Cinque geniali giochi di parole

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Il gioco è da prendere sul serio

Ludwig Wittgenstein, a un certo punto della sua carriera filosofica, si rese conto che la cosa più seria che si può dire a proposito del linguaggio è che esso è un gioco. Oh no, lettori, state tranquilli: sto giocando, non ho nessuna intenzione di discutere la complicata (e controversa) filosofia di Wittgenstein. Ciò che vi sto dicendo, in fondo, si sostiene su un equivoco, perché i “giochi” linguistici di Wittgenstein non sono i “giochi” di parole che voglio proporvi. Be’, in verità forse si tratta proprio di “giochi”, è il bello di una parola così vaga e così famigliare, come appunto notò il nostro amico filosofo.
Che cosa importa, dopotutto? Per qualche motivo ci capiamo perfettamente, anche se non sappiamo esattamente di che cosa stiamo parlando. Ebbene, basta con gli indugi: lettori, per voi cinque, dico cinque, giochi di parole sopraffini, delle autentiche sciccherie che fanno sempre bella figura quando compaiono. E quando mai compaiono? Avete ragione, oggigiorno bisogna procurarsi un bastone, una cesta di vimini, e poi bisogna mettersi a cercare con cura e con pazienza i deliziosi libri che hanno a cuore il vostro gusto per il bello stile. Fosse facile! Non soltanto si trovano sepolti sotto strati e strati di patetici romanzucci in decomposizione, ci sono anche degli imitatori velenosi che rischiano di rovinare per sempre il prezioso organo con cui digerite la cultura. Eh sì, perché i virtuosismi e i giochi di parole di questi ultimi sono in realtà tossine micidiali. Però state tranquilli, e date un’occhiata alla mia breve guida: affinerà un po’ il vostro palato letterario, e forse vi aiuterà a rigettare un boccone indigesto, prima che vi lasci l’amaro in bocca…

Calembour

Cominciamo con il calembour. Toh!, non mi dire, un nome francese per un gioco in cui si utilizzano parole aventi stessa pronuncia ma significato diverso. Certo, è evidente (per coloro a cui è evidente): la lingua francese non ha tra le sue virtù una stretta correlazione tra grafemi e fonemi. Il più delle volte, appunto, a uno stesso fonema corrispondono più grafemi. Parole, parole e ancora parole che si pronunciano in maniera simile, pur essendo scritte in maniera diversa, pur provenendo da etimi diversi e pur significando oggetti che appartengono a campi semantici completamente diversi, spesso antitetici. Prendete fiato e via con “vair”, “ver”, “verre”, “vers”, “vert”, cioè “vaio”, “verme”, “vetro”, “verso” e “verde”… una bella quantità di inchiostro e di significati per un solo, modesto suono: “vɛʁ”.
I francesi amano particolarmente il calembour, e non è difficile trovare dei giochi di parole perfino sulle insegne dei locali pubblici. Se pertanto vi doveste capitare di comprare un paio di occhiali mentre siete in Francia, non siate perplessi se il negozio di ottica si chiama “Au p’tit chien” (“al cagnolino”): l’espressione suona infatti pressoché identica alla parola “opticien”, il più sobrio “ottico”.

Be’, perché vi sto parlando di insegne francesi? Lettori, dovete sapere che proprio da un’insegna francese un importante scrittore italiano si è lasciato ispirare per il titolo di una sua opera. Parlo di Tommaso Landolfi, un autore che amava mostrare il nesso metafisico che c’è fra la letteratura e il gioco. Il libro cui sto pensando è LA BIERE DU PECHEUR: sì, sì, in maiuscolo e senza accenti, un tiro mancino di Landolfi, affinché il suo povero lettore si domandi all’infinito se il titolo significa “la birra del pescatore” oppure “la bara del peccatore”.

