è: “se la baracca è mantenuta principalmente da lei, io, che scusa ho per comandare?”.
Con queste premesse, destinate a non mutare un granché, il lettore si aspetta che la protagonista rielabori dentro di sé la relazione, maturando una nuova consapevolezza e la forza di liberarsi da tale rapporto, o almeno di cambiarlo.
Invece tutto ciò non accade. Senza sbottonarmi troppo sul finale, Lisa prosegue con una certa inerzia e cecità la sua relazione.
Chissà, forse l’autrice progetta di sviluppare il rapporto fra Lisa ed Emre in un prossimo libro e in realtà non è detta l’ultima parola. Tuttavia il ritmo narrativo di Acque del Bosforo acque del Piave è già molto fiacco e atono, e una protagonista così permissiva, da sfociare quasi nell’inettitudine, toglie tutto il pepe alla storia, la quale invece avrebbe dovuto essere speziata come un gustoso yaprak dolma.
Ma se i sapori forti non fanno per voi, allora buona lettura!