Abel – Alessandro Baricco
[…] senza riuscire completamente a spiegarsi.
Canyonero (scusate, non mi veniva in mente altro)
A me piacciono gli animali. Non per via del loro affetto o del loro essere meglio degli uomini, ma per via di qualcosa.
Praticamente la storia è questa: stavo cambiando la lettiera dello scontroso gatto di famiglia, e ovviamente stavo usando una pagina del giornale. De Il Giornale, che avevo per le mani. No, tranquilli, tranquilli, sto scherzando: non l’ho comprato in edicola, l’ho trovato in un cassonetto della carta (no, scherzo di nuovo, perdonatemi: è sicuramente un quotidiano dignitoso e ci lavorano bravi giornalisti, tutta l’introduzione è inventata e ha soltanto un fine satirico, eh).
Insomma, mentre raccoglievo la cacchetta, mi sono messa a leggere Il Giornale. Pensavo ci fosse qualche articolo-appello per salvare Berlusconi, ma poi mi sono ricordata che ormai è morto, e quindi non sono stata troppo sorpresa di leggere un pezzo che parlava d’altro, di Alessandro Baricco per la precisione. Mi sono trovata davanti una (relativamente) lunga smerdata dell’ultima fatica del più grande autore italiano. Ehi, non ci sto, mi sono detta. Cioè, è un oltraggio. È un oltraggio che Abel, il più grande capolavoro western del più grande autore western italiano, sia smerdato da Il Giornale.
Merita come minimo di essere smerdato dal più grande blog italiano.
Che poi, insomma, se anche voi leggete l’articolo de Il Giornale… o una qualunque altra recensione di Abel… eh… manco capite di che cazzo parla ’sto Abel! E il fatto che i recensori lamentino che non si capisce un cazzo non è una buona scusa per confezionare dei commenti di eguale tenore. Se anche Abel fosse un casino, ed è un casino ve lo assicuro, c’è modo di spiegare, con chiarezza e professionalità, perché è un casino. Vabbè, inutile star qui a pettinare le bambole. Cominciamo dalla trama. Cominciamo nel senso che io adesso riassumo la trama e voi ve ne state lì bbboni composti intorno al fuoco e mi ascoltate. E niente dita nel naso, mentre udirete le gesta di Abel!
Allora, il protagonista e narratore di Abel è… Abel… uno sceriffo del West. Abel ha imparato a sparare seguendo gli insegnamenti del suo maestro, di nome… Maestro. Eh, Maestro è proprio un fico, e Abel pure, grazie a quello che ha imparato da lui, è diventato un fico. Una volta, addirittura, ha fatto secchi due tizi contemporaneamente, sparando loro con due pistole diverse. Ué, ué, ué, come sarebbe che è poco? Che volevate, che uccidesse in differita dopo aver sparato simultaneamente? Che uccidesse due tizi contemporaneamente, sparando con due pistole non diverse?! Siete degli ammazzapidocchi, Abel aveva delle pistole diverse, ha fatto secchi due tizi, è diventato “leggenda”™. Così si fa, punto e basta.
Ebbene, la storia prosegue. Tutti sappiamo che la trama vuole andare a parare sull’impresa che renderà Abel ancora più “leggenda”™, ossia nascondere le chiavi dell’auto di suo padre. Ma sappiamo anche che un episodio così deve essere raccontato in una trilogia, e Abel è un romanzo autoconclusivo. Perciò si parla del fatto che Maestro ama i libri. Mannaggia, è anche è cieco: ehi, no problemo, già che Abel doveva imparare a sparare, Maestro ha sfruttato l’occasione e s’è fatto leggere molte opere di filosofia, l’ultima moda del selvaggio West.
Ora, Abel non s’è comportato come un Searle qualunque, chiuso in una stanza cinese: leggeva e capiva quello che leggeva. No, cioè: leggeva e capiva alcune parole di quello che leggeva, ecco. Aristotele, Spinoza e Hume, mica pizza e fichi. In particolare, Abel ancora si eccita al pensiero della critica humeana al concetto di causalità, che neppure è il contributo più incisivo di Hume. Chi se ne frega, Abel è eccitatissimo al pensiero che forse la causalità non è tutta ’sta certezza; è talmente ingrifato, che finisce per pensarci anche durante uno scontro con alcuni banditi. Rischia di lasciarci la pelle, ma poi la scampa.
Avendo capito che la sua incontrollabile sapiosessualità gli sta guastando la vita, Abel decide di disintossicarsi. Siccome il romanzo è a basso costo, niente clinica per erotomani, e lo psichiatra è di nuovo interpretato da Maestro. Maestro, in difficoltà perché non è mai riuscito a laurearsi in… in niente… prova una terapia cognitivo-comportamentale improvvisata che sostanzialmente si riduce a intimare ad Abel di mollare le pistole. Perché? Perché Maestro si ricorda che per sparare bene è necessario imparare a sparare, mentre imparare rudimenti a caso di filosofia può non essere così utile. Anzi, la filosofia può perfino distrarre, pare.
Abel, probabilmente non avendo capito che “Maestro” significa soltanto quel personaggio un po’ ambiguo, e non una qualifica di tale personaggio (eggià, Abel mica ha idea di che è ’sta filosofia che gli piace tanto), obbedisce senza discutere e si sbarazza delle pistole: una la appende al chiodo, l’altra la regala a un giovanissimo deputato, on. Pozzolo. Dopo che anche Pozzolo entra nella “leggenda”™, per aver sparato senza aver mai toccato la pistola, accade che… accade che Abel ha di nuovo i suoi revolver, come prima. E questo perché… perché Baricco è stato informato che sulle fanfiction semierotiche scritte su Wattpad da adolescenti con gli ormoni a mille non c’è il copyright, e così può inserire nella trama, senza costi aggiuntivi, un nuovo personaggio: Lilith. Lilith, la tipica ragazza-manga del West, è la sorella di Abel, e si precipita nel romanzo facendo quel che fanno tutte le donne (almeno, se gli stereotipi sono giusti): chiede all’uomo di risolverle un guaio. E il guaio riguarda un’altra donna, condannata a morte: la… la mamma! La mamma di Abel, LOL!, perché, in fondo, è uno spaghetti western, e la mamma può accompagnare solo…
Esposizione universale
Va bene, dai, a parte le mie aggiunte burlesche… uh… dico quel che dico di solito: la trama, nella sua struttura essenziale, ha un discreto potenziale. Eccerto, vi pare, non è niente di nuovo! C’è il topos dell’eroe e del mentore, che abbiamo già visto in… in… in Guerre Stellari, sì! Ma c’è anche il topos, e qui vado sull’intellettuale, dell’inetto sveviano, ossia dell’uomo che più sa e più si impantana. L’uomo paralizzato dalla conoscenza: dalla conoscenza filosofica, la quale, al contrario di quella tecnica, impedisce definitivamente di vivere con disinvoltura.
A questo proposito, è curioso notare che questo stesso topos sveviano è già stato utilizzato da Bernardo Zannoni, che… è… stato… allievo… di… Baricco. Uh… oc… chei? Cioè, ma non… l’allievo dovrebbe… mah! Quel che a noi interessa, di là di tutto, è che gli elementi fondamentali di Abel sono senza macchia, e sono interessaaaaaaaanti.
Eccallà, voi date degli ingredienti interessanti a Baricco, e… e niente, a quanto pare tutto quel che ci fa è lanciarli in aria, sbatterli per terra, morderli e infine lasciarli perdere.
Davvero, anche solo seguendo un manualetto da due soldi, con quei topos la scrittura di un… romanzo… breve… diventa la faccenda di un paio di giorni. Be’, no.
Tanto per gradire, Abel è come il cervello di una mucca pazza. La sua trama (dico, quella che effettivamente è, non la semplice struttura) è piena di buchi! E non buchi normali: metabuchi, ossia buchi che a loro volta contengono altri buchi. Ehi, a ben pensarci, Abel è più come una spugna di Menger: ha pretese infinite e contenuto zero, ecco. Quel che voglio dire è che, forse forse, mi sa che al miracoletto baricchiano mancano… eh… tutte quelle cosine che rendono trama una trama, e non un mero accrocchio di parole?!
Uhm, la mia è un’affermazione forte. Questo mi obbliga a proporvi un ripassino tecnico proprio sulla trama, sulla struttura narrativa… su quelle robe lì che alla Scuola Holden ti sforzi di realizzare (suppongo) se sei un alunno, e guardi con disprezzo se sei il preside (salutiamo la Scuola Holden, che sa stare allo scherzo). Eh lo so, è una rottura, ma non potete bearvi soltanto delle mie superbattute, devo anche fare un po’ finta di essere una professionista del settore, no?
Allora, una delle teorie, forse la più grossolana, sostiene che in tutte le trame partorite vive si contano quattro fasi: esposizione, rising action (o “azione ascendente”, chiamatela come vi pare), climax, finale.
Nello specifico, l’esposizione comprende la parte in cui il narratore presenta il mondo della storia, i personaggi e la vita di questi ultimi. Ah, e… c’è un certo equilibrio di fondo.
Ta-dah! L’equilibrio si interrompe: sopraggiunge una crisi e noi siam già dentro una rising action, in cui vivere e ridere costa la metà. Poiché le crisi sono brutte cose, il protagonista della narrazione è costretto a reagire: per ripristinare l’equilibrio o per imporne uno nuovo.
E c’è quindi una sequela di vicende che, indovinate un po’?, culminano! Nel climax! Già… e quest’ultimo non è altro che la “prova definitiva”, il punto di svolta dell’intera storia.
Poi, ovviamente, arriva il finale. E benché il cuore della trama batta per la soluzione, in un modo o nell’altro, della crisi… meh, non è affatto detto che tutto si risolva. Magari no: in tal caso, comunque abbiamo un finale.
Dai, non è niente di difficile. Bene, ritorniamo ad Abel. Non lasciatevi ingannare dal mio riassunto, la trama è davvero bucata come vi ho detto: talmente bucata, che è già direttamente priva della fase di esposizione. Esatto, non ci sono manco a pagarle delle pagine che introducano in maniera coerente (quand’anche essenziale) i personaggi e il loro mondo. Ah, occhei, ma… che razza di mostro sadico farebbe mai una cosa simile al proprio romanzo? E perché?
La risposta, cioè la risposta alla seconda domanda, ce la dà Baricco stesso, che in un’intervista ha dichiarato di aver scelto un soggetto western perché “[…]non avev[a] tempo e voglia per edificare mondi, come [fa] di solito, [gli] serviva qualcosa di pronto all’uso […]”.
Vabbè, probabilmente era al McDonald (o al Burger King, non so se segue i consigli di Ghali o di Bello FiGo) e ha sentito qualcuno dire che uno scrittore, talvolta, scrive dei libri: folgorato dall’intuizione, però anche senza voglia, deve aver scarabocchiato Abel sul tovagliolo, et voilà!, libro fatto. Certo, poi sul tovagliolo c’erano scarabocchiati un doodle di Abel e la parola “western”, ma tanto basta. Libro!
No, ma seriamente: stando alle sue stesse parole, sembra che il nostro autore pensi di cavarsela sostenendo che non è necessaria un’esposizione ponderata se si ha una traccia collaudata. Solo che… uh… no? Insomma, c’è una differenza fra uno schema e una storia pronta all’uso. Se penso “western”, sicuro!, mi vengono in mente tanti cliché, come i luoghi sconfinati, i fuorilegge cazzuti, i duelli, gli eccessi del vizio, il saloon polveroso. Benissimo, posso essere pigra quanto voglio, servirmi proprio di tali cliché, e costruire una storia di certo non originale, magari non esaltante, però decente e dignitosa, come ho detto in precedenza. Questo è vero, ma… ma la storia devo pur costruirla! I cliché, gli elementi “pronti all’uso”, del western o di qualsiasi altro genere, si presentano a noi slegati: sono parti di mondi (sia gli ambienti sia le attività), di per sé, e senza un pesante intervento da parte nostra (ci immaginiamo autori, stavolta), non saranno mai dei mondi interi e cotti, pronti da servire.
Soprattutto se poi, oltre ai cliché, ci mettiamo delle trovate random! Lettori, converrete con me, qualora dovessimo condensare al massimo la figura di Abel, finiremmo per giudicare calzante questa formula: “un pistolero che ha raggiunto la fama e che sente di avere un animo filosofico in un ambiente sociale primitivo e spietato”. Ah, be’, dici niente: e questo sarebbe il western “pronto all’uso”? Ma col cazzo, il pistolero filosofo non è un cliché, è qualcosa di originale, o comunque di molto poco sfruttato!
Be’, be’… ottimo! Dico davvero: se effettivamente quella descrizione è lo scheletro di Abel, nella nostra testa prende colore un mondo avvincente e incredibilmente complicato. Diavolo d’un Baricco, non aveva voglia di inventare mondi, eppure non riesce a sfuggire al suo stesso talento, il mondo gli si costruisce fra le mani, ed è un enorme uovone Fabergé a orologeria! Ma quindi ho mentito, ho fatto storie per nulla, il libro è… è arzigogolato, sorprendente e bello. Cosa mai può esserci di male, dunque?
Eh, di male c’è che la fase dell’esposizione… forse… dico forse… dovrebbe cercare di aggiungere qualche dettaglio al mondo che stiamo pregustando, a maggior ragione se esso promette di rivelarsi esotico! Ciccia!, torniamo a quanto accennavo in precedenza: non ci sono neanche a pagarle delle pagine che introducano in maniera COERENTE i personaggi e il loro mondo.
Vi ho giocato un tiro mancino, confesso, Abel l’ho ridotto io a “pistolero filosofo”: in effetti, nel testo… non si capisce mica che cacchio è! In alcuni punti, Abel è semplicemente un pistolero, ossia un uomo istintivo e pragmatico che non sa spiegare a parole la sensazione provata prima di sparare: sa solo di provare una “vibrazione”, e tanto gli basta…
Sento una vibrazione, allora sparo.
Che ne so, come una vibrazione.
Estraggo e sparo.
Ma poi, e di punto in bianco!, lo troviamo ad arrovellarsi sull’entelechia aristotelica:
Ma la ferita vive in noi introvabile, come una forza pura che tace sotto il nitore della pelle, preparandosi a diventare. Aristotele pensava che tutta la realtà fosse costruita in questo modo, non solo l’evento singolare della Ferita, e arrivò a coniare una parola, entelechia, per nominare quella tensione che straziava il mondo intero, il suo transitare da intenzione a cosa.
Occhei, sì, il pistolero filosofo può anche essere interessante, non mi rimangio nulla, ma deve essere un pistolero E filosofo, non un pistolero O filosofo! L’Abel baricchiano è stato forse immatricolato, perché mi sa che sul culo ha una targa e, secondo il regolamento comunale di Tombstone (o qualunque cazzo è il villaggio in cui abita, non mi ricordo) può cosplayare John Wayne solo a giorni alterni: il resto della settimana deve attenersi a imitare Cacciari.
Ma non si fa così, e su! Come possiamo prendere sul serio il romanzo, come possiamo sentire di essere stati introdotti a un certo mondo finzionale, se addirittura già il protagonista è presentato con due personalità completamente opposte e incoerenti? Badate: “incoerenti”. Qui non abbiamo un dottor Jekyll e un mr. Hyde, non abbiamo un Tyler Durden: non c’è collegamento fra le due personalità di Abel, esse compaiono e basta, senza alcun motivo. Eh, be’, capite che avere un personaggio radicalmente schizoide, senza che ci sia spiegazione (nemmeno la schizofrenia, appunto, LOL) per questa schi… schiz… schizoidità?… è un leggero inconveniente che rende la fase espositiva della trama un po’… un po’ diversamente abile, ecco (con estremo rispetto per gli amici diversamente abili, che di certo non meritano di vedersi accostati ad Abel).
Ah ma voi siete testardi, lettori, e voi mi volete rompe er cazzo, eh? None, non insistete con la tiritera che Abel parla con due voci diverse perché Maestro l’ha addestrato per essere completamente un pistolero e completamente un filosofo. Non è così che funziona. Ciascuno di noi nasce con una personalità ben definita, che si manifesta con particolari inclinazioni e abilità. Pensateci: scommetto le chiappe che a scuola una materia (o magari due… strettamente imparentate) vi ha fatto penare più delle altre, e questo nonostante frequentaste le lezioni, il doposcuola, o addirittura la CEPU. Il punto è che non basta fare una cosa per farla bene, se alla base non c’è una propensione. Allo stesso modo, non è accettabile che talvolta Abel cominci a vomitare grecazzate in pieno stile Fusaro, solo perché leggeva occasionalmente dei testi filosofici a Maestro. Se diventa Fusaro… no, ma che Fusaro… uh… boh, di nuovo Cacciari… se Abel diventa Cacciari, concludiamo noi, è perché possiede una personalità particolarmente riflessiva che lo porta a interrogarsi sulla natura del mondo… no? Eh, no, perché se Abel fosse un tipo riflessivo, allora non dovrebbe spiegare in maniera tanto approssimativa e scazzata che cosa sente prima di sparare.
Bariccuccio? Bariccuccio, questo dilemma ci sta scannando! Non è che potresti… uh… risolverlo per noi, nel tuo… uh… romanzo che dovrebbe narrare uno dei tanti mondi possibili? Eh? Perché, uhm, tutte le storie (a prescindere dalla voglia del loro autore), se sono davvero storie, ci rivelano un mondo possibile. E un mondo possibile è, per definizione, almeno un mondo coerente…
Rising asshole
Metafisica di base, lettori, metafisica di base (un po’ più complicata di come l’ho esposta, ma lasciamo stare, facciamocela andar bene). Metafisica che, abbiamo visto, si becca un bel dito medio nella prima, semplice fase della trama. Tranquilli, ce ne sono ulteriori tre, quindi le opportunità che ha il nostro autore di offendere sono ancora moltissime. Adesso consideriamo la rising action del romanzo. E credo troverete giustificata la mia precedente insistenza sulla personalità di Abel.
Ebbene, la personalità del protagonista aiuta a delineare il mondo della storia, sì, ma è anche ciò che, in sostanza, imprime la direzione alla storia medesima. In particolare, è il punto d’origine della rising action. Appunto, questa origina dalla lotta del protagonista contro il suo mondo. Lotta motivata dal raggiungimento di un obiettivo. Obiettivo fissato dalla personalità. Tutto torna, vedete.
Ora, divertiamoci con qualche controfattuale (anche se mi viene il dubbio che si tratti davvero di controfattuali). Se Abel fosse un pistolero pragmatico, sarebbe molto contrariato e addolorato all’idea di dover appendere le pistole al chiodo: razionalmente, la rising action si svilupperebbe intorno ai suoi tentativi di riacquisire il talento perduto, oppure intorno all’estrema fatica di trovarsi un nuovo ruolo in società (come Tony Blundetto de I Soprano). Al contrario, prendiamo l’Abel riflessivo e interessato alla natura delle cose: be’, mi sa tanto che un po’ sarebbe entusiasta di potersi dedicare a qualcosa di più rilassante, e affine alla sua personalità meditabonda, perciò la rising action dovrebbe raccontare di una progressiva accettazione di sé, o di un progressivo distacco dalla società.
Divertimento finito, poveri stronzi! Sveglia! Abel non ha una personalità: di conseguenza, la rising action è un casino, senz’altro. Uhm, più che un casino è un piattume unico: Abel, essendo concepito in maniera incoerente, non può prefiggersi un obiettivo preciso, e, ta-dah!, non avendo un obiettivo non può entrare in conflitto con il suo mondo. E infatti, dalla prima all’ultima pagina di Abel, il nostro eroe non segue mai una direzione, non evolve mai, fa continuamente spallucce aspettando invano che il suo autore gli dia un input per agire, finalmente, in qualche modo.
Insomma, e sì che c’è quella grana dell’intontimento durante la sparatoria, le distrazioni filosofiche, e… e niente, questo brano è praticamente tutto ciò che leggiamo di come Abel affronta i crocicchi della sua vita:
La cosa che trovai più appropriata fu scolare lentamente verso il Sud, venendo via dalle terre che mi conoscevano. Forse avevo in mente di arrivare da qualche parte in cui nessuno sapesse chi ero, con l’idea di slacciarmi il cinturone, allora, e seppellire le mie pistole per sempre. Ma non è successo. Non è andata così. Un giorno mi sono accorto di avere finito i soldi. Da allora vivo con poco.
Avevo mani d’avorio, ai tempi, tutti i pistoleri ce l’hanno. Ora le guardo, sono piene di sole e rigate dal lavoro. Mi piacciono, sono mie.
Apperò, Abel sembra calmo e soddisfatto, mentre ragiona sulla sua nuova fase da “non pistolero”. E, badate, non è neppure sollevato, non tira finalmente un sospiro di sollievo: non leggiamo di un uomo che, spinto dal destino, ha un’illuminazione e finalmente comprende (e accetta) la sua vera natura. No, semplicemente ad Abel capita… uh… qualcosa… e lui, ripensandoci, conclude pressappoco con un “ok dude, fine”.
Oh, dunque… abbiamo scoperto che Baricco non aveva voglia di lavorare, e quindi s’è ingegnato ad agghindare una traccia preconfezionata; poi abbiamo scoperto che, invece di affidarsi alla traccia, ci ha infilato un protagonista atipico che induce suggestioni intimistiche ed esistenziali; ora abbiamo scoperto che il nostro autore è davvero pigro, e che ha mollato senza farsi problemi. Ma perché?! Se aveva bisogno di pubblicare, però non aveva idee, non poteva seguire dritto e sicuro gli stilemi del western, e costruire una sorta di redenzione in cui Abel supera gli insegnamenti di Maestro, trova una sua forza interiore, un nuovo potere sbloccato grazie alla filosofia, o che cacchio ne so, e ritorna a sparare bene in un epico duello finale contro i cattivi? Al contrario, se Baricco le aveva le idee, e voleva proporci una sorta di Recherche ambientata a Tombstone (già di suo un progetto bizzarro), non poteva sbattersi un pochino di più e realizzarle fino in fondo?!
No, perché, incredibile!, ci ritroviamo con una totale assenza di azione “da manuale”, e non vedremo mai Abel impegnato in un suo personale (e classico) viaggio dell’eroe, ma pure manca l’azione “interiore”, appunto quella à la Recherche, per intenderci. Manca, eppure gli spunti e le insinuazioni ci sono, ho detto, e sono pure invadenti, quasi continui.
Eggià, perché il nostro eroe, nonostante abbia detto di sballarsi al solo pensiero delle sue mani “rigate dal lavoro” (seeeee… dal “lavoro”, come no…), continua a portare con sé le pistole, e le cerca istintivamente, quasi gli fossero di conforto, soprattutto nei momenti in cui crede di essere in difficoltà:
Vai a letto con altri quando sei in giro?
Ti rendi conto che per chiederlo hai dovuto girarti a controllare dove erano le tue pistole?
Scusa?
Lo fai sempre. Quando diventa difficile ti giri a guardare le tue pistole. Lo sai, vero?
Be’ […]. Mi piace sapere dove sono.
Porti ancora le pistole, dice.
Capisco che sa tutto. Meglio così.
Cosa le tieni a fare se non spari più?
Mi danno una bella andatura quando cammino.
Perfetto! Abel non riesce a lasciarsi alle spalle il ruolo del tosto John Wayne, adesso. Perchéééééé?! Ci è stato spiegato che gli piace fare lo zappaterra, o il programmatore di sofware, insomma, qualunque cosa gli renda le mani “rigate”, mo’ che c’azzecca che non riesce ad abbandonare le pistole, che resta ancorato alle vecchie abitudini?
Questa roba può avere senso soltanto se prepara… eh… un conflitto? Ripeto: il personaggio che prova a cambiare vita, ma non ci riesce, e va così incontro alle successive avventure che segneranno il suo destino. Un Tony Blundetto, un dottor House, perfino Gambadilegno, in una storia, faceva il postino, ma poi finiva per perdere il lavoro perché smanioso di scatenare una faida con Pluto.
È un classicone, fa parte di quei cliché di cui Baricco parlava nell’intervista: ma poteva svilupparlo, no? E se voleva fare l’originale, va bene, si poteva ricamare sul tema filosofico: va a sapere come, però un modo c’era di sicuro. Invece no, siamo sempre lì: il cliché è trascinato a forza nel romanzo, spogliato, indicato col dito e… e basta, poi è semplicemente ignorato.
Clim-ass
Abbiamo compilato una sommaria analisi di Abel supponendo che avesse una fase di rising action. A questo punto dovremmo passare al climax, secondo la suddivisione che ho proposto. Già. C’è proprio bisogno che vi dica che il climax… oh, shit!
Non c’è un conflitto, che climax può esserci?! Ecco, pure Baricco se n’è accorto. E ha di fatto sostituito il climax con quella mostruosa aggiunta che abbiamo incontrato nel riassunto iniziale, il salvataggio di mamma Abel. Dal nulla e senza motivo, compare Lilith, che dà la missione al nostro protagonista, manco fossimo finiti in un GTA.
Ora, vorrei spendere due parole su Lilith. Chi cacchio è?! E perché si chiama cosi?! Il suo non è un nome comune, per un personaggio inserito nell’ambientazione western. “Lilith” ha un significato negativo, e sono strasicura che i bigottoni rozzi delle praterie selvagge non avrebbero avuto piacere di chiamare così le loro figlie. E non mi frega niente che “Lilith” sia attestato come nome proprio, negli Stati Uniti, sin dall’Ottocento: ad amarlo erano i socialisti, gli anticlericali, o comunque dei tizi sofisticati ed eccentrici, non i burini del West, punto. Pertanto, cogitiamo noi, ci sarà un motivo profondo, se Baricco ha chiamato così il suo personaggio: forse c’è un qualcosa di allegorico nella donna, forse essa è la chiave per dare una certa interpretazione al libro. Forse è come “Achab” per Melville, no?
Nah, tronco subito la questione. Niente del genere, possiamo arrovellarci quanto ci pare, ma Lilith non è altro che un personaggio una tantum con il solo scopo di far alzare Abel dalla poldronah. L’unica altra spiegazione (non imbarazzante) per la presenza di Lilith, è che essa sia un omaggio a Tex, l’ennesimo cliché/riferimento che Baricco butta a casaccio nell’impasto. Se fosse così, d’accordo, ma… why?! Quella si chiama come la moglie indiana di Tex Willer, e allora? Abel è un expanded universe di Tex, per caso?
Chi se ne frega, non ha senso cercare di rispondere a queste domande. Tanto, già non ha senso l’entrata in scena di Lilith: non si capisce la sua richiesta ad Abel, soprattutto perché la donna sembra sapere che il nostro eroe ci ha quasi lasciato le penne, l’ultima volta che si è trovato in mezzo all’azione. Vabbè, potrebbe essere il solito escamotage: non puoi fingere di essere ciò che non sei, credi in te stesso e vedrai che ce la farai, bla, bla. Potrebbe. E potrebbe essere un’ottima scusa per iniziare (praticamente a metà della storia, wow) a scolpire la personalità di Abel.
In effetti, dopo quanto gli è successo, ci aspetteremmo che l’eroe si riveli sorpreso dalla proposta, che tenti di declinarla… anzi, sarebbe opportuno che addirittura si arrabbiasse con sua sorella. Uhm, forse questa mia ultima affermazione vi stupisce, lettori, ma ho dei motivi a suo sostegno.
Tanto per cominciare, e ciò è già stato evidenziato, Abel è in bilico, non ha preso una direzione consapevole e definitiva per la sua vita: bene, però Lilith interviene e in sostanza lo costringe a decidere chi vuole essere davvero. È presumibile che tale situazione sia fonte di un grande stress.
Poi: anche se Abel non avesse alcuna esitazione, dovrebbe comunque confrontarsi con la consapevolezza di non essere più abile come un tempo. Può darsi, ma è solo una mia ipotesi, che la prospettiva di finire male non susciti in lui una ventata di ottimismo e voglia di fare…
C’è un terzo motivo: Abel non ha un buon rapporto con sua madre. Ehm… allora… vedete… il fatto è che mamma Abel l’ha ripetutamente molestato quando era soltanto un bambino, e poi l’ha abbandonato…
Di giorno lavoravamo, ma di notte, il corpo immobile, ti stringeva la testa dal male, quel freddo. […] Allora mia madre si alzava, si infilava sotto le nostre coperte, e insieme a lei tornavamo animali tiepidi, viventi. […] Ogni tanto ci infilava una mano tra le gambe, e non aveva paura a toccarci, e rianimare il sangue. Venivamo nelle sue mani, disperdendo il seme sulla paglia tiepida. […] Dopo quell’inverno non smise di farlo. Ma accadeva piuttosto nel caldo torrido dell’estate, devo aggiungere. Quasi non ci toccava. Apriva le gambe e ci prendeva dentro, era come un respiro. […] Il più piccolo di noi aveva dieci anni, allora.
Fu così fino a quando nostra madre non se ne andò.
WHAT THE FUCK IS THIS?! Ma… ma… questo è puro nonsense, cioè… cioè il romanzo ci ha costretti a rinunciare all’esposizione, alla rising action e a un climax decenti, sani e godibili, per… per darci questo?!
Prima avevamo il pistolero filosofo, e già era il sostrato di un western completamente fuori dagli schemi: adesso abbiamo il pistolero filosofo abusato da sua madre. Dalla madre, capito?, manco dal padre. Baricco, questa è roba con cui puoi elaborare minimo dieci trame, e probabilmente ci vorrebbero dieci anni per portarne a compimento (in maniera decente) una sola, che mi vieni poi a raccontare che non avevi voglia e che quindi ti sei servito degli stereotipi pronti all’uso del western? Ti sembrano stereotipi quelli?! Uff, mi sa che l’unica verità è quel “non avevo voglia”.
E la prova regina della suddetta “non voglia” è… ohhh, no, no, non gli assurdi abusi che il nostro autore introduce e basta, nemmeno per sogno… è proprio la reazione di Abel alla richiesta di Lilith, reazione da cui eravamo partiti, e che… semplicemente non esiste! Guardate, Baricco non ci prova nemmeno a buttar giù due righe plausibili a tal proposito, si accontenta di ’sta roba:
[Lilith] Mi è venuta a raccontare di nostra madre. Che sarà impiccata il primo maggio a Yuba.
Più tardi, nel cuore della notte, mi chiederà di farle vedere le mani. Le guarderà a lungo, i palmi e i dorsi. Poi mi dirà che, per quanto io sia convinto di non sparare mai più e intenda rispettare questa convinzione anche a prezzo della vita, ho nelle dita ancora sette colpi […]. Poi […] mi chiederà con tutta l’umiltà del mondo di regalarle tre di quei colpi, solo tre.
A cosa ti servono?, chiederò.
A portare nostra madre via di là. Ho un piano.
A Yuba ci sono i migliori. Non se la lasceranno portar via sotto il naso.
Ho un piano, ti dico.
Tipo andiamo lì, facciamo secchi tutti e ce la portiamo via?, chiedo.
Ho in mente qualcosa di più raffinato, dice.
Ecco, questa è l’idea baricchiana di climax. Abel che, di nuovo, risponde con un “mmmh, nice”.
Viva la mamma, affezionato a quella mano un po’ lunga
Vabbè. Dopo tutto questo papocchio come vi aspettate che sia la fase finale della trama?
Abel, quando deve sparare per troncare la corda che avvolge il collo di sua madre, inconsciamente mira più in basso, alla testa della donna, risparmiandole così di essere impiccata (come da promessa a Lilith) e al contempo lasciando erompere tutti i sentimenti che per anni aveva covato dentro di sé come conseguenza del trauma subito. L’abilità con le pistole, l’attrazione per la filosofia, il senso di bellezza nel vedere il corpo segnato dal duro lavoro: tutto ha un senso ora, perché prima non l’aveva, si trattava solo di erratici tentativi di affrontare il trauma degli abusi. Ma ora, ora che sua madre è morta, e che è stato lui a ucciderla, Abel può finalmente dire di aver trovato sé stesso, e anche se il futuro è incerto e doloroso, egli non sarà mai più materia informe, ma un uomo. Un uomo vero.
Dai, questo finale è… è bello, il romanzo s’è riscattato.
E grazie al cazzo, me lo sono inventato sul momento! L’ho scritto cercando di spiegare perché Abel accetta senza indugi di partecipare all’operazione di salvataggio (appunto, Abel in realtà vuole inconsciamente commettere un errore e uccidere “per sbaglio” sua madre); e ho cercato di chiarire il motivo per cui è stata introdotta la molestia sessuale.
Be’, fuck me, and fuck you too, lettori! Baricco ha stabilito che Abel riacquisisce il suo talento e spara pure meglio di prima (perché? Boh):
Presi la mira, sentii una vibrazione, premetti due volte il grilletto e i due della Gatling rimbalzarono all’indietro con un bel foro in mezzo agli occhi.
Sparo ancora meglio, da quando non sparo più.
E poi, quando guarda sua madre, si fa prendere dalla tenerezza al ricordo di quelle amorevoli seghine, e non tentenna manco per sbaglio:
Per questo adesso è a te che mi andrebbe di spiegare, in qualche modo, cosa è stato incrociare gli occhi di mia madre, davanti a quel patibolo […]. Mi credi se ti dico che ho sentito d’improvviso una pace infinita? […] Respiro, poi sento una vibrazione, e sparo. La corda si sfilaccia secca, e vola nell’aria. […] Mia madre è libera.
E così Hume, le mani rigate dal lavoro, e quegli strani ricordi di indumenti bagnati possono andare affancuuuuuulo!
Romanzo non
Teribbbile, lettori, teribbbile!
Almeno, per me è terribile, ma io non sono nessuno, sono solo una sfigata che scrive le parolacce. Il punto è che io non ho capito la natura di Abel. Un professionista vero, un altro “maestro” (secondo alcuni), mi spiega invece in un articolo erudito (LOL, tra l’altro dal bellissimo titolo, per nulla equivoco) che il western baricchiano è “un’opera narrativa […] quasi del tutto priva di quella che definiamo generalmente una trama”, perché il protagonista “ci racconta sì la sua vita così ricca di avventure e di incontri rivelatori, a cominciare dalla sua famiglia, ma procedendo senza nessuna linearità cronologica, mischiando le epoche come un mazzo di carte da gioco”.
Ah, cavolo!, grazie Emanuele Trevi, mi hai aperto gli occhi, Abel è un… un antiromanzo?
Sì, l’intuizione di Trevi non è sbagliata. Ha insistito sulla non linearità cronologica, e in effetti questa è una delle caratteristiche dei romanzi senza trama, o con un’antitrama. Non linearità, incoerenze e coincidenze: gli ingredienti fondamentali di un antiromanzo, e, appunto, gli ingredienti che abbiamo incontrato (e perculato) fin qui.
Quindi io ho sempre avuto sotto il naso un’antitrama, e mi sono permessa di analizzarla come se fosse una trama normale, addirittura facendo la smargiassa con quel ripassino sulle fasi?
Uè, calma, non così in fretta!
Non dobbiamo esagerare: anche un’antitrama, per quanto stramba, ha uno scopo. Altrimenti, a che si riduce, a un caotico collage di frasi? Ecco, e ha uno scopo, in fin dei conti, semplice: intende togliere spazio alla descrizione degli spazi e degli eventi, per dedicarlo agli aspetti soggettivi, interiori, psicologici.
Classico esempio: Ulisse di Joyce. Difficile lettura, ma si può capire senza troppi sforzi che essa si concentra sul rapporto affettivo padre-figlio, sul desiderio sessuale, sul senso di colpa e sulla gelosia.
Altro caso, forse meno noto: Aracoeli, che ruota intorno al disagio sociale ed esistenziale del protagonista e alla sua relazione… morbosa… con… la… madre.
Ci sono anche i film, come Il lenzuolo viola: la non linearità delle sue immagini manifesta, “mima” l’ossessione erotica di uno psichiatra per una giovane donna.
Insomma, avete intuito, immagino. Un… qualcosa di narrativo… può essere classificato come antitrama se si accompagna a una poderosa analisi psicologica: perché, ehi, notiziona!, la non linearità dell’intreccio e i vari non sequitur sono proprio un tentativo di replicare la struttura (che noi percepiamo essere quella) del nostro pensare. Ma siamo arrivati fin qui cementando la convinzione che in Abel non c’è proprio un tubo di niente, sotto tale aspetto. Abbiamo un protagonista con due (o più) personalità incompatibili, slegate fra loro e semplicemente appiccicate al suo corpo, incapaci di mimare alcunché delle reali sfumature psicologiche (a volte in opposizione fra loro, certo!) umane. Abbiamo degli eventi traumatici, nel presente, che passano come acqua fresca, causando reazioni talmente lontane da quelle familiari della nostra realtà, da risultarci in definitiva comiche. Abbiamo degli eventi traumatici, nel passato, che… che sono appunto degli eventi e basta! Delle cose buttate lì, descritte e lasciate marcire. Cioè, lettori, ma una molestia su minore da parte di una madre è un trauma un tantino pesante, che dà origine a Dio solo sa quali risposte difensive da parte della psiche! Se Abel vuole essere “non lineare”, come dice Trevi, oppure “onirico”, come dicono altri entusiasti a commento del prodotto su Amazon, eh… di occasioni per esserlo ne ha. I meccanismi di difesa, e qui mi limito appunto alla faccenda della molestia, sono di per sé “strani”, e molto spesso hanno conseguenze imprevedibili, inquietanti… uh… anche incoerenti, già. Ma non imprevedibili, non inquietanti (che c’è di inquietante, nel romanzo?), e non incoerenti così come sono incoerenti le cacchiolate che incontriamo in Abel, LOL! Queste ultime, appunto, sono delle cacchiolate ai nostri occhi, proprio perché irrealistiche, “folli”, sì, ma non folli di una vera follia (non so se mi spiego).
La conseguenza, di tutto ciò? Semplice, gli eventi in qualche modo connessi con l’interiorità di Abel, con la preminenza, ancora, della molestia, restano quel che sono: dei semplici fatti appesi, né più né meno. E dunque, se le mie premesse sono corrette, è proprio stiracchiata (per usare un eufemismo) la definizione di Abel come “antiromanzo”, e dubbio è il conseguente valore che tale qualifica gli può conferire. Più che un antiromanzo con un’antitrama, a me pare che sia un non romanzo, avente una non trama. Ma anche una “non storia”, se vogliamo distinguere (e Baricco distingue) fra trama e storia. Anzi, mi sa che devo spostare l’avverbio: non è un romanzo e non ha una trama. E non ha una storia. Ehi, dopotutto sono le parole di Trevi, che non ha mai parlato di “antitrama”, ha proprio detto che Abel è “privo di trama”. Ma allora come fa a considerarlo “un’opera narrativa”?
Metà fisico
Mah, mah, mah! Mi sa che ci stiamo sbagliando tutti, qui. Sì, perché se gironzolo nell’internet e non mi faccio distrarre dai siti per adulti, noto che il nostro romanzone è invariabilmente celebrato come “western metafisico”.
Ah, ma allora è una roba filosofica proprio fino all’osso! Eh, potevo risparmiarmi tutte quelle storie, se il suo contenuto è filosofico allora non c’è regola che tenga: si inoltra in territori inesplorati, dove le certezze artistiche e comunicative non servono più a nulla. Dev’essere così. O…
O forse no. Intanto, se riusciamo a riprenderci dallo stupore e dalla ventata di calore emanata dal carisma külturale del libro, ci sovviene prepotente una domanda: che cazzo di diavolo dovrebbe essere un “western metafisico”? Stavolta siamo fortunati, infatti è di nuovo Baricco che ci dà la risposta, e questa è sorprendentemente precisa, la migliore possibile: “[…] western metafisico è un mio modo di dire una cosa che esiste. Pensiamo al western di Tarantino o dei fratelli Cohen, ma ce ne sono anche in letteratura. […] “Metafisico” è per dire che non è il western classico, quello alla John Wayne”.
Ehm, almeno… l’ultima frase è precisa, ecco. Ora, da un punto di vista prettamente filosofico non ho da contestare Baricco: è legittimato a usare qualsiasi suono/scarabocchio per significare qualsiasi cosa voglia. Dal punto di vista più limitato della comunicazione fra esseri umani, però… uh… mi sento di far notare che la definizione di “western metafisico” non ha senso: la Pepsi al limone è diversa dalla Pepsi classica, ma nessuno finora l’ha chiamata “Pepsi metafisica”, no?
Non so se poi il nostro autore ci ha un po’ ripensato su questa faccenda di “metafisico=diverso dal solito”, fatto sta che… eh… in Abel ci sta davvero la metafisica, ’nagg! Non una novità, ve ne ho parlato fin dal riassunto: ci sono i libri, Aristotele, Hume e compagnia. E… e niente, appunto la metafisica, nel libro, si manifesta immediatamente con la solita (“non metafisica”, dovrei dire) pallosissima forma che le è attribuita da noi in Italia: la storia della metafisica/filosofia. Yeeeeh!