Va bene, ma in italiano puro c’è qualcosa? Eh, veramente in italiano abbiamo una più stretta corrispondenza tra fonemi e grafemi, perciò le parole che si pronunciano allo stesso modo ma hanno significati diversi non sono molte… per fortuna, in fin dei conti. Ma se noi siamo dei “francesi allegri”, come dicono gli appena eliminati dalla Coppa d’Europa 2020, dobbiamo pur aver trovato il modo di divertirci, no? Eccome! Tasso, ad esempio, nella Gerusalemme Liberata gioca con parole che si scrivono e si pronunciano allo stesso modo, che condividono lo stesso etimo, ma che hanno sfumature di significato diverse. Nell’undicesimo canto leggiamo:

l’asta ferrata fulminando lancia
Nessuna mural macchina si vante
d’avventar con più forza alcuna lancia.

La prima occorrenza di “lancia” è terza persona presente indicativo del verbo “lanciare“, invece la seconda è un sostantivo: si riferisce all’arma. Simili a questi sono i versi del ventesimo canto, in cui compare “porta”, di nuovo in qualità di sostantivo e di verbo:

Impetuoso e rapido disserra 
La porta, e porta inaspettata guerra.

Centone

Il centone non è roba per Carofiglio. È infatti un gioco che i dotti indirizzano ad altri dotti: un’opera letteraria in cui quasi ogni frase è una citazione di un testo preesistente…
Ah, no, non pensate male, ora non dovete congratularvi con Fusaro: non si possono copiaincollare brani altrui rasentando il plagio e pretendere così di aver realizzato un arguto gioco di parole! Gli autori dei centoni citano autori famosi, conosciuti da tutti i (veri) dotti, quasi come se il citare fosse un altro modo di strizzare l’occhio al “confratello”. Ovidio, Lucano, Orazio, Virgilio, sono solo alcuni dei classici nomi che involontariamente contribuiscono al successo dei virtuosi del centone. E questi ultimi non sono campioni di una moda recente: Virgilio, in particolare, fu già un punto di riferimento per Proba, importante poetessa romana della Tarda Antichità. Intorno al 362, Proba compose il Cento Vergilianus de laudibus Christi, un poema epico sulla creazione e la vita di Gesù, ottenuto con la giustapposizione di passi tratti dalle opere proprio di Virgilio, passi solo minimamente modificati.

Anche i Capitoli di Ludovico Ariosto, in certi punti, diventano dei centoni: in ogni terzina dell’opera, il terzo verso è tratto dal Canzoniere di Petrarca. Ovviamente, un terzo dei Capitoli è opera di Petrarca, non di Ariosto: ma ve l’ho detto, non è plagio, è una strizzatina d’occhio. La differenza può sembrare sottile, però sono certa che non vi sembrerà affatto un’inezia.
Anche perché vorreste dare del plagiatore o del “fusaro” (sì, come aggettivo) al prossimo autore? Io non credo: il suo nome è Pietro Bembo e sì, anche lui attinse a piene mani dallo scrigno di Petrarca. Per Bembo, la poetica petrarchesca era il non plus ultra dell’eleganza: e allora è ovvio che nei suoi componimenti, Bembo fosse estremamente restio a usare parole che prima non fossero già passate per la penna di Petrarca…

So che cosa volete obiettarmi, lettori, siamo ancora figli del Romanticismo, e almeno de iure poniamo l’originalità sopra ogni altro valore letterario. Che cosa può valere per noi un centone? De facto, però, è sempre un’altra storia: pensateci, non è forse un centone plurigenetico (ossia composto da citazioni di varie opere e autori) anche Il nome della rosa, novità delle novità ai suoi tempi, esperimento interessante, originalissima opera prima dell’Umberto Eco romanziere? Via, lettori, un centone è meglio di niente, non trovate? In fondo, era ed è tuttora un modo come un altro di comunicare in maniera più sottile con il proprio lettore, facendo leva su una cultura ampia e condivisa. Un po’ come gli autori di oggi, che citano The Big Bang Theory e Rick e Morty sapendo di poter contare sull’immediata comprensione del lettore. Come sono cambiati i tempi, non è vero? Cioè, il centone è sempre lo stesso, solo che oggi è costruito con autentiche schifezze.

Acrostico

Quanto vi piacerà questo gioco, ne sono sicura! Ecco, ta-dah… l’acrostico! Ah. FIAT, CIA, USA… giusto, quella roba lì? Be’, sì e no. Sì, perché l’acrostico è effettivamente un cugino dell’acronimo, e no, perché l’acrostico riguarda non le lettere costitutive di un nome, bensì le iniziali dei versi di un componimento. Eh, roba più da intellettuali, che da americanozzi eccitati all’idea di costruire un acronimo che renda “foche” i corpi speciali della marina. Giusto per fare il primo nome che mi viene in mente, l’acrostico è stato utilizzato da Giovanni Pascoli: in ciascuna delle poesie dedicate alle sorelle infelici è nascosto il nome della sorella cui è dedicato il componimento. D’accordo, a questo punto devo proprio riportarne una:

Mentre siedo, o sorella, a te da canto
Anni tristi, ben tristi anni! rammento;
Ricordo un lutto, una famiglia in pianto,
In mezzo alla miseria, al tradimento.
Un sorriso splendeva in quel dolore.
Caro sorriso che t’uscia dal cuore!
Caro il tuo balbettìo sempre lo stesso
In mezzo al cupo ragionar sommesso!
Nostra, di tutti noi, consolatrice,
Angelo della tua madre infelice!

Ah, come si dice su internet, “when you see it, you’ll shit bricks”. Va bene, non esageriamo, quel tenero “Mariuccina” non può sorprendere più di tanto, inoltre è facilissimo trovarlo. State pensando che l’acrostico sia un giochino puerile, proprio moscio? Eh no, torniamo ancora più indietro nel tempo e vediamo. L’autore è Boccaccio e l’opera è l’Amorosa visione, un poema in terzine poco conosciuto, fortemente allegorico e classificabile fra le opere didascaliche (a patto di classificare come poema didascalico anche la Commedia, che è la principale fonte di ispirazione per l’Amorosa visione). Ho detto che il poema non è poi così noto: già, difficilmente si studia a scuola, anche perché la critica letteraria non lo ama molto, lo considera un tentativo mal riuscito. Troppo artificioso, troppo ambizioso, troppo lontano dall’arte in cui Boccaccio si era perfezionato: sì, e allora se l’Amorosa visione non vale molto, quanto può valere Sembrava bellezza? Lasciamo perdere questi crucci, le risposte potrebbero non piacere. Ad ogni modo, l’Amorosa visione è effettivamente artificiosa, però io accompagnerei sempre a quest’aggettivo pure un “ingegnosa”: infatti, combinando le lettere iniziali dei primi versi di ogni terzina, si ottengono non tre nomi, non tre frasi, bensì tre interi sonetti; i primi due dedicati alla donna amata e il terzo (che è in realtà una ballata) dedicato ai lettori.
Che cosa ne dite adesso? L’acrostico è ancora una sciocchezza per bambini? D’accordo, d’accordo, l’Amorosa visione potrà anche non meritare un posto sull’altare delle opere immortali, ma vi sfido a non rimanere perplessi nemmeno per un secondo, dopo aver considerato che Splendi come vita è invece riuscito a intrufolarsi fra i candidati alla vittoria del più prestigioso premio letterario italiano. Insomma, Boccaccio riuscì a mettere in un unico acrostico più di mille lettere, la Calandrone invece ha molte difficoltà a scrivere una frase di senso compiuto, nonostante abbia deciso di non obbligarsi a contare sillabe e accenti…

Ma aspettate, non è finita! L’acrostico ha infatti molti nipotini: e uno dei più interessanti, almeno secondo me, è il cosiddetto l’acrostico tautogrammatico, una simpatica complicazione. Già, oltre a imporre di formare un acrostico come di consueto, il tautogrammatico costringe il poeta a costruire il verso usando solo parole la cui lettera iniziale è la stessa lettera iniziale della parola… iniziale. Vi faccio un esempio, via. Ecco una poesia di Edoardo Sanguineti, tratta dalla raccolta Segnalibro:

Se sa sedurti soltanto un sonetto,
Archetipo d’amaro amore assente,
Nasconderò nei tuoi nomi il mio niente,
Golfo mio, mia girandola, mio ghetto:
Umiliato unicorno, unico e urgente,
Inciderò in te impronte, intimo insetto,
Nodo dei nodi, nudo nervosetto,
Enfasi estrema, epigramma emergente:
Tenera in tutto, torre di tormenti,
Infarcito mio infarto, idolo, inferno,
Apriti a me, tu, aurora di aghi ardenti:
Muta medusa, muscolo materno,
Ascoltami, arida aspide, e acconsenti:
Tremo con te, tremendo, tardo terno.

L’avete notato, lo so, ormai la vostra vista è quella di un’aquila: “Sanguineti amat”. Chi ama, mi domandate? Non ci metto la mano sul fuoco, ma secondo me si tratta di una certa “aurora di aghi ardenti”, a cui la poesia è dedicata.

Lettori, voglio davvero concludere con l’acrostico, presentandovi una bella chicca. Il tipo questa volta si chiama “alfabetico”. Torniamo all’inizio, alla semplicità, anzi alla semplicità così pura che più pura non si può. Sì, perché nell’acrostico alfabetico le iniziali dei versi non veicolano un messaggio, semplicemente ricostruiscono… l’alfabeto. A pensarci bene, non è proprio corretto dire così. Un acrostico senza messaggio? Be’, per qualcuno il messaggio c’è eccome, per qualcuno che prende i giochi molto sul serio (no, non è Wittgenstein). Passiamo al Libro dei libri: la Bibbia (ebraica). Ventidue le strofe del Salmo 119, ventidue come le lettere dell’alfabeto ebraico; otto i distici di ogni strofa, otto volte la stessa lettera ripetuta all’inizio del distico. Ebbene, considerate che il contenuto esplicito del testo riguarda la Legge e l’atteggiamento dell’uomo di fronte alla Legge: sì, ma il Salmo fa anche capire ai più accorti che la Legge è inscindibile dal Creatore dell’uomo (e di tutto il resto). Infatti, l’alfabeto ebraico non è solo un insieme di grafemi e fonemi, anzi, è considerato (almeno da molte correnti dell’ebraismo) preesistente alla Creazione stessa. In poche parole, le lettere dell’alfabeto ebraico sono intimamente connesse alla natura Dio, il Quale, dopotutto, per creare “dice” ciò che crea. E per dire qualcosa, non ci vuole chissà quale sforzo deduttivo, di solito si usano le parole, parole composte di lettere…Quindi, il fedele che legge il Salmo 119, e comprende l’acrostico, capisce che non si tratta soltanto di un gioco arguto, ma di uno strumento utile alla sua meditazione religiosa.

Che cosa ne dite adesso, l’acrostico è proprio un semplice gioco da ragazzi?

Lipogramma

Ora vi illustro brevemente le regole del lipogramma, un gioco in cui vince chi riesce meglio a prendere in giro un ciccione usando tutti i sinonimi nel campo semantico di “grasso”. Tranquilli lettori, mi sto prendendo gioco di voi… magari fosse così semplice! Il lipogramma è in realtà un testo nel quale non deve comparire mai una certa lettera. Ecco, l’ennesima complicazione. E, di nuovo, si tratta di un gioco molto antico: già nel VI secolo a. C. il poeta Laso di Ermione scrisse un (oggi perduto) Inno a Demetra, omettendo la lettera sigma. E nel V secolo d. C. Nestore di Laranda riscrisse l’intera Iliade escludendo, per ciascun libro, una lettera dell’alfabeto greco: appunto, nel primo libro della sua versione manca la lettera alfa, nel secondo la lettera beta, e così via, fino ad arrivare al ventiquattresimo libro (in cui è omessa la lettera omega).
Ma il lipogramma non è un gioco per vecchi: nel Novecento l’OuLiPo (Opificio di Letteratura Potenziale) ha individuato in questo artificio letterario una costrizione ideale per stimolare la creatività e la fantasia degli scrittori. Infatti, se l’autore è costretto a evitare una certa lettera e dunque tutte le parole che la compongono, dovrà ingegnarsi con sinonimi, con perifrasi, con circonlocuzioni. Dovrà, insomma, evitare a tutti i costi la strada più facile e imboccare la più tortuosa. Georges Perec, membro dell’OuLiPo, accettò la sfida scrivendo La scomparsa, un giallo bizzarro e lungo più di trecento pagine, in cui non compare mai la lettera “e”. Ah, se solo oggi ci fosse la stessa voglia di impegnarsi! Invece no, devo proprio fare la brontolona: oggi basta sedersi in poltrona, rilassarsi dopo un pasto abbondante, e poi trascrivere i rumoroni simpaticoni delle interiora.
L’OuLiPo nacque in Francia ed ebbe fra i suoi esponenti di spicco, come ci si può aspettare, molti francesi. Eppure, come il calembour, noi italiani non siamo da meno: Italo Calvino, divenuto pure lui membro dell’OuLipo, compose una poesia in cui il lipogramma non è assoluto, ma… graduale. Guardate:

Aiuole obliate gialle d’erba, sa
un cupo brusio smuovervi, allusione
ad altre estati, cetonia blu-violetta,
enunciando noumeni oscuri: tutto fu,
sarà, ed è in circolo: dunque è sempre
presente nelle eterne senescenze
e effervescente d’ere, nel serpente
d’etere, seme, cenere, erbe secche.

Avete indovinato in quale ordine sono distribuite le vocali? È divertente impiegare qualche minuto per scoprire l’inghippo, però se avete fretta, riporto la spiegazione data da Calvino stesso:

Sono partito dalla parola italiana più corta, che contenga tutte le vocali: aiuole. in ogni verso della prima quartina tutte le vocali compaiono e spariscono a una a una nell’ordine seguente:
primo verso : nella prima parola, tutte le vocali; nella seconda a, e, i, o , e così via fino all’ultima parola, che ha solo la a;
secondo verso : la prima parola ha solo la u , la seconda ha u e o , e così via fino a ricostituire la serie completa;
terzo verso : stesso schema del primo, all’incontrario;
quarto verso : stesso schema del secondo, all’incontrario.
La seconda quartina si apre con la successione a a, e e, i i, o o , u u. Il resto della poesia utilizza soltanto la vocale e.

Sono sicura che a questo punto desiderare chiedere spiegazioni a qualche magnifico rettore: esattamente perché esiste una facoltà di Lettere indipendente dalla facoltà di Scienze matematiche?

Anaciclico

Ehi lettori, vi ricordate di Starway to Heaven dei Led Zeppelin? Mi auguro che non siate dei fan delle “canzoni” di Sangiovanni, o di altra cacca soft… Ebbene, ascoltate Starway to Heaven al contrario, poi ditemi se a un certo punto non vi capita di udire distintamente le parole “I’ve got to live for Satan” e “Here’s my sweet Satan”.
Oh lettori, sto scherzando di nuovo… suvvia, questo è un articolo sui giochi! È vero non (sempre) esistono messaggi subliminali satanici nei testi musicali, la maggior parte delle volte quelle che sembrano parole di senso compiuto sono soltanto pareidolie acustiche. Non è invece una forma di pareidolia l’anaciclico, l’ultimo dei nostri giochi di parole e forse quello più malizioso. L’anaciclico riguarda ancora la poesia: in sostanza, è un verso o un distico che può essere letto sia da sinistra a destra, sia da destra a sinistra. A seconda della direzione di lettura, però, il significato cambia drasticamente. Vi mostro subito un esempio, i famosi distici dedicati al papa francese Clemente VI:

Laus tua, non tua fraus, virtus, non copia rerum,
scandere te fecit hoc decus eximium.
Pauperibus tua das, nunquam stat janua clausa:
fundere res quaeris, nec tua multiplicas.
Conditio tua sit stabilis, non tempore parvo
vivere te faciat hic Deus omnipotens.

Lettori, se siete dei madrelingua non vi serve altro. Se invece non siete dei madrelingua, e avete sotto mano un vocabolario latino sopravvissuto agli anni di liceo, potete divertirvi a tradurre. Se però il latino proprio non volete masticarlo, vi agevolo e vi regalo la traduzione:

Il tuo merito, non la frode, la virtù, non la ricchezza, ti hanno fatto salire a questo altissimo onore. Tu offri ai poveri ciò che è tuo, la tua porta non è mai sbarrata per loro: cerchi di diffondere le tue ricchezze e di non moltiplicare i tuoi beni. Che la tua sorte sia stabile, che non sia breve il tratto di vita che Dio onnipotente ti accorderà.

Bello e lusinghiero, non trovate? Allora, per carità, non facciamo nessuna inversione, rimaniamo sulla retta via! Ah, troppo tardi, lo sapevo… e va bene, invertiamo l’ordine delle parole distico per distico. E scambiamo anche i distici, va’! Ecco il nuovo testo:

Eximium decus hoc fecit te scandere rerum
copia, non virtus, fraus tua non tua laus.
Multiplicas tua, nec quaeris res fundere;
clausa janua stat, numquam das tua pauperibus.
[…]

A questo altissimo onore ti ha fatto salire la ricchezza, non la virtù, la frode, non il merito. Tu moltiplichi i tuoi beni e non cerchi di diffondere le tue ricchezze; la tua porta è sempre sbarrata, non offri mai ai poveri ciò che è tuo. […]”. Manca solo la garbata miniatura di un bel dito medio alzato, non vi pare?
Certo lettori, non vi sarà sfuggito che in latino i versi anaciclici e i versi palindromi sono particolarmente frequenti, proprio perché non esistono gli articoli. In italiano è molto più difficile camuffare dei distici velenosi come quelli indirizzati a Clemente VI. Noto è il sonetto di Luigi Groto sull’amor sacro, che diventa una calzante descrizione dell’amor profano, se letto con la tecnica che vi ho illustrato. In tutta sincerità fatico a trovare altri esempi, però forse potremmo rileggere L’acqua del lago non è mai dolce: e chissà, magari tra le sue parole troveremo, se non qualche anaciclico, qualcuno degli altri giochi della mia piccola lista. Anzi, mi sa tanto che rivedo già il mio giudizio sul romanzo della Caminito. Sì, io qui lo dico… bello, non disgustoso affatto…

Declamerete il pronto vino

Lettori, il divertimento è finito. È finito, a meno che non prendiate un bel libro arguto e spiritoso, che sappia dimostrarvi con maestria che cosa si può fare con le lettere e con giusto un po’ di ingegno (e di impegno). Ma che dico? Potete voi stessi cimentarvi con questi e con gli innumerevoli altri giochi di parole che la nostra bella e amata lingua ci consente. Non avete bisogno nemmeno di carta e penna! Però so che viviamo in un’era tecnologica, e che ci vuole dell’elettronica per rendere più appetibili certe cose…
Va bene, va bene! Datemi tempo, ma potete già stare sicuri che, quando avrò trovato i finanziatori, il mercato videoludico sarà rivoluzionato dal primo simulatore virtuale di calembour e di anaciclici. So che sarà un successone: e credetemi, sono tremendamente seria…

Sara

Ciao! Sono la fondatrice del blog letterario "Il pesciolino d'argento", amo profondamente i libri, l'arte e la cultura in generale.

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Una risposta

  1. Carlo ha detto:

    Ti ho incontrata x caso e sono rimasto affascinato. Non prometto di leggerti spesso ma certo, quando ci riuscirò, con piacere e ammirazione