Eccallà, Baricco, dopo aver grattugiato un manuale di filosofia per i licei, cosparge la pagine di saporite scagliuzze sapienziali (fra cui c’è anche qualche grumettino di muffa):
Per cui il Verbo ebbe per lui le parvenze di un soffio, in latino spiritus, in greco pneuma, considerato da Anassimene il principio primo di ogni cosa.
D’altronde, prima che le cose diventassero cose, sosteneva Keplero, Dio era geometria allo stato puro.
Pochi sanno che la madre di Keplero fu accusata di stregoneria e poi assolta dopo un processo durato sei anni. A difenderla fu suo figlio.
[…] un avvocato fallito di Edimburgo, si chiamava Home, aveva sostenuto, divenuto filosofo, che parlare di causa e effetto era totalmente illusorio, le cose in realtà non andavano affatto così. […] Il fatto che a un fenomeno ne seguisse un altro non voleva dire un granché, poteva anche succedere migliaia di volte ma nessuno poteva dire che sarebbe andata così anche la prossima.
A ventitré anni, Home cambiò il suo cognome, convinto che fosse troppo scozzese per suonare bene in Inghilterra. Così oggi è famoso in tutto il mondo come David Hume.
Occhei, lode immediata per aver correttamente ricordato la storia del processo alla madre di Keplero: bravissimo, Baricco, hai umiliato correttamente La tecnologia è religione. E in generale le pilloline di storia della filosofia proposte da Abel sono corrette, perciò… uhm… bene?
Ma quale bene e bene?! Cioè, sì, almeno le informazioni sono giuste, ma perché si trovano in questo libro?! Non è un saggio divulgativo, non è un testo per bambini della collana “coloriamo i filosofi”, non è nemmeno una pubblicazione di Luciano De Crescenzo: che cazzo ci frega di Keplero e di Hume?! Tali nozioni sono, al pari di tutto il resto, inserite nel romanzo e basta: non introducono una tesi originale di Baricco (a mo’ di confronto con i pensatori che l’hanno preceduto), non si legano a tormenti interiori di Abel (perché, in fondo, non ne ha), non servono semplicemente, e magari nel giro di una pagina, a darci un’idea immediata del clima intellettuale promosso da Maestro. Ogni tanto ce le troviamo, e… e niente, leggiamo, forse facciamo di “sì” con la testa, poi passiamo oltre, con un “chi se ne frega” nel cuore.
Qualche incorreggibile nerd fra voi, lettori, vorrà magari sottopormi la sua interpretazione, secondo la quale, almeno per quel che riguarda Hume, Baricco insiste perché, sotto sotto, vuole esporre una sottile critica al filosofo. Uh… qualcosa del tipo che il sistema di Hume, invece di aiutare l’uomo a progredire, scoprendo la verità, si rivela una massa di astruserie controintuitive che in effetti alienano l’uomo dalla sua dimensione vitale e attiva, in definitiva l’unica vera. Infatti, ricordiamo perfettamente che è proprio il lambiccarsi su Hume a mettere Abel nei guai:
A me accadeva sempre più spesso che vedevo passarmi tutto negli occhi prima di sparare. Il fatto è che quella volta vidi tutto a una tale velocità che il mio sparo e il suo crollare erano un solo istante, e anzi, a guardare bene, erano un istante rivoltato in cui l’uomo cadeva e poi arrivava il mio sparo, come una conseguenza. Persi un frammento di tempo gravissimo a sentire la morbidezza di quel mondo al contrario […]. Poi caddi all’indietro, letteralmente rovesciato da un colpo in pieno petto. […] Allora rimisi le cose nell’ordine in cui Mr Home non gradiva […].
D’accordo, ma allora voialtri nerd come spiegate che poi, alla fine della fiera… oh, c’è uno spoiler qui… ehm, come spiegate che, dopo aver salvato la mammina, ed essersi lasciato alle spalle le idee di Hume, Abel muore comunque? Guardate…
Respiro, poi sento una vibrazione, e sparo. La corda si sfilaccia secca, e vola nell’aria. Istintivamente dedico un pensiero di gratitudine al Maestro. Mia madre è libera. Tiro le redini, giro il cavallo, ho finito. […] Spingo gli speroni nel ventre del mio animale, poi qualcosa di invisibile mi fracassa la spalla facendomi girare su me stesso. […] Sento una vibrazione ma non sparo perché un fuoco mi apre il petto e mi stacca l’anima dal corpo.
Io rimango della mia opinione, la storia della filosofia che incontriamo in Abel è solo un’aggiunta posticcia, così tanto per.
Tuttavia… c’è davvero della metafisica, nel romanzo. Intendo della metafisica dura e pura, già, già.
Tanto pura, che alcuni recensori hanno lodato Abel sotto quest’aspetto, parlando di un libro “sapienziale”, “spirituale”. Anche il marketing e la quarta di copertina hanno usato i medesimi aggettivi. Qualcuno, poi, è andato oltre, e ha dichiarato che il romanzo rappresenta una riflessione filosofica o mistica di Baricco, una riflessione da “sopravvissuto” (ricordo che il nostro autore, purtroppo, è affetto da una forma di leucemia, che sta affrontando).
Ora, non ho da discutere sull’aspetto “personale”, “privato” delle affermazioni filosofiche contenute in Abel: a maggior ragione se esse sono state di conforto per Baricco. Uscendo per un attimo dal mio personaggio della critica stronzissima, mi dispiace sinceramente per le difficoltà vissute dal nostro autore, e merita di essere incoraggiato a seguire qualunque cosa possa essergli di vero aiuto, quand’anche l’aiuto sia nulla più che un suo soggettivo senso di soddisfazione. Quindi, non voglio giudicare malamente in assoluto, e gratuitamente, certi brani del romanzo, o (sia mai!) dare del cretino a Baricco, giusto per fare show.
Però, un libro, pure nel caso in cui sia irriducibilmente connesso con il bisogno di star bene del suo autore, può e forse deve essere considerato anche sotto l’aspetto più “oggettivo” del suo proporsi come opera “per tutti”, come “nuovo tassello nel mosaico della cultura”. E, in questo caso… meh… non mi sento in colpa a rientrare nel mio personaggio. È già successo con Come d’aria, del resto, pertanto non è una novità.
Ebbene, se cercate, in Abel trovate. Trovate affermazioni come queste:
Lo [Joshua, uno dei fratelli di Abel] andai a trovare in prigione e gli chiesi se il caso esisteva.
Lui rimase a lungo a canticchiare piano non so che canzone. Poi si piegò verso di me e parlò molto a bassa voce. Disse che il caso esiste, sì, ma di rado. È una variante periferica del reale. Aggiunse che quando si è vissuto abbastanza per capire, quel che si capisce è che siamo segmenti di figure più ampie. Incapaci di leggerle, vediamo accadimenti casuali dove invece sfila il profilo di forme in cui sono scritti i nomi del mondo – immani pittogrammi. Con una certa imprecisione, molti definiscono quella scrittura – innata all’uomo – con la parola destino.
Lo disse spalancando gli occhi.
A quella distanza, avrebbe detto il Maestro, non sei padrone del tuo destino e del suo. Chi ne è padrone, allora?, gli avevo chiesto. L’intenzione, disse. Lui era convinto che chi immagina con purezza e forza contrae allora lo spazio dell’errore a un soffio, a una sfumatura. Diceva che se un cuore forte imprime un’intenzione al creato, lo crea. Anche dove l’esattezza è impossibile, quindi, è sempre possibile la pulizia di un gesto giusto, per un uomo giusto.
Che insegnano… un… uh… determinismo? Un idealismo? Un volontarismo? Boh. Nel primo stralcio scopriamo che “il caso esiste”, pare, come… perdonate il gioco di parole… caso limite della realtà. Ma, immediatamente dopo tale dichiarazione, scopriamo che diciamo “casuali” degli avvenimenti in effetti interconnessi causalmente. Uhm, non c’è contraddizione, in questo: in soldoni, Baricco espone la tesi secondo cui, a certe condizioni, il mondo è composto di eventi casuali, mentre ad altre condizioni esso è deterministico. Bene, ma… tutto qui? Esattamente che cos’è, una tesi personale, un tentativo di riassumere (e al contempo interpretare) la fisica contemporanea, un invito per noi a riflettere? Non si sa, è un qualcosa che, per l’ennesima volta, incontriamo e poi abbandoniamo passando oltre e facendo spallucce. Facciamo spallucce perché, in fin dei conti, non si tratta di una posizione teorica incredibilmente innovativa (appunto, potrebbe pure essere un semplice riassunto della fisica quantistica accoppiata a quella newtoniana, o alla teoria del caos) e perché il libro non ci dice nulla di più. Non c’è un’esposizione (aridaje) di prove a sostegno, non c’è uno sviluppo dei dettagli di tale tesi: è lì, basta, fine.
E dobbiamo poi fare i conti con l’altro brano, in cui sembra esposta una specie di difesa del libero arbitrio. Dico “una specie” perché si comincia con un “non sei padrone del tuo destino”, ma poi si scopre che ne è padrona “l’intenzione”. Eh, io do a “intenzione” il significato di “volontà”: e se il “destino” (ma non era una parola “imprecisa”?) è in definitiva controllato dalla volontà, e da nient’altro, non abbiamo forse una sorta di non-determinismo, quantomeno? Quindi incontriamo una rettifica, rispetto alla tesi precedente? No? Uff!
Notiamo che le due teorie sono esposte da un fratello di Abel e da Maestro. Potrebbe benissimo esserci una battaglia filosofica, con schieramenti contrapposti (o contrapposti in apparenza), e con Abel che peregrina cercando la verità, o anche solo la dottrina più “bella”: potrebbe, ma non lo sapremo mai, perché il nostro romanzo “sapienziale” non va oltre quei riassuntini, forse degli slanci mistici, delle spontanee illuminazioni intellettuali del nostro autore. Ma forse no, considerando che “se un cuore forte imprime un’intenzione al creato, lo crea” vuol dire o semplicemente che “l’immaginazione/la volontà/l’emozione creano ciò che creano”, oppure, malamente, che “dato un creato su cui agisce il cuore (ma farà parte del creato, il cuore?), tale azione ha come effetto il darsi del creato”. Mmmmh!
Vabbè, comunque ci sono poi anche dei riassuntini “artistici” e molto liberi della teoria della relatività (cioè… a me sembra, ecco)…
«Non c’è futuro, non c’è passato. C’è un unico respiro. Tu sei già morto tempo fa, quando eri bambino sapevi quello che farai domani, queste parole le hai sentite quando eri da poco uomo, e fra anni ti accadrà di vedere cose che anni fa hai solo ascoltato. Tutto si ricompone, e questa è la vita»
… e qualche riferimento random al… monopsichismo? Non so, fate voi:
Ogni anima è l’unica anima, e noi tutti un unico respiro. […] Puoi anche non crederci, ma io scorro nel tuo sangue, e il tuo cuore batte nel mio.
Davvero?
Ho vissuto giorni interi che tu credi siano stati tuoi. Siamo tutti orme degli altri.
Il mio commento non cambia, e di sicuro non mi azzarderei a considerare Abel un libro “sapienziale” o “spirituale” solo perché propone tali pensierini e in tale forma. Però, spezzo una lancia a favore di Baricco: i critici che lo perculano perché i suddetti brani (e gli altri simili) sono dei “nonsense”, dovrebbero informarsi un minimo, e rendersi conto che il vero nonsense di Abel è altrove: effettivamente, i passi citati contengono delle tesi filosofiche, anzi delle tesi metafisiche di tutto rispetto e attualmente oggetto di dibattiti e ricerche. Sì… almeno, se ho interpretato correttamente.
Casomai, si può lanciare un’occhiataccia al nostro autore per averci gettato addosso quegli schizzi di metafisica e poi essere scappato, lasciandoci alquanto perplessi e umidicci.
O sei Baricco o sei barocco
E va bene, abbandoniamo le perplessità filosofiche e ritroviamo qualche certezza.
Su questo non c’è dubbio: per quel che riguarda la forma, l’aspetto artistico… uh… lo stile, sì… Abel è un polpettone intasabudella. E questo grazioso effetto è raggiunto da Baricco principalmente grazie a un accorto uso delle figure retoriche. Voglio dire che il nostro ne accumula più che può. Sul serio, sembra non sapere quando fermarsi. Ecco un primo, semplice esempio:
Abbiamo continuato a schiumare cavalli scaricando pensiero, fino a che in cima a quell’andare ci aspettava l’oceano, così strozzando la nostra sete di terra, per sempre.
Occhei, procediamo con calma. C’è “schiumare” transitivo, che però, evidentemente, indica un concetto in cui avrebbe dovuto essere utilizzato in senso intransitivo. Esatto, la versione terra terra è: “abbiamo continuato a far correre i cavalli, al punto che schiumavano dalla bocca”; nella versione artistica, poetica, di Abel, i cavalli diventano invece complemento oggetto. Giusto, è proprio ciò che accade quando noi terroni diciamo di star “pisciando il cane”. Oh no, non dico che la scelta baricchiana sia una cafonata, in realtà l’effetto retorico… c’è… sì… ehm…
Ehi! Non basta: “scaricando pensiero” e “strozzando la nostra sete di terra”. Quest’ultima espressione, in particolare, è costruita con una metafora (“sete di terra”), e con… oh cacchio! Addirittura, l’altra figura retorica contenuta in quelle sei parole è o una personificazione (la sete è strozzata come un essere umano), oppure, se Baricco voleva intendere “riducendo la nostra sete di terra”, “strozzare” è usato in forma transitiva col significato della sua forma intransitiva.
Basta, mi scatena il mal di testa! Capisco che gli artifici retorici sono utilissimi, e anzi è auspicabile incontrarli in un libro che abbia qualche pretesa artistica, però qual è il vantaggio di queste lasagne letterarie? Non è la prima volta che incontriamo testi strapieni di accumuli retorici, e non è la prima volta che ci interroghiamo sul processo creativo che ha portato i loro autori a tali risultati.
Insomma, è bene tenere in conto che ogni deviazione dal senso proprio di un’espressione richiede un piccolo sforzo interpretativo. E se la fatica è minima nel caso di una metafora o di una catacresi, non è nulla: pertanto, più gli sforzi sono ripetuti e ravvicinati, più la fatica aumenta. Risultato? Con la fatica aumenta la confusione, e con l’aumento della confusione diminuisce l’appeal delle parole che si stanno leggendo.
Non temo di essere smentita su tale osservazione, tuttavia devo constatare che molti colleghi non si sono lasciati intimorire, e sono riusciti a lodare le stratificazioni baricchiane, qualificandole come eminente esempio di “stile barocco”. Sospetto, a garanzia della serietà dei miei colleghi, che in realtà ci sia un refuso in quel “barocco”, una “o” al posto della “i”: perché, davvero, Baricco non c’entra un cacchio col barocco.
I barocchi sicuramente usavano tanti, tanti, tanti artifici, però con il fine, chiaro e pattuito, di superarsi in originalità, stupendo al contempo il pubblico. Se conoscete Per i pidocchi della sua donna, di Anton Maria Narducci, allora vi ricordate certamente che il poeta paragona dei parassiti a gemme d’avorio e perfino ad “Amoretti”: lo scopo, va da sé, è proprio di creare “scandalo”, cantando di qualcosa di cui nessuno ha mai cantato prima, e in maniera del tutto imprevedibile.
Il nostro Baricco, invece, non è originale, e non supera nessuno: anzi, le sue trovate stilistiche, di volta in volta, si rivelano perlopiù gravitare intorno a un unico concetto. Considerate questo passo:
Si squarcia il cielo di un lampo d’argento e un immane strappo scarica subito dopo un morso affilatissimo […].
Eccallà: “squarcio” e “strappo” sono pressoché sinonimi, e “morso” non si allontana dallo stesso campo semantico. E tutto questo per dire, col maggior numero di parole, che un fulmine ha spaventato un cavallo. Occhei. E vogliamo discutere di quel “lampo d’argento”? Mizzega, che novità! A chi è mai venuto in mente di associare la fredda lucentezza del metallo alla bianca luce della saetta?
Comunque, non fraintendetemi, non voglio consigliare a Baricco di essere più originale, di osare senza paura. No, perché in effetti dei tentativi ci sono, in Abel, ed essi sono… eh… sono di questo tipo:
Quel che uscì dalla canna era il primo proiettile che avesse mai solcato l’Intatto [cioè i territori incontaminati del West]. Rigò quella luce come un diamante letale la superficie di uno specchio magico.
Che cazzo è un diamante letale?! Ci sono i diamanti ordinari, i diamanti pappamolla e poi i diamanti letali, adesso?! E perché dovrei associare un territorio incontaminato a uno specchio magico? Se il nostro autore non poteva trattenersi neanche stavolta dall’inserire una similitudine, volendo parlare della natura vergine del west, avrebbe potuto (e, mi sa, dovuto) andare sul sicuro, optando per un’immagine correlata alla violenza sessuale, o a qualcosa di simile. In tal modo, la similitudine avrebbe reso l’idea della violazione, della presunzione dell’uomo bianco, della sofferenza inflitta al territorio, che ne so. Quel che so, è che non era il momento di giocare a fare i barocchi, perché va bene stupire, ma non a scapito del significato e della naturalezza dell’associazione (a meno di non voler essere ironici come Narducci, atteggiamento fuori luogo rispetto al brano che stiamo analizzando). Invece no, il proiettile è associato a qualcosa di bello e prezioso (diamante), e la fottuta prateria a qualcosa di fantastico (uno specchio magico). Cosa vuol dire?! Che sparare è bello e che il West non esiste?!
Oh, Bio Parco!, e ce n’è ancora:
Tempo di mettere la testa fuori e c’era di nuovo quel sole cannibale a divorare ogni cosa.
Baricco, il “sole cannibale a divorare ogni cosa”, davvero? I cannibali mica sono definiti cannibali perché divorano ogni cosa, sono così definiti perché divorano i loro simili! Che cazzo fai, ti inventi di nuovo le parole?! Ma potevi scrivere “sole avido”, “sole ingordo”, “sole famelico”, “sole insaziabile”, “sole Smaila” (scusami, Umberto)…
E poi ci sono i paradossi, gli ossimori. Sigh!, sob!, nun c’a facc’ cchiù, voglio andare a casa!
Vabbé, sarà breve, ché tanto avete sicuramente già capito per conto vostro. Il nostro autore li ama, li venera, li infila ovunque, e noi rimaniamo a bocca aperta perché non sappiamo bene che cosa dovremmo farci:
Torneremo prima o poi?, mi chiese Lilith.
Non ce ne siamo mai andati, risposi.
[…] io non sono mai stato un pistolero del cazzo neanche quando ero un pistolero del cazzo […].
Prometto che la successiva è l’ultima parte analitica della recensione, poi si chiude.
Inaction tag
Esaminiamo i dialoghi. Ah-ah, sì, esatto! Sono deluchiani, cioè brutti. Se quelli di Dirty Erri difettavano dei beat, questi che troviamo in Abel hanno un altro problema fondamentale: mancano dei cosiddetti “action tag”, ossia di quelle descrizioni che, fra una battuta e l’altra, raccontano i movimenti e le espressioni dei personaggi.
Ora, gli action tag non sono di per sé imprescindibili, però sono utilissimi.
Innanzitutto, perché ci consentono di immaginare i dialoganti, permettendoci una più vivida immersione nel loro mondo.
In secondo luogo, l’action tag permette di inquadrare la sfumatura emotiva di una battuta in sé ambigua. Ad esempio, incontriamo la domanda “mi stai sfidando?”: bene, sapete dirmi voi se il personaggio che la pronuncia è in quel momento (badate bene: in quel momento!) arrabbiato, spaventato, minaccioso…? Ovviamente no, ogni alternativa è applicabile. Ma se tale battuta è accompagnata dalla descrizione di occhi sbarrati, denti stretti e sopracciglia leggermente aggrottate, allora le cose cambiano, e sapremo che il tizio è incazzato nero.
Ultimo motivo per cui gli action tag sono una bella cosa è che… be’, servono a dare il giusto ritmo al dialogo. Un battibecco ha un ritmo molto più serrato di un pillow talk, o di un dibattito filosofico. Senza gli action tag, è dietro l’angolo il rischio di appiattire ogni dialogo, rischio che porta con sé quello ancor peggiore di rendere i personaggi degli automi senza sentimenti.
Bene, e… ehi, che schifo! Niente action tag da nessuna parte, come ho anticipato, e inoltre i personaggi baricchiani, in moltissimi casi, nemmeno discutono, bensì trovano conveniente limitarsi a ripetere l’ultima frase o parola detta dal loro interlocutore:
Mi piace sapere da dove vengono le cose. L’origine. Conosci questa parola, origine?
L’inizio.
L’inizio, sì. La sorgente.
L’alba.
Tipo.
Tu spari. Ti spareranno.
Dici?
Dico.
Mi guarda e dice
Davvero?
Sì. Be’…
Be’ cosa?
Mica sempre.
Ah, ecco…
Vai a letto con altri quando sei in giro?
No.
Mai?
Mai.
È fantastico.
E quando si spara e si uccide?
Uh.
C’è poi il mio dialogo preferito, in cui si parla della Bibbia, intesa come volume, e leggendo il testo per intero non ci sono dubbi, ma isolando le battute dei personaggi…
La bruja sorrise.
Piccolo, disse.
Piccolo?
Molto.
… si ottiene un bellissimo e suggestivo equivoco a luci rosse, che non sfigurerebbe affatto accanto alle vette raggiunte proprio dal grande Erri.
D’accordo, la smetto, e passo alle conclusioni.
A(b)bel(loooo)!
Allora, vi ho raccontato Abel al meglio delle mie capacità. Avete potuto capire se, dal punto di vista tecnico, oggettivo, è un romanzo “giusto e tosto”. C’è però il punto di vista soggettivo, lo so bene. Spero che la mia recensione vi possa aiutare anche sotto tale aspetto. Nel senso, spero che le mie parole vi aiutino a formare un parere personale, fondato sul vostro gusto. Sì, insomma, spero che vi abbia chiarito le idee tanto da poter dire se Abel stimola il vostro gusto positivamente o negativamente.
Certo, perché un libro oggettivamente non ottimale, per metterla così, può benissimo essere amato e apprezzato. A me è successo molte volte, con Fiore, con Marina… anche con Walter, in fondo. Con Baricco… meh, so che si dice di lui “o lo ami, o lo odi”, ma io, in tutta onestà… sono più che altro indifferente. E con ciò mi riferisco esclusivamente ai due suoi lavori che ho recensito.
Di sicuro posso dire che non è un autore della domenica, ossia uno che sballa tutte le tecniche narrative perché non le conosce. No, penso sia evidente che Baricco ha competenza e sa quel che fa. Il fatto è che sceglie volontariamente di scrivere come scrive, e io non capisco bene a che pro scriva così. Uhm, sarà che si sente soddisfatto, probabilmente. Non intendo affermare che i suoi libri, non ultimo proprio Abel, siano esempi di egosploitation, essendo questi ancora frutto di autori inesperti e, molto spesso, dei veri capolavori di comicità involontaria. No, secondo me, Baricco scrive per Baricco, ma non per esaltare Baricco: scrive per il proprio piacere, sovverte il buon senso per il gusto di farlo, fa il mistico e il profondo perché gli va.
Abel, appunto, mi sembra soltanto l’ultima manifestazione di questo approccio baricchiano alla vita e alla scrittura. Obiettivamente? LOL. Soggettivamente? Per me, né caldo né freddo. Però, confesso, un po’ lo rispetto. E questo mi sembra sufficiente, come giudizio finale e assoluto. Non so, voi che dite? Probabilmente, per dire qualcosa, dovreste leggerlo, avete ragione. E allora… uhm… fatelo! Che vi importa? Male che vada, può darsi che ci ridiate su, dopo essere caduti in uno dei suoi buchi: e, in tal caso, vi sfido a lamentarvi di non aver fatto una buona lettura!
Ciao! Devo dire che leggere Abel mi ha dato serenità. Credo che come libro non chieda al lettore di usare tanti schemi per essere letto, si finirebbe a farsi tante domande che riempiono le righe ma lasciano quello che trovano, come per lo studente di filosofia: si può studiare con la testa oppure si possono vivere i dilemmi dei filosofi. Abel va vissuto, attraversato come un campo durante una passeggiata di sole la domenica, semplicemente perché quello è il suo scopo, perché è una ferita senza tempo